Periferia di Parigi. Esterno d’un commissariato. La tensione è palpabile durante la conferenza stampa sulla morte “accidentale” di un giovane a un controllo delle forze dell’ordine. I giornalisti incalzano l’ufficiale che nega la responsabilità dei suoi uomini finché la perfetta parabola d’un molotov non incendia l’aria, facendo scattare l’assalto dell’ inferocita folla. I giovanissimi casseur, nelle loro attillate tute nere con i cappucci calati in testa, fanno irruzione nella stazione di polizia devastandola e portandosi via caschi, armi da fuoco ed equipaggiamento. Il lunghissimo piano-sequenza dà l’avvio al film Athena – nome fittizio d’uno dei numerosi ghetti della cintura parigina – e prosegue mostrandoci i rivoltosi che, sventolando il tricolore a bordo dei mezzi rubati alla polizia, fanno ritorno al loro quartiere trasformato in una vera e propria roccaforte. Il lungo ponte pedonale diventa il ponte levatoio d’un castello pronto all’assedio con torri e merli da cui piovono ogni genere di suppellettile contro i celerini in assetto da guerra. Le truppe antisommossa sbandano sotto il costante fuoco di armi pirotecniche e bombe carta prima di ritirarsi. Il primo “round” è aggiudicato dai ribelli ma la notte sarà lunga e sanguinosa.
L’incipit del lungometraggio di Roman Gavras – figlio d’arte del leggendario Costa Gavras – è un pugno diretto allo stomaco e pare in tutto e per tutto identico ai tumulti degli ultimi giorni in Francia. Stessa la rabbia dei giovanissimi protagonisti e l’impatto dei social nel riportare in tempo reale scontri e feriti; stesse le devastazioni d’auto e negozi mentre il rapido divampare della protesta si diffonde a macchia d’olio nell’Esagono; eppure non si tratta di un film “profetico”, anzi, è solo l’ultimo esempio d’un filone ben consolidato perché l’incendio che cova sotto la cenere della mixité sociale brucia da almeno un trentennio e periodicamente divampa con sempre maggiore violenza. Il dramma di Athena, girato quasi interamente tra le strade dei sobborghi di Parc aux Lièvres, ruota attorno a una tragedia familiare come metafora d’una guerra fratricida che infuria all’interno delle case prima ancora che dentro il perimetro del quartiere. I quattro fratelli protagonisti, tutti di seconda generazione, incarnano ognuno un diverso archetipo della fallita integrazione: Adir è la vittima innocente che fa detonare la rivolta; Abdel è invece il militare che ha scelto la carriera all’interno delle istituzioni; Karim il rabbioso idealista che coordina gli assalti e la “difesa” del complesso, mentre Moktar è quello malavitoso che ordisce i traffici illeciti del rione. Sullo schermo va in scena, attraverso un’inarrestabile escalation, il completo fallimento della politica dei Grands Esembles che, tradendo lo spirito e gli ideali della Carta di Atene ispirata da Le Corbusier, ha trasformato le cosiddette ZUP (zone à urbaniser en priorité) in alveari degradati da cui lo Stato si è progressivamente ritirato.
La stessa disamina delle latenti tensioni sociali pronte ad esplodere la si ritrova nell’eccellente Les Miserableles di Ladj Ly, vincitore del premio della giuria a Cannes nel 2019. Ambientato nella cittadina di Montfermeil alle porte de la Île-de-France, dove si svolgeva parte dell’omonimo romanzo di Victor Hugo, il film inizia con la folla festante che celebra la vittoria del mondiale di calcio sugli Champs Èlysées in un tripudio di bandiere francesi. Il momento di fratellanza però è fugace e il ritorno alla cittadina ci presenta subito un tessuto sociale slabbrato, dove le tensioni tra minorenni, zingari e polizia paiono costantemente sull’orlo di una crisi pronta a deflagrare al primo incidente. Il dramma segue due linee narrative che inevitabilmente andranno a confliggere: da una parte il punto di vista dei giovanissimi residenti del quartiere nel difficile tentativo di evadere da una realtà asfissiante grazie a un drone con cui effettuare riprese di nascosto e il “traning day” d’un nuovo agente in borghese della BAC (brigata anticrimine) che, appena trasferitosi dalla campagna, è di fatto l’unico sguardo “innocente” sulle dinamiche del quartiere. Come subito chiarisce il commissario non sarà affatto una giornata semplice perché “a trenta gradi stanno tutti in strada”. La città, infatti, è un’enorme pentola a pressione dove le dinamiche dei diversi “gruppi sociali” si fronteggiano fisicamente, spartendosi i ristretti spazi a disposizione. C’è il sindaco “traffichino” di colore che media tra le istituzioni e il quartiere; l’imam che predica calma disprezzando parimenti i metodi della polizia e quelli del primo cittadino, i trafficanti che gestiscono le piazze di spaccio, la polizia locale che spadroneggia e, infine, i minorenni abbandonati a loro stessi. Il conflitto che si configura, infatti, non si sviluppa più tra “teppisti” e forze dell’ordine ma indiscriminatamente tra giovani e adulti, perché non esiste più alcun modello di riferimento valoriale da seguire per questa generazione. Per loro sono tutti senza dubbio “cattivi maestri” o “cattivi coltivatori” per usare la stessa metafora di Hugo.
