Le modalità di elezione di Elly Schlein e la strategia mediatica di Giorgia Meloni denotano un fattore comune: la prona soggezione della politica contemporanea allo spirito del tempo. Potremmo parlare di secolarizzazione della politica, indicando se non la perdita quantomeno la diluizione dell’identità ideale, ideologica e strutturale di partiti e movimenti, su cui gravano le istanze ideali, ideologiche e strutturali del saeculum, fisiologicamente impossibili da avversare in maniera equilibrata, per non screditarsi e delegittimarsi agli occhi di elettori e media.
Senza riprendere il leitmotiv della sinistra-che-non-c’è-più, argomento inflazionato da una bulimia narrativa senza precedenti, è evidente come l’elezione di Elly Schlein stia a significare un radicale cambiamento nella mens e nell’habitus della sinistra italiana. È a dimostrarlo non tanto la vittoria quanto un dettaglio emblematico, vale a dire il voto dei non tesserati (lei stessa non lo era fino a sei mesi fa) che vince la volontà degli iscritti. È quanto basta a dimostrare compiuta la transizione da una sinistra da comitato centrale ad una sinistra a congresso decentrato, esautorato dall’esterno da ogni sovranità, dai voti e dalle opinioni dei non iscritti che ordinano una linea a cui il partito deve far corrispondere un candidato idoneo.
Sono ben lontani i tempi del centralismo democratico, quando le lotte intestine e correntizie venivano sintetizzate nell’opinione collettiva, comune e letteralmente comunista; quando Giovanni Amendola, al IX Congresso, poteva affermare “se un compagno ha torto, se esprime il suo dissenso, bisogna convincerlo e aiutarlo a trovare la via giusta”. Tanto la chiesa comunista doveva essere granitica, superiore alle correnti e sorda ai personalismi, tanto il suo erede, il PD, è animato proprio da correntismi e individualismi. Di un partito che faceva della monolitica centralità la sua cifra d’esistenza rimane un movimento inconcludente, dall’identità oramai eccentrica, definita più dall’esterno che dall’interno. Fedeli alla linea / la linea non c’è: è al di fuori, più che una linea è un arabesco tracciato dalle idee del mondo, che sempre di più influenzano la direzione politica dei movimenti, a discapito di un’identità che da sovrana diviene subordinata alle incontrovertibili istanze del progresso.
Specularmente, non troppo dissimile è la situazione a destra: è drastico e però sottile l’editoriale in cui Giuliano Ferrara sostiene che “con l’intervento di Giorgia Meloni al congresso di Rimini della Cgil […] la destra è finita”. La premier, che già aveva positivamente impressionato media e istituzioni per le posizioni filoucraine, per aver trovato una linea liberal-conservatrice addirittura nel solco delle politiche di Mario Draghi, al congresso della Cgil condanna “l’inaccettabile attacco degli esponenti di estrema destra alla Cgil” ed elogia l’antifascista Argentina Altobelli con un’apparente deferenza che sembra, secondo il fondatore del Foglio, sminuire l’essenza identitaria del proprio partito. Sono passati trent’anni, ma sembra una vita, da quel “Mussolini è stato il più grande statista del Novecento”, poi rinnegato dall’autore, a sua volta rinnegato. Se per la generazione Tolkien “le radici profonde non gelano mai”, rischiano quantomeno di essere sbarbicate dal tempo e ancor più dalle idee di “modernità” e “inclusività” a cui guarda con favore persino qualche collega, compiacendosi di aprire un centro per la disforia di genere “per un fatto di civiltà”.
Ora, la riflessione sui tempi-che-cambiano è forse più ritrita di quella sulla sinistra-che-non-c’è-più: vale però la pena di soffermarsi sulla difficoltà che in regime di (post) democrazia accomuna i movimenti nel definire un’identità effettiva, solida, che venga poi recepita, compresa e approvata dal “popolo”, elemento indispensabile in regime di democrazia. La questione è complessa, soprattutto se si osserva l’individuo secolarizzato, nella definizione di Roberto Timossi, quale “un «uomo pratico» che non dà ascolto alle ideologie di nessun genere, tantomeno a quelle politiche, ma neppure alle religioni e alle spiegazioni metafisiche. […] Un «uomo disincantato», che non crede a nessuna visione del mondo, ma ripone nel contempo nella scienza e nella tecnica una fiducia pressoché sconfinata”.
Certo, ci troviamo nella società di massa, e certo, il regime democratico obbliga alla legittimazione popolare e mediatica e quindi, per questioni di accreditamento e realpolitik, al cerchiobottismo più che alla definitività, al compromesso più che all’intransigenza; e, certo, essendo i partiti nel mondo non possono restare avulsi dalle logiche del progredire dell’umanità. Occorre però chiedersi – questo sì – se abbia senso, se sia ancora possibile una politica se non delle ideologie quantomeno delle idee, delle identità comunitarie; una domanda che, nell’epoca della democrazia liquida (liquidata?), della datacrazia di ChatGPT e dell’AI, riguarda prima ancora che la politica l’intima essenza dell’uomo. Che, “pratico” e “disincantato”, abdica a se stesso e affida qualsiasi risposta alla ragione: attenzione che non abbia torto.