L'editoriale

La cultura di destra e la sindrome “under dog”

Nel pensiero del nuovo ministro Sangiuliano, più che conservazione si può dire ci sia "reazione", da intendere nel senso di rivincita, di "riscatto", nei confronti di una cultura generalmente definita "comunista".
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

«C’è bisogno di una riappropriazione del senso di identità nazionale. Gli italiani devono aver e consapevolezza della loro grande storia: il mondo greco-romano, il Rinascimento, l’umanesimo, e anche un Novecento importante».

Lì per lì, a leggere l’intervista del neoministro alla Cultura Gennaro Sangiuliano (Il Giornale, 7 novembre), col suo voler rimontare indietro e ridare dignità a una tradizione culturale specificamente nazionale veniva quasi da pensare a Bertrando Spaventa, il filosofo ottocentesco che diffuse in Italia l’idealismo hegeliano assurgendo con gli anni a ideologo della destra storica, nelle cui liste fu eletto deputato per tre legislature, fino al 1876. Anche Spaventa pensava alla «ricostruzione culturale» (a una tradizione italiana che partisse da Campanella e Bruno); anche Spaventa vedeva l’ambiente accademico-filosofico in termini oppositivi, diviso in due correnti contrarie, quella dei nostri sommi pensatori e quella dei loro carnefici (B. Spaventa, Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI ai nostri giorni, prolusione all’Università di Bologna, 1860).

Solo che Spaventa, a veder meglio, da filosofo qual era (partito anzi dalla galassia della composita e anche deleteria “sinistra hegeliana”) vedeva le cose più da uomo di studi che da politico ideologicamente schierato. A differenza dell’ex giornalista di Libero promosso poi direttore del Tg2 in quota Lega, però, il filosofo abruzzese voleva rompere i ponti sia col cosmopolitismo cattolico che col nazionalismo filosofico di coloro che respingendo la filosofia tedesca, vagheggiavano aulici ritorni alle antichissime fonti della sapienza italica, a imprecisate radici pelasgiche e ritorni alla scolastica medievale. Ora, non è certo questo il caso di Salvini o della stessa Meloni (difficile immaginare cosa potrebbero rispondere se qualcuno chiedesse loro che cosa si intende per la “scolastica”), ma è fuori di dubbio che i due leader a certi ambienti vaticani abbiano sempre guardato, strizzando anche magari (nel caso del segretario leghista in particolare) entrambi gli occhi, con un rosario ben stretto in mano. A ben vedere, la “differenza cattolica” della destra arrivata ora al governo in Italia è la stessa differenza che ha segnato in passato la distanza col neopaganesimo della “Nouvelle Droite” di De Benoist, e dall’altra parte, in anni più recenti, con la dottrina evangelica portata avanti tra tante difficoltà da papa Francesco.

Insomma, nel pensiero di Spaventa, liberalismo e conservazione erano strettamente intrecciati. In quello della cultura politica che dovrebbe improntare invece l’azione di questo governo di destra-centro, invece, di intrecciato, al momento, si può leggere tutt’al più – e non è un bel leggere – una serie di difficoltà tra quello che si diceva di essere e quello che ci si ritrova ora a poter fare nel contesto economico e geopolitico internazionale; difficoltà che nella pratica si sono finora risolte (lo si è visto sia sui migranti che sul covid) in annunci, balbettii e marce indietro.  

Nel pensiero di Sangiuliano, invece, e non solo nel suo ma in quello di una certa “cultura di destra” cui è chiamato ora a dare ufficialmente voce (che, diciamolo subito, non solo non è la stessa di un Marco Tarchi (professore espulso già nel 1991 dal MSI),  ma nemmeno quella di Giordano Bruno Guerri, che dallo stesso ministero della Cultura si dice sia stato infine allontanato per ragioni che con la politica nulla hanno a che vedere), più che conservazione si può dire ci sia “reazione”, da intendere nel senso di rivincita, di “riscatto”, nei confronti di una cultura generalmente definita “comunista” e più in generale omologante che l’ha tenuta per decenni in quella condizione di “under dog” denunciata da una presidente del consiglio cui la parola “riscatto” è sempre stata molto a cuore. Un atteggiamento mentale frutto più che di un’elaborazione intellettualmente maturata, di una «esasperazione sentimentale», per usare la locuzione cara a Edoardo Persico, intellettuale e critico d’arte degli anni Venti e Trenta, figura centrale della cultura italiana, fascista-antifascista in tempi tutt’altro che sospetti, prematuramente e misteriosamente scomparso nel 1936 dopo aver seminato il suo salutare e anti-ideologico anticonformismo. A differenza di “conservazione”, “reazione” è concetto evidentemente pensato ma verbalmente bandito, un tabù; l’opposto simmetrico di “riformismo”, parola sempreverde e multiuso.

