La caduta del regime baathista siriano segna un punto di svolta nello scenario mediorientale, già di per sé ricco di insidie e fibrillazioni. Ridefinendo rapporti, equilibri e ruoli di questa complessa e spinosa scacchiera geopolitica i cui sviluppi sono spesso fraintesi e distorti dal troppo diffuso wishful thinking. Per meglio comprendere i principali sviluppi mediorientali e le maggiori conseguenze per i principali agenti regionali (dalla Turchia all’Iran) in gioco, abbiamo intervistato l’ambasciatore Mauro Conciatori: diplomatico di spessore, già ambasciatore in Iran, Vice Direttore Generale degli Affari Politici del Ministero degli Esteri competente per Mediterraneo e Medio Oriente, Capo dell’Unità per la Federazione Russa, Paesi dell’Europa Orientale, Caucaso e Asia centrale.
–Come si è giunti alla fulminea caduta del regime di Assad in Siria?
I conflittuali equilibri del Medio Oriente sono in relazione diretta con i rapporti di forza militari. Da più di un anno Israele, confortato dal fattivo sostegno militare, diplomatico e finanziario della principale superpotenza globale, combatte guerre su sette fronti, uscendone allo stato vincitore su cinque e come minimo non perdente sugli altri due. Ne risulta modificata in profondità l’equazione militare, con ovvie ricadute su quella geopolitica.
Che questa azione sia finalizzata a un sostanziale ribaltamento degli equilibri regionali è stato esaurientemente spiegato da Netanyahu stesso nel suo intervento alle Nazioni Unite il 27 settembre scorso. Quel giorno (che coincise col bombardamento israeliano di Beirut in cui fu ucciso il capo di Hezbollah, Nasrallah) egli illustrò due eloquenti mappe: quella del Medio Oriente esistente da lui percepito, con una mezzaluna sciita sotto influenza di Teheran protesa come una minacciosa tenaglia attorno a Israele, e quella del Medio oriente futuro da lui auspicato, in cui tale tenaglia si dissolve: in questa seconda carta il terreno appariva a suo avviso sgombro per la normalizzazione fra Israele e i Paesi arabi del Golfo ai sensi degli Accordi di Abramo, nonché per il progettato corridoio multimodale India-Giordania-Israele-Europa (il cui Memorandum d’Intesa era stato appena firmato tra India, USA, UE, Arabia Saudita, Italia, Francia e Germania a margine del G-20 di Delhi). I conflitti in corso hanno questo sfondo geopolitico. E una volta che le tessere del mosaico regionale cominciano a spostarsi, l’effetto domino è inevitabile. In tale contesto va collocata la marcia trionfale su Damasco degli islamisti di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) vicini ad Ankara, ultimo avatar della galassia Al Qaeda poi ribattezzata al Nusra.
–Sta dicendo che la caduta di Assad è collegabile a un disegno portato avanti da Israele?
È quanto grossomodo sostiene una prima scuola di pensiero. Subito dopo il repentino collasso del regime siriano, buona parte degli osservatori vi ha letto l’allinearsi di Ankara a disegni israelo-americani. È stata evocata la vecchia strategia elaborata da ambienti Neocon di Washington nei primi anni Duemila nel quadro concettuale del “Nuovo secolo americano”: essa mirava a frammentare, anche attraverso la strumentalizzazione dell’Islam jihadista, i Paesi limitrofi a Israele in modo da affermare il dominio regionale dello Stato ebraico in quanto funzionale all’egemonia globale USA, magari col corollario di un attacco militare all’Iran per rovesciarne il regime. Una linea di pensiero combaciante con le idee di Netanyahu, forse non estranee alla sua genesi. Secondo questa lettura degli eventi, Erdoğan avrebbe dunque abbandonato il fronte diplomatico con Russia e Iran detto “di Astana” (perché lì si riuniva) che nel 2017 definì un precario equilibrio siriano, per allinearsi al disegno di matrice Neocon: conterebbe di ricavarne dividendi più copiosi in termini di agenda neo-ottomana, in particolare l’influenza su Aleppo. E per dare il via alla frammentazione della Siria anche a suo proprio beneficio, avrebbe perciò mosso il proxy HTS (scrupolosamente risparmiato dai bombardamenti americani contro ISIS nel 2019, che, anzi, lo resero egemone sulla galassia islamista in Siria).
–Ma questa, diceva, non è che una delle possibili letture.
