«In democrazia, un partito dedica sempre il grosso delle proprie energie a cercare di dimostrare che l’altro partito è inadatto a governare; e in genere tutti e due ci riescono, e hanno ragione.» Con questo acido e corrosivo aforisma di Henry Louis Mencken, si potrebbero riassumere le diatribe che stanno attraversando la cronaca politica di questi giorni, caratterizzate da terremoti politici, scissioni, e guerre intestine sia al governo che all’opposizione. Da un centrodestra che, si sfalda tra le dimissioni della Moratti e le liti di Berlusconi sui nomi dell’esecutivo, ad un centrosinistra ambiguo e incerto, indeciso tra Conte e Calenda, appare chiaro che gli sconfitti di queste elezioni stiano cercando in tutti i modi di peggiorare il loro risultato.
Per capire meglio i paradossi che stanno caratterizzando la nuova legislatura, abbiamo intervistato l’on. Fabrizio Cicchitto, ex “colonnello” di Forza Italia e personaggio di spicco della stagione socialista, prima, e berlusconiana, poi, per analizzare i mutamenti che hanno colpito i partiti dopo il risultato delle ultime elezioni. Cicchitto, rappresentante di una coscienza riformista e liberalsocialista, che coniuga una visione liberale sociale con quella socialista gradualista, formatosi tra il PSI e il PDL, fino all’esperienza attuale con i Radicali. Una visione che unisce dal secondo Pietro Nenni ai Fratelli Rosselