Russia 1985-1999: TraumaZone è il documentario che nessuno a Mosca si sognerebbe di mandare in onda; troppa l’umiliazione e gli spiacevoli ricordi, eppure sarebbe un perfetto spot elettorale per le presidenziali del prossimo anno. Un necessario viaggio infernale, un’inarrestabile discesa attraverso le bolge della disperazione d’un mondo che si dissolve; imprescindibile per capire la Russia di oggi. La caduta del comunismo, mostrato dal “lato sbagliato” della cortina – una visuale tanto inedita quanto dimenticata -, ci permette d’osservare l’impotenza delle istituzioni che si sgretolano e lo spaesamento dei cittadini durante il crollo sistemico dell’utopia socialista. Stiamo, infatti, davvero assistendo a qualcosa d’epocale, paragonabile solamente alla caduta dell’Impero Romano montata in un video di sette ore.
La forza del documentario risiede non solo nella vastità dello sterminato (per lo più inedito) materiale d’archivio registrato dalla sezione moscovita della BBC, ma soprattutto nella rinuncia a qualunque commento in voiceover di fronte alla forza intrinseca delle immagini. Il risultato è tremendamente crudo, violentemente reale, senza censura; montato secondo un’apparentemente straniante giustapposizione d’argomenti e servizi giornalistici che, seguendo un sotterraneo fil rouge, ci trasportano nel dramma d’una società che va in frantumi.
Il regista Adam Curtis utilizza indifferentemente tutta l’eterogenea massa audiovisiva – telegiornali e pubblicità, video rock e concorsi di bellezza, video privati o reportage giornalistici, hanno tutti lo stesso spazio, la medesima importanza – per mettere in scena un grigio e triste amarcord d’una libertà improvvisamente ritrovata amara. Coerentemente a questa impostazione l’intervista a una bimba che chiede la carità per strada ha lo stesso valore d’una conferenza stampa di Gorbacev che beve latte o d’un bombardamento a Grozny, perché lo scopo è proprio quello di riportare alla luce il grande trauma che il “neo-zarismo” di Putin ha cercato in tutti modi di rimuovere, cancellando l’onta d’un Paese in ginocchio dove alla mancanza d’una autorevole leadership si accompagnava la vergognosa ignominia d’un passato da condannare e un presente in bancarotta.
Il crollo del comunismo in Russia viene dettagliatamente mostrato in sette tragiche tappe che si snodano dal 1985 fino al 1999. Il decadimento dell’economia pianificata, l’andamento disastroso della guerra afghana e la catastrofe di Chernobyl, appaiono già come degli evidenti prodromi; scricchiolii d’un sistema in difficoltà a gestire le forze centripete che si rafforzano nell’est Europa tramite movimenti di massa come Solidarnosc; ma la cura della nuova dirigenza – massicce dosi di Perestroika e Glastnost – si rivela perfino peggiore della malattia. Riemerge immediatamente il nazionalismo (in Trans-Caucasia sventolano le prime bandiere nazionali e si contano i primi morti), mentre il tenore di vita precipita a un livello insostenibile. Non solo inflazione e disoccupazione flagellano l’economia; la crisi rapidamente si estende in ogni ambito della società, travolgendo la politica, l’ordine pubblico, la logistica; diventando perfino “spirituale” perché è l’intero “universo del senso” a venire improvvisamente meno, lasciando i russi sconcertati, disorientati di fronte a un mondo che non riconoscono più, meri soggetti in balia delle incontrollabili onde della Storia.
Come descrisse bene Zinoviev nel suo Saggio sulla Tragedia della Russia “l’ideologia sovietica si basava sulla concezione d’un ideale ordinamento sociale da realizzarsi nel futuro […]; il Paese viveva nella coscienza di una grande missione storica, che giustificava ogni difficoltà e ogni sciagura che si abbatteva su di esso”. Venuta meno l’URSS anche il futuro stesso diventa quindi segnato, svanito; mentre il presente vacillava sulle gambe tremolanti d’uno Eltsin che, tra la costernazione generale, abbandona la presidenza del PCUS in favore d’una nuova formazione chiamata ironicamente Volontà del Popolo. La Legge delle Cooperative – sorta di rivisitazione della NEP leniniana – spalanca alla malavita, l’unico gruppo a detenere capitali, il controllo delle attività economiche più redditizie. Emergono i primi oligarchi: Khordorkovsky sdogana il trading mentre Berezovsky si appropria delle tv di Stato. Il mercato nero diventa l’unico luogo dove sia possibile comprare (esclusivamente in dollari) beni di prima necessità e così, mentre il Paese scivola nella povertà e la gente è costretta ad accamparsi nelle stazioni ferroviarie, si fondano imperi miliardari. Smolensky fonda la prima banca d’investimento privata, utile a far defluire all’estero gli immensi profitti dei nouveau riche, ripulendoli con la complicità di banche svizzere e conti offshore.
Curtis produce sette episodi consequenziali, individuando in ognuno uno snodo fondamentale al proprio interno; un evento clou, che fa avanzare la tragedia. Se il funerale di Kim Philby e gli scontri anti-sovietici di Tbilisi segnano già la fine di un’epoca è con il tentativo di colpo di Stato del KGB, tra il 19 e il 21 agosto 1991, che l’agonia del regime si manifesta in tutta la gravità. I carri armati circondano il Cremlino – centinaia di chilometri più vicini alle stanze del Potere di quanto Prigozhin e il suo coup du theâtre estivo abbiano mai raggiunto -, mentre i moscoviti passeggiano indifferenti criticando i soldati impegnati nell’operazione. Ed è proprio quell’indifferenza del cittadino comune a stupire perché, eccetto per gli smaniosi riformisti gobarceviani, la maggioranza assiste passiva alla trasformazione del comunismo in capitalismo, erroneamente convinta che infondo la propria posizione sociale non sarebbe stata travolta da una rivoluzione incruenta, quanto ineluttabile.
La statua di Dzerzinskij, rimossa in quell’anno e oggi ripristinata di fronte alla Lubjanka, è la plastica rappresentazione della restaurazione della verticale del potere e del ritorno dei cekisti alla “cura” dello Stato.
Nel 1992 si avviano i 500 giorni di “shock therapy” per traghettare il Paese nel libero mercato. L’orgia selvaggia delle privatizzazioni gestita dalla cricca eltsiana, trova in Gajdar lo scellerato demiurgo che pone letteralmente in vendita ogni cosa. La teoria è quella di trasformare i proletari in proprietari, vendendo le aziende di Stato a prezzi irrisori, suddividendo le azioni ai lavoratori; mentre il risultato, la “pratica”, è un consegnare l’economia reale alla malavita. Mancando perfino il denaro circolante per gli stipendi, i dipendenti sono costretti a vendere i propri vouchers per un tozzo di pane e, nel giro di pochi mesi, “uomini nuovi” emersi dal nulla si ritrovano a capo d’imprese miliardarie. Gazprom viene comprata per poche centinaia di milioni; Khordorkovsky s’impossessa della Yukos mentre in Cecenia le evasioni di massa spianano la strada al generale indipendentista Dudaiev e al fondamentalista Basaiev.
Nel 1993 le riforme economiche hanno definitivamente stravolto il Paese e, nonostante le sempre maggiori resistenze dell’impoverita popolazione, proseguono senza sosta. La Russia è a tutti gli effetti diventata un selvaggio Far East, uno Stato mafioso, una free criminal economy zone, gestita da clan in guerra fra loro. Le dispute si risolvono a colpi di kalashnikov e con autobombe. Lo stesso Berezovsky sfugge per un pelo a tre attentati mentre nelle vecchie repubbliche sovietiche va in scena un remake del Gattopardo con ex-dirigenti che si riciclano in presidenti a vita. A Mosca però scoppia una rivolta: vengono occupate la torre di Ostankino e la “casa bianca” (l’ex soviet supremo ora sede del parlamento). Eltsin risponde con le cannonate venendo dipinto in Occidente come l’eroe che salva il Paese fornendogli anche una nuova costituzione presidenzialista.
Nel 1994 i guerriglieri islamisti assediano Grozny mentre l’economia va in default. I cosiddetti “magnifici sette” – il numero “magico” d’oligarchi che raccolgono l’intera ricchezza del Paese – si offrono come “prestatori d’ultima istanza” in cambio di nuove sanguinose privatizzazioni. A uno Eltsin sempre più impresentabile e alcolizzato viene suggerito d’invadere la Cecenia per distrarre l’opinione pubblica e mantenere l’appoggio dell’esercito; ma la guerra aumenta la corruzione e le perdite sono spaventose. L’Armata Rossa, costituita per lo più da reclute impreparate, si trova ad affrontare un nemico costituito da veterani afghani ed esperti mercenari. Il nazionalista Zirinovskij ottiene il massimo consenso mentre l’artiglieria rade al suolo la capitale cecena.
Nel 1995 i comunisti ottengono la maggioranza al parlamento. Il clan eltsiano va nel panico perché l’anno seguente si terranno le presidenziali e il gradimento per l’inquilino del Cremlino è ai minimi. Eltsin d’altronde si regge a stento in piedi ma grazie a una pioggia di finanziamenti elettorali e spot televisivi gentilmente forniti dagli oligarchi, al pronto aiuto dell’”amico” Clinton e alla creazione dal nulla d’un candidato fantoccio (l’ex generale Lebed), viene rieletto per un soffio. I capitali occidentali fluiscono a Mosca mentre il governo procede spedito non solo nella de-sovietizzazione ma anche con una simbolica cancel culture ante litteram demolendo il palazzo a Ekaterinburg dove era stato giustiziato lo zar e riesumandone i resti. Pare che nulla della vecchia Rus’ debba conservarsi.
1997-1999. Nuovi oligarchi emergono a Kiev mentre la Russia in bancarotta deve ricorrere al prestito dell’FMI. Le condizioni di salute del presidente si aggravano. Eltsin è perennemente ubriaco e la guerra dal Caucaso giunge a Mosca, dove i terroristi iniziano a piazzare bombe che demoliscono interi palazzi. L’intervento della Nato in Serbia e l’espansione del conflitto ceceno al vicino Daghestan provocano una crisi di governo da cui emerge come primo ministro un oscuro funzionario dell’FSB. Il 31 dicembre 1999 inaspettatamente Eltsin si dimette facendo diventare presidente ad interim Putin. È l’ultimo movimento tellurico d’un periodo torbido, attorno al quale gli ingranaggi fondamentali della società russa si riposizionano. Il nuovo zar inizia a mettere in riga gli oligarchi: per chi accetta il nuovo corso c’è spazio per incarichi e onori, per gli altri un dorato esilio londinese o una cella siberiana. Occorre ritessere le fila d’una storia che connetta Alexandr Nevskij al mito della Terza Roma; un sincretismo che unisca Pietro il Grande alla Russia di Stalin, ma c’è bisogno anche d’Ivan il Terribile e dei suoi opričniki per cancellare l’umiliazione e restaurare il “sacro timore” del Potere.