Infatti. Forse qualcosa non quadra. Bashar Assad era per Israele nemico sedicente e perfetto, che acconsentiva senza fare una piega all’utilizzo del suo Paese come poligono di tiro per l’aviazione israeliana ai danni dei suoi malcapitati protettori libanesi e iraniani. Va anche osservato che gli Israeliani non sembrano esattamente rassicurati dagli sviluppi a Damasco, tanto da aver obliterato in pochi giorni la maggior parte delle capacità militari siriane con i più estesi bombardamenti mai realizzati dalla loro aviazione, e da aver allargato l’area di occupazione della Siria ben oltre le alture del Golan, sino a 20 km da Damasco, messa ad ogni utile fine in linea di tiro. Forse non era che il secondo tempo, già concordato, della frammentazione della Siria. O forse Israele prende contromisure unilaterali perchè non si fida di qualcuno. Potrebbe trattarsi degli islamisti di HTS, per quanto in decenni di esistenza non risulta che nessun avatar dell’Islam jihadista l’abbia mai fatto segno del minimo atto ostile; e se questo non è avvenuto dev’esserci qualche buona ragione. L’altra possibilità è che non si fidi della longa manus che Erdoğan allunga sulla Siria.
–Quindi l’operazione turca potrebbe non essere stata concordata con Israele né con gli USA?
È la seconda possibilità che gli analisti cominciano ora a ipotizzare. La tregua libanese, mediata dall’abile leader sciita Nabih Berri, prelude alla fuoriuscita del Libano dalla tutela siro-iraniana, ponendo le condizioni per il superamento degli equilibri “di Astana” in Siria. Qualora non sia stato compartecipe a questa dinamica, è possibile che Erdoğan vi abbia scorto un rischio per i suoi interessi in Siria, che non sono riducibili alle ambizioni neo-ottomane ma toccano anche il nervo scoperto della partita interna e esterna coi curdi. E il proxy americano in Siria è il movimento curdo YPG, che controlla ampie aree nell’est del Paese grazie anche alla presenza di forze militari USA, e che il “Sultano” ritiene filiazione del PKK, la sua bestia nera interna. D’altra parte nelle ultime settimane egli aveva tentato di incontrare Assad, ottenendone tetragoni e incomprensibili rifiuti, nonostante la mediazione russa e i pesanti fattori di leverage turco sul terreno.
Era peraltro chiaro che Bashar negli ultimi tempi tentava di sfilarsi dalla tutela iraniana e di rafforzare il rapporto con le monarchie del Golfo, che l’avevano fatto riammettere nella Lega Araba: è possibile che attraverso la loro mallevadoria sperasse di pervenire a una distensione con l’Occidente per superare le sanzioni che strangolano l’economia. Tutto ciò considerato, alcuni ipotizzano che il tandem Israele-Neocons americani avesse in animo sì una frammentazione della Siria, ma articolata sul rafforzamento della componente curda a est; sull’emersione di qualche potere locale storicamente simpatetico con Israele, come i Drusi, a sud; e su una Siria residuale ulteriormente indebolita e affidata al simulacro di Bashar sotto tutela non più iraniana ma saudita. Un incubo geostrategico alle porte di casa per il “Sultano”, che per scongiurarlo avrebbe mosso in anticipo il proxy HTS dando scacco matto al regime. Un’operazione, se così fosse, anticurda, cioè antiamericana, cioè anti israeliana, e per ultimo antisaudita. Il che contribuirebbe a spiegare perché Russia e Iran si siano persuase a non intervenire a favore di Assad, dopo un incontro a Doha del 7 dicembre al livello Ministri degli Esteri del formato “Astana” allargato a vari Paesi arabi.
Due possibili letture, dunque, del comportamento turco. Verosimili e logicamente sostenibili, ma diametralmente opposte. Conviene tenerle entrambe in considerazione, in attesa di capire meglio.
–Ma quali scenari prevede adesso in Siria?
Ne sono teoricamente possibili tre. Il primo è la stabilizzazione di una Siria unitaria e pluralista tramite la conversione – sulla… via di Damasco – di Ahmad al-Shara (alias al-Jawlānī) a un’agenda stabilizzatrice, inclusiva, tollerante nei confronti delle varie componenti etniche e religiose, che avvii un processo di generale pacificazione. Scenario ottimistico, che presuppone fra l’altro che la Siria sia ancora economicamente sostenibile, benchè il PIL sia caduto dell’85% dal 2011 e i costi della ricostruzione siano stimati a oltre 300 miliardi di $. Il secondo scenario è che questo sforzo produca sì un potere centrale, ma fragile e destabilizzato da forze informali fuori controllo sul territorio. La terza ipotesi è che il solo sbocco sia un caos generalizzato, col proseguimento della guerra civile a più o meno alta intensità. In fondo la sigla HTS è solo un ombrello che copre diverse organizzazioni islamiste, ciascuna dotata di sensibilità specifiche.
–E come reagiranno a questi sviluppi i principali attori dell’area?