Eppure è proprio dalla sindrome della reazione, del riscatto, appunto, da una condizione psicologica già definita da Tarchi di «esuli in patria», che sembra afflitta questa «cultura di destra italiana», la cui principale colpa, o forse meglio responsabilità, intendiamoci, non è criticare la lunga e pesante (talora anche pensante, però) egemonia esercitata dalla sinistra e in particolare dal PCI in un settore che la Democrazia Cristiana gli aveva come consegnato (i più giovani faticano a capire la chiusura esercitata in particolare nel mondo accademico ed editoriale, almeno fino a tutti gli anni Settanta, nei confronti di chi non fosse di simpatie “marxiste”: si pensi solo alla demonizzazione di uno storico come De Felice…). La sua responsabilità di fondo, in un Paese notoriamente di “responsabili” (ehm ehm), è stata piuttosto quella di non essere riuscita, contrariamente a quanto successo in Francia, per esempio, per via anche del fascismo, a farsi cultura. E non intendiamo nel senso di qualità intellettuali di singoli ministri, tradizionalmente scadente al dicastero che dovrebbe invece essere il più strategico in questo Paese: si pensi alla Melandri riciclatasi nel calduccio della MAXXI arte o al Franceschini scrittore per caso e iperpolitico di professione, inquilini che certo non risaltano granché rispetto al “poeta” Bondi o a quell’Urbani ricordato più che altro per i goffi tentativi di assegnare improbabili “bollini blu” in nome di una fantomatica bellezza. No, intendiamo nel senso più ampio, e anche più profondo, di un ambiente, di tutto un mondo in cui la destra non ha saputo imporsi per qualità né intellettuali né artistiche.

Lo si è visto sempre nei momenti in cui la politica si è ritrovata a dover indicare nomi qui e là in occasione delle solite spartizioni, lo si è visto nelle difficoltà patite da un certo mondo diciamo anche ragionevolmente “antagonista” a imporsi (l’unico esempio di antagonismo editoriale dirompente è stato quello della Adelphi nei confronti dell’Einaudi, ma certo non è un modello catalogabile come “di destra”!); lo si è visto con il particolare disinteresse dimostrato per tutto un settore (l’amministrazione Alemanno in questo senso, è stata drammatica, senza nemmeno finzioni di sorta);  lo si è visto nell’eterno ricorrere a i vari Evola, Nietzsche, Pound o Tolkien per dar forma e senso a un immaginario che invece che arricchirsi si è andato via via impoverendosi; lo si è visto nel continuo e perfino a questo punto stucchevoli celebrazioni di personaggi come Prezzolini o Longanesi, diventati quasi dei vessilli loro malgrado. Lo si è visto nel modo in cui si è preferito lasciare nel dimenticatoio studiosi, intellettuali negletti dalla cultura italiana tutta, spesso invisi tanto al mondo fascista che a quello comunista (Guglielmo Ferrero, Giuseppe Rensi, Bruno Rizzi, tra gli altri) e lo si vede ora, con un neoministro della cultura che, intenzionato com’è a dar sostanza a “un pensiero di destra, forte e autorevole” ha citato, a parte i soliti, immancabili Prezzolini e Longanesi, Pirandello e Croce come fari luminosi della sua avventura politica, annunciando due fiction dedicate nientepopodimeno che a Oriana Fallaci e Indro Montanelli, ovvero la giornalista diventata eroina in certi ambienti per le posizioni anti-islamiche sostenute con minor talento ma con la stessa vena di quelle precedenti anti-abortiste e l’ancor più celebre giornalista del Corriere della sera e de Il Giornale (idolatrato da Travaglio) che ha sempre preferito indirizzare la propria inconfondibile verve sulla classe politica nostrana più che su quei “poteri forti”, Mediobanca e Fiat in testa, ma non come noto l’ENI, vedi gli attacchi scatenati sulle pagine del Corriere contro Enrico Mattei.

