Nell’epoca del definitivo tramonto delle ideologie, ridotte a degli involucri vuoti, è sintomatico come la politica italiana ed europea sia divenuta ad un tempo cifra di pragmatismo e di puro interesse. Morire per la democrazia è accettabile laddove intervengono interessi di natura strategica. Si può decidere di seguire una direttrice di politica estera, mascherandola di “diritti umani”, oppure di perseguire la stessa direttrice senza alcuna maschera. È il caso della guerra in Ucraina, dove la decantata difesa dei valori occidentali si scontra con i puri interessi confliggenti di natura geopolitica tra il blocco occidentale e quello eurasiatico. Ad un mese dall’insediamento del nuovo governo, è emerso pertanto in maniera vieppiù evidente che la politica italiana sia incanalata da almeno un decennio (con la parentesi, stroncata sul nascere, del primo Governo Conte), verso un pragmatismo di fondo. I programmi economici, pur presentando delle peculiarità, riflettono in maniera imprescindibile la crisi economica italiana. Ad ogni azione deve seguire un’adeguata copertura. Le prerogative ideologiche passano totalmente in secondo piano, come sottolineato da Ferruccio de Bortoli per Il Corriere della Sera in merito alla Legge di Bilancio:
«[per] i cavalli di battaglia della campagna elettorale, rimane assai poco: uno sforzo di buona volontà, una spruzzatina simbolica di risorse. L’obiettivo politico, è quello di realizzare i programmi di un’intera legislatura ma la realtà iniziale è più dura e meno seducente di uno slogan identitario»
Con simili prospettive, va da sé che l’elemento del consenso non possa essere ricercato in fattori di mera natura economica. Misure ed interventi – perfettamente speculari – si riflettono pertanto in un atteggiamento che diviene più “di sinistra” o più “di destra” soltanto in merito a diritti civili, e alla “guerra” ingaggiata in questo momento dalla destra per ottenere egemonia culturale e controllo dello Stato profondo. D’altro canto si palesa la sostanziale impossibilità di impostare una strategia estera differente rispetto ad un fedele atlantismo (seppure, questa volta, in salsa conservatrice). Le ultime notizie su questo fronte, riguardano il mancato rinnovo all’accordo sulle “nuove vie della seta”, come riferito dal Ministro della Difesa, Guido Crosetto, dopo la breve “infatuazione” del duo Conte-Di Maio per l’inarrestabile ascesa del dragone cinese.
Di natura strettamente pragmatica è risultato anche il primo discorso di Giorgia Meloni al Senato. Molto diverso, almeno nelle apparenze, rispetto a quello per il voto di fiducia alla Camera. A rimarcare il pieno sostegno all’Ucraina, si è affiancato un ragionamento il puro interesse strategico ed economico, laddove l’Italia, se non dovesse ottemperare a tale sostegno, si ritroverebbe – secondo le parole della Meloni – isolata anche a livello commerciale rispetto ai partner europei ed occidentali, la cui quota di mercato è nettamente superiore rispetto al volume di perdita negli scambi tra Italia e Russia. Valori e difesa della democrazia si mescolano dunque esplicitamente ad un programma “realistico”. Non potrebbe essere altrimenti. Non lo sarebbe in nessun caso, a prescindere dal colore politico del governo. In questo senso sembra manifestarsi, al di là delle incertezze e delle esitazioni, una gestione “alla Richelieu” delle relazioni internazionali e della politica interna.
In un’opera, edita Donzelli, che ha raccolto tutti gli appunti e le lezioni di un monumento della storiografia italiana, come Rosario Romeo, riguardanti la figura del Cardinale Richelieu, sembrano delinearsi i parametri con i quali la moderna politica è andata definendo i propri limiti e i propri orizzonti. La “realpolitik”, tornata prepotentemente di moda nel mondo multipolare e nella policrisi globale, ha trovato nel fondatore della potenza francese nel ‘600 un proprio modello ideale. Stretto tra le esigenze di un’azione concreta contro i protestanti francesi, in una severa affermazione del cattolicesimo in tutto il territorio del Regno, e l’ostilità necessaria ai cattolici Asburgo, impegnati a rafforzare il proprio dominio in Germania e ancora ben saldi nel loro impero spagnolo, Richelieu dovette farsi carico di uno “sdoppiamento” della politica francese. Come evidenzia Romeo:
«Sarà questa appunto l’opera di Richelieu: fondare l’assolutismo all’interno reprimendo i protestanti, e combattere insieme l’egemonia della casa d’Asburgo servendosi dei protestanti all’estero. Era un compito enorme, perché dal suo successo sarebbe derivata l’egemonia francese in Europa.»
Questo programma si tradusse contemporaneamente nella sottomissione violenta della fortezza ugonotta della Rochelle, risolvendo così un problema al contempo religioso e di ordine interno, e nell’intervento francese nella Guerra dei Trent’anni a sostegno dei principi protestanti contro gli Asburgo cattolici. In un colpo solo Richelieu fondò il centralismo francese e spezzò l’unità della res publica christiana europea, sogno proibito dell’impero asburgico. Vestfalia chiuse nel 1648 (almeno temporaneamente) le guerre “religiose-ideologiche”, ed aprì al diritto internazionale, agli interessi concreti, alla politica di potenza.
Altro punto fermo di Richelieu fu la quasi “necessità” di sacrificare il benessere alla politica estera. Una strada che l’Europa occidentale ha da tempo imboccato, che oggi si traduce in un esercizio di tagli e contenimento della spesa crescente, a fronte di un aumento considerevole delle spese militari:
«L’avversione dei popoli per la guerra” [Richelieu] dirà “non è un motivo da prendere in considerazione per concludere la pace, visto che spesso essi soffrono e si lamentano tanto dei mali necessari quanto di quelli evitabili; e che essi non sono capaci di intendere ciò che è utile a uno Stato, e al tempo stesso sensibili e pronti a dolersi di mali che bisogna soffrire per evitarne di più grandi”»
Nelle parole di Richelieu, citate da Romeo, sembra condensarsi l’intera impalcatura del discorso politico contingente. I cittadini dei paesi europei soffrono in misura sempre crescente, ma la pace “richiede” uno sforzo ulteriore. In ciò sussiste lo scollamento tra il Leviatano contemporaneo (che era già pienamente operativo nel Seicento) e le sue componenti sociali. Agli interessi del popolo, Richelieu contrappose già allora i grandi interessi dello Stato. Agli interessi economici, l’Europa occidentale contrappone oggi i doveri e le strategie dell’Alleanza Atlantica. È il paradosso di un Occidente sempre più povero, in cui si richiedono investimenti militari sempre più cospicui.
La differenza che intercorre tra il pragmatismo di Richelieu e quello moderno, euro-occidentale, sta però tutta nella rispettiva soglia di tenuta sociale, in un tempo in cui il livello di approvazione e di “consenso” può subire delle brusche impennate e dei repentini tracolli (si pensi alle parabole di Renzi, dei grillini o della Lega). «Rischiamo di perdere consenso», evidenzia per La Stampa il sottosegretario Fazzolari in merito alle misure sul Reddito di Cittadinanza e contro il caro benzina. Furono le Fronde e le rivolte sociali le eredità da “bomba sociale” lasciate dalla politica di Richelieu al suo successore Mazzarino. Che la storia possa ripetersi, appare oggi uno spettro più che probabile.