Intanto cercheranno tutti di rimandare indietro i profughi siriani. La narrazione rassicurante sul processo di transizione mira anzitutto a liberarsi del loro costo economico e sociale.
Prevedere i futuri comportamenti della Turchia, presuppone di risolvere a monte l’equazione euristica fra le predette due interpretazioni alternative delle sue mosse, in modo da comprendere che parte stia esattamente recitando in commedia. La Russia cerca di mantenere il controllo delle sue due basi, ma sembra concentrata sulla priorità ucraina. L’Arabia Saudita, spiazzata o meno che sia dalla mossa turca, prova a rilanciare la mediazione sulla crisi di Gaza. L’Iran a mio avviso aspetterà di vedere più chiaro negli equilibri siriani, avviando contatti con HTS ma mantenendo la capacità di proiettare milizie: i colpi più duri li ha ricevuti prima della caduta di Assad, che per le ragioni già esposte non considera probabilmente una gran perdita.
Quanto a Israele, negli ultimi mesi ha ottenuto successi in serie, spezzando la continuità dell’asse di resistenza a guida iraniana, rovesciando gli equilibri libanesi, e infliggendo colpi terrificanti all’intero universo palestinese. Sullo sfondo resta la complessiva partita iraniana: i sogni di regime change e l’ipotesi di attacco militare in cui coinvolgere gli USA. Ma forse, nel modificato contesto Netanyahu potrebbe ragionevolmente decidere di non avere più interesse a rischiare, preferendo consolidare il molto che ha ottenuto. Salvo che non siano ragioni interne a spingerlo al nuovo rilancio. Molti di quanti auspicano la fine di questo criminale risiko si augurano che Netanyahu perda il potere; ma forse, giunti a questo punto, bisognerebbe paradossalmente augurarsi piuttosto la fine dei suoi guai giudiziari…
–E gli Stati Uniti?
Sono diventati un fattore poco prevedibile su qualsiasi scenario. La loro politica estera è la risultante non sempre coerente di uno scontro interagenzie senza quartiere, alimentato da gruppi di interesse e filiere di potere contrapposte. Con l’attuale amministrazione ha prevalso la pulsione alla power politics: sul piano teorico l’hanno alimentata gli ideologismi di Neocons e Neodem, legati a una visione unilaterale del ruolo USA nel mondo; sul piano concreto l’hanno incoraggiata i corposi interessi del complesso militar-industriale. Trump dice di voler porre fine alle guerre inutili, e la sua inclinazione transattiva e business oriented potrebbe suggerirgli una correzione verso la realpolitik e il vecchio balance of power alla Kissinger. Tuttavia alla guida delle strutture chiave per la proiezione esterna ha nominato piromani piuttosto che pompieri. E, per di più, certi mastodonti burocratici seguono logiche e inerzie proprie, spesso impermeabili ai cambi di stagione politica.
–E come descriverebbe il ruolo degli europei e dell’Europa di fronte al protagonismo turco?
L’Europa non esiste. Ciascuno Stato membro persegue i propri interessi, in genere divergenti da quelli degli altri, che non si perita di danneggiare. Le classi dirigenti hanno cultura storico-politica inadeguata alle eccezionali circostanze dell’attuale, convulsa, fase di multi-polarizzazione ad alta tensione, e si allineano più o meno di buon grado alle richieste del maggiore alleato, talvolta prevenendole.
–Torniamo all’Iran, ove lei è stato a lungo Ambasciatore. Come impattano gli sviluppi regionali sulle scelte di politica estera?
Hanno compromesso l’equazione di deterrenza, cioè la sicurezza. Deterrenza è un concetto chiave per l’Iran. All’inizio della propria esistenza la Repubblica Islamica provocò gli Stati Uniti con la vicenda degli ostaggi, che per Khomeini era funzionale alla liquidazione di altre componenti rivoluzionarie avverse al suo disegno. La pagò con isolamento internazionale e accerchiamento, che sfociarono nell’aggressione militare di Saddam Hussein – sostenuta dai Paesi occidentali e dalla quasi totalità di quelli arabi – e in un milione di morti iraniani. La politica estera della neonata Repubblica Islamica fu marcata da questo imprinting: un’acuta percezione di pericolo, che esigeva convincenti strumenti d’interdizione, necessariamente asimmetrici. La deterrenza, appunto. Che poi misure di sicurezza ritenute da un attore indispensabili e vitali vengano da altri percepite come mortalmente aggressive, è un classico delle relazioni internazionali. L’assenza di canali di dialogo politico, in questo caso perfino di relazioni diplomatiche dirette, aggrava le incomprensioni. Fino alla costruzione di aspre narrazioni identitarie fondate sulla minaccia reciproca.
–Quindi l’Iran si attrezzò con una deterrenza efficace.
Forse anche troppo. La articolò sui due pilastri di un’autarchica tecnologia missilistica volta a compensare la strutturale debolezza dell’arma aeronautica, e sulla creazione di una rete di clientes armati in prossimità dei confini israeliani. Sfruttò capacità di proiezione proprie e ripetuti autogol geopolitici della compagine avversa lungo tutto lo scenario regionale. E prima dell’incursione di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023, poteva contare su un “asse di resistenza” territorialmente continuo – dall’Iran al Libano via Iraq – corredato da rapporti più o meno stretti con Hamas e con gli Houthi dello Yemen. Cioè il “crescente sciita” illustrato nella menzionata mappa di Netanyahu.
Fu perché era forte di questi due strumenti di deterrenza che Teheran potè agganciare gli USA in un negoziato sul controllo internazionale rafforzato del programma nucleare civile, giungendo nel 2015 all’accordo JCPOA. A spezzare questa dinamica, secondo i pressanti auspici israeliani, provvide due anni dopo la denuncia unilaterale del JCPOA da parte dell’amministrazione Trump, per la gioia delle componenti conservatrici e radicali iraniane che, contrarie all’apertura all’occidente, avevano dovuto mordere il freno per anni.
Oggi per l’Iran il quadro di deterrenza è stravolto. Con l’arco territoriale dell’asse di resistenza spezzato in più punti, Teheran non può più alimentare una seria minaccia militare ai confini di Israele. Quanto alla dotazione missilistica, il 26 ottobre scorso ha subito un pesante bombardamento di Israele, che sostiene di aver significativamente danneggiato sia lo stock esistente, sia le capacità di reintegrarlo, sia quelle di produrre il carburante necessario ad alimentarlo. Teheran smentisce, ma certo è che una rappresaglia a questa incursione non l’ha ancora azzardata. In un tale quadro, appare molto improbabile che il programma nucleare venga ancora usato come carta negoziale, e anzi il dibattito sulla sua conversione da civile in militare torna di forte attualità, specie se i danni dell’attacco del 26 ottobre sono stati pesanti quanto gli israeliani sostengono.
-Infatti molti ritengono che a questo punto l’Iran cercherà di dotarsi dell’arma nucleare.
È possibile ma non scontato. Tale scelta comporterebbe ingenti costi. Perciò su di essa c’è aspro dibattito. Per la bomba spingono da anni componenti radicali della galassia militare, in prevalenza Pasdaran della seconda generazione o più giovani: invocano l’esempio della Corea del Nord, che grazie a essa s’è affrancata da minacce militari immediate. Sono invece contrari riformisti e pragmatici, che non vogliono tagliare ogni ponte con l’occidente. Ma prudenti restano anche militari più moderati nonché il potente gruppo di potere dei religiosi della prima generazione rivoluzionaria, oggi ultraottantenni, che, pur perseguendo la deterrenza, in politica estera preferiscono mantenere aperti spiragli piuttosto che chiudersi porte dietro le spalle. Difendono la vigente fatwa con cui la Guida Suprema Khamenei condannò nel 2003 le armi di distruzione di massa.
Esaminiamo i termini concreti della questione. Oggi l’Iran è in una situazione di latenza nucleare: possiede cioè le capacità materiali e cognitive per fabbricare l’arma in pochi mesi. Non è andato oltre perché ritiene la latenza già deterrente rispetto a un attacco ai siti. Questo danneggerebbe infatti infrastrutture e dotazioni, ma non cancellerebbe le conoscenze. Né sarebbe sufficiente a dislocare la Repubblica Islamica, che subito dopo lancerebbe senza più remore la produzione in serie di ordigni nucleari, realizzabile in tempi medio-brevi anche a dispetto di ulteriori attacchi. A quel punto si scatenerebbe una corsa all’arma nucleare in tutto il Medio Oriente. Scenario da incubo per Israele, rispetto al quale Teheran ha finora scommesso che il rivale preferisca convivere con la latenza iraniana pur di restare l’unico Stato compiutamente nucleare della regione. Ecco perché autorevoli voci ritengono che passare subito al nucleare militare sia superfluo, oltre a comportare un immediato attacco israelo-americano contro le infrastrutture nucleari, con costi che un Paese prostrato dalle sanzioni e ribollente di aspirazioni socio-politiche insoddisfatte dovrebbe cercare di evitare.
Il dibattito sulla bomba cela peraltro anche una complessa lotta di potere fra militari e religiosi, e fra prima e seconda generazione rivoluzionaria, che interseca la partita della successione a Khamenei. Ma al momento resta impregiudicato. Certo, gli sviluppi regionali soffiano con forza nelle vele dei radicali.
di Francesco Latilla e Francesco Subiaco