Un atteggiamento di “partecipazione” al potere e ai suoi addentellati (non troppo diverso da quello di uno Scalfari e di tanto giornalismo italiano) inviso a una certa destra sociale e nemica giurata della finanza, incarnata fino a qualche anno fa da personaggi come Antonio Pennacchi, per esempio; una destra di cui si sono un po’ perse le tracce… Senza contare la banalità di aggiungere serie a serie in un settore televisivo, che a quanto pare resta per Sangiuliano quello di riferimento. Certo, fin troppo facile parlare di Umanesimo e Rinascimento, la cui comprensione a livello popolare, paradossalmente, è inversamente proporzionale alla complessità cui i due termini rimandano, complessità dibattuta dagli studiosi di tutto il mondo da almeno un secolo e mezzo…

Più difficile, di sicuro, avvicinare sullo stesso asse ideologico personalità come Pirandello e Croce, dimenticando probabilmente quanto fossero lontani i due per modernità e sentimenti (nei saggi Arte e Scienza L’umorismo, per esempio, ove critica Croce non solo perché esclude che l’umorismo sia una categoria estetica, ma per l’impianto generale della sua teoria estetica) assecondando così, del filosofo nonché senatore di Pescasseroli, la visione corrente, così restia, così impermeabile a valutarne i rovesci: le chiusure internazionali della nostra cultura nonostante i propositi dichiarati di volerla (come Spaventa) “sprovincializzare” (nei confronti del positivismo e della cultura scientifica, in particolare) o l’atteggiamento censorio tenuto nei confronti di chiunque la pensasse in maniera diversa da lui (si pensi alle battaglie condotte o fatte condurre dall’alto della sua posizione anche politica contro studiosi e letterati come Papini, Ferrero, Rensi o Sarli). In questo caso sì, davvero, visto l’influsso a lungo raggio da lui esercitato anche nel campo hegelo-marxista, è corretto parlare di una posizione più conservatrice che reazionaria…

I più letti

Per approfondire

Della prospettiva americana su Netflix

Gli Stati Uniti temono di collassare sotto il peso delle loro contraddizioni irrisolte e irrisolvibili. La sua società è sull'orlo della guerra civile. Le sue infrastrutture sono fragili. E l'immagine di un mondo in rivolta, contro l'American dream, nutre le sue ansie. Una visione che si concretizza nell'immaginario hollywoodiano.

“Cosa succederà se nessuna di queste grandi coalizioni riuscirà a ottenere la maggioranza del Parlamento?” Lo scenario di Giuseppe Alberto Falci

Il giornalista del Corriere della Sera analizza la realtà politica italiana con uno sguardo rivolto al futuro.

Camillo Langone

"Io sono un polimaniaco dunque non sono contrario alle manie, che aiutano a vivere, ma sono contrario ai contesti monomaniaci. Ne trovo in ogni ambito, politico, religioso, artistico, ogni tanto ci capito in mezzo e dopo mezz'ora comincio a dare segni di asfissia".

Ludovica Ripa di Meana

"Quando Vittorio leggeva man mano il mio lavoro, mi diceva: ma tu scrivi in versi! Io mi stupivo, credevo mi prendesse in giro, naturalmente aveva ragione lui. Da quel viaggio iniziatico e disgraziato, a Meana, che mi è quasi costata la vita, e dalla conseguente insonnia, ho scoperto di scrivere seguendo i ritmi e il canto di un poeta".

Viaggio in Etiopia

Domandarsi ossessivamente che senso abbia avventurarsi ai confini del mondo nel secolo anti-letterario, anti-epico, anti-eroico, per eccellenza.

Gruppo MAGOG