L’Iran esiste e resiste nei millenni. A scandirne la traiettoria sono i momenti di rottura spesso violenti che ne hanno caratterizzato le successive trasformazioni nel corso della storia. Il cessate il fuoco con Israele, giunto a seguito dell’intervento spettacolare (ma forse di dubbia efficacia) degli Stati Uniti a supporto del proprio fondamentale alleato levantino, ha lasciato quasi intatta la Repubblica Islamica. Decapitata dei propri confratelli e prime linee, Hezbollah e Hamas tra tutte, Teheran ha oscillato tra una latente incapacità di difendere il proprio spazio aereo, manifestando anche un buco clamoroso nella propria intelligence, contaminata dal Mossad, e un assaggio della propria proverbiale capacità d’attrito.
Con la popolazione meno propensa a rovesciare gli ayatollah su interessata e per nulla umanitaria spinta occidentale, dunque ricompattatasi in maniera insperata contro il nemico comune, sfidare l’Iran diviene un compito ostico. Non risolvibile semplicemente mediante attacchi aerei. La Repubblica Islamica si preparava da anni a questa eventualità. Ha stipato migliaia di missili e munizioni, nonché i risultati del proprio prezioso (e ora esistenziale) programma atomico in luoghi talvolta segreti o di difficilissimo accesso. Sa di poter far leva sulla quantità piuttosto che sulla qualità, bombardando senza sosta gli scudi anti-missile israeliani fino a renderli sempre meno efficaci o minacciando di bloccare lo stretto di Hormuz e i suoi preziosi flussi di petrolio, con danni probabilmente incalcolabili.
Non potendo contare che su un aiuto di facciata da parte della Russia, troppo impegnata in Ucraina e verso la quale permane una certa diffidenza, eredità di un Ottocento e Novecento in cui i due imperi furono per molto tempo rivali, e solo su qualche aiuto tecnico da parte dei cinesi, gli iraniani hanno capito di dover fare da soli. Oggi come in ogni fase della propria storia millenaria, i persiani sanno piegare il tempo a proprio vantaggio. Se n’è reso conto Michael Axworthy, scrivendo in “Breve storia dell’Iran”, come molto dell’anima attuale dell’impero persiano ai più incomprensibile, sia il frutto di una stratificazione che ha lasciato intatte le ambizioni e la tenacia del suo popolo attraverso i millenni.
La nostra storia ci ha disabituato a cogliere il punto di vista del mondo non occidentale. Così l’impero achemenide, prima grande organizzazione politica persiana, erede delle tradizioni dei Medi e dei Babilonesi, portatore della prima vera visione imperiale del Vicino Oriente antico dopo l’esperienza degli Assiri, viene raccontato in Occidente specialmente in contrapposizione alla libertà dei Greci. Di questi ultimi, unificati dai Macedoni, furono raccontate le gesta e la capacità, sotto la guida di Alessandro Magno, di conquistare tutto l’impero persiano. Tralasciando che le fonti persiane, più che alle gesta eroiche e ai provvedimenti di Alessandro, guardano alle uccisioni dei maghi e alla distruzione e al saccheggio dei propri templi. Negli scritti zoroastriani, Alessandro viene definito addirittura guzagstag, ossia “maledetto”, epiteto condiviso solo con la divinità maligna Ahriman.
Più volte il destino della Persia si è dovuto confrontare con la conquista e la sottomissione allo straniero. Ciò ha fatto scaturire la scintilla per una rinascita e una trasformazione. Spesso, dinanzi a un’eccessiva denaturazione del carattere “originario” della tradizione persiana, sono seguite rivolte e l’instaurazione di imperi meno tolleranti nei confronti dei nemici esterni. Così fu il caso dei Parti, eredi ellenizzanti della monarchia seleucidica greca, spodestati dal ritorno della tradizione imperiale achemenide incarnata dalla nuova dinastia dei Sasanidi.
La rivalità con l’impero di Roma si tradusse in un reciproco indebolimento. Nel caso dei persiani, ciò avvenne con l’assorbimento violento da parte della dirompente avanzata arabo-islamica. Conquista che si tradusse nell’annichilimento della tradizione religiosa zoroastriana, in realtà mutuata in una versione persianizzata dell’Islam in salsa sciita.
La mutazione antropologica rimase solamente superficiale e ancora una volta l’elemento indigeno riaffermò la propria identità. L’alterità venne incardinata in un nuovo canone imperiale, rappresentato dall’ascesa della nuova dinastia dei Safavidi, inizio di una Persia moderna, ufficialmente sciita, e in perenne lotta contro l’impero ottomano sunnita. Anticamera di un Iran che attraverso le ultime dinastie imperiali, con l’intrusione sempre più evidente e tecnologicamente insostenibile da parte delle cancellerie imperiali, ha assunto l’attuale veste politica. La fine dell’impero dei Pahlavi nel 1979, fu soltanto il culmine di un lungo processo di avvitamento e di intromissioni straniere. Segnato anche, come sottolineato dall’autore, dalle crescenti aspirazioni degli iraniani a un profondo rinnovamento politico e sociale. Queste ultime, tuttavia, profondamente critiche nei confronti delle interferenze straniere. Scrive Axworthy, come il termine adatto, scevro da chiavi di lettura troppo occidentaliste della storia dell’Iran, sia iranicità:
«Abbiamo visto che esisteva un senso di iranicità, che andava oltre la realtà locale o dinastica, all’epoca dei Sasanidi e prima ancora. Nazionalismo è la parola sbagliata, ma negare qualsiasi identità iraniana in quest’epoca comporta alcuni seri contorcimenti sul piano dell’evidenza e della logica.»
Distinguere il piano delle aspirazioni della popolazione da un asettico appiattimento in senso occidentalista attraverso la storia, vuol dire entrare nella profondità dell’anima iraniana, velata di un’ancestrale insicurezza.
Significa anche riaprire le porte a un approccio realmente diplomatico. La storia non insegna a non ripetere gli stessi errori, quanto a entrare nella mente, nei traumi e nelle aspirazioni dei popoli. L’Iran vive per rimanere identico a se stesso, danzando pericolosamente e da millenni tra il caos e l’autocrazia, desiderando, grazie alla propria giovane popolazione specialmente femminile, di riprendere tra le mani il proprio destino e la propria libertà. Sovente disdegnando che qualsiasi possibile moto libertario venga sobillato o anche solo pensato dall’estero. Una distensione e una normalizzazione dei rapporti, con relative garanzie di sicurezza, è quanto la Repubblica Islamica auspica. Ciò che gli Stati Uniti, stanchi e potenzialmente disinteressati dall’impegnarsi nuovamente in Medio Oriente, con il rischio di sprecare ancora le proprie forze, dovrebbero e potrebbero desiderare. Allentando il proprio appiattimento filo-israeliano, foriero di ulteriori escalation:
«Se l’Iran fosse in grado di normalizzare i suoi rapporti con gli USA, di rimuovere la minaccia di un cambiamento di regime e di ottenere anche solo una versione limitata delle garanzie di sicurezza di cui godono gli alleati degli Stati Uniti, il bisogno percepito di una capacità nucleare militare si ridurrebbe di molto, o sarebbe del tutto eliminato.»