Tutti questi giovani ”miserabili” senza futuro sembrano davvero i diretti discendenti dell’Odio (La Haine; 1995), figli non riconosciuti dei personaggi dell’indimenticabile film di Mathieu Kassovitz, a dimostrazione che non solo persiste la medesima esclusione sociale, perfino accentuata dal taglio dei sussidi sociali e dal progressivo abbandono delle distese suburbane. Questa “racaille” – per usare il termine caro a Sarkozy –, declassata a cittadini di serie B, deve essere repressa duramente prima che si radicalizzi, colpevolizzandone le vittime che osano ribellarsi in una spirale di violenza civile che, a ogni singolo episodio, si autoalimenta in un ciclo apparentemente senza fine. Non è certo un caso se, anche ne L’Odio, l’episodio-miccia dell’azione è conseguenza dell’ennesima brutalità della polizia d’uno Stato che si percepisce sotto costante assedio; così il destino di tutti i protagonisti di questi film, come in un’autentica tragedia greca, è segnato fin dall’inizio; non esiste modo di evitarlo. Icastica è, infatti, la scena nella quale i tre personaggi incappano in un enorme cartellone pubblicitario che recita “le monde est à vous” e con la bomboletta lo trasformano d’impulso in “nous”, come a rimarcare il tradimento degli ideali della Rivoluzione Francese e la necessità per gli esclusi di prendersi con la forza ciò che gli viene negato di nascita. D’altronde le rivolte delle banlieue sono da considerarsi fenomeni ricorrenti – la “prima” a Lione nel 1979, all’ultima del 2005 – che, come un fiume carsico, ciclicamente ripresenta la propria conta di danni e vittime.
A ben vedere sembra che poco o nulla sia cambiato perfino dai tempi del romanzo di Hugo, se non i cognomi e il colore della pelle. Pare quasi che il celebre “motto” del lungometraggio di Kassovitz “fin qui tutto bene“, a seguito d’un emblematico ribaltamento dei ruoli, sia stata l’unica vera politica che il governo francese abbia di fatto perseguito durante l’ultimo trentennio. Nel frattempo l’arrogante disprezzo verso questi ingrati “sans-dents” – come li chiamò Hollande – si è esteso oltre questi francesi di seconda generazione, includendo qualunque forma di legittima contestazione (contadini e allevatori, Gilets Jaunes, mussulmani, migranti, lavoratori e pensionati e, per ultimi, i nuovi ecologisti), condannando così l’Eliseo a fronteggiare, senza apparente fine, ondate protestatarie che, non trovando più alcuna sponda parlamentare alle loro rivendicazioni, scelgono la piazza come unico luogo dove manifestare la loro mera esistenza; anche semplicemente per “contarsi”. L’accentuata crisi di rappresentanza d’un élite sempre più autoreferenziale – il presidente Macron al primo turno ha raccolto il favore di meno d’un quarto degli elettori perdendo la maggioranza dell’Assemblea Nazionale – pone così drammaticamente l’Eliseo nella scomodissima posizione di sostenere i sindacati delle stremate forze dell’ordine e, contemporaneamente, condannarne gli abusi, scongiurando che gli opposti estremismi possano mai unirsi. Una pericolosa navigazione a vista d’un impassibile pilota che pensa solamente a governare la caduta mentre, probabilmente, ritiene che “l’atterraggio” non sia un problema di sua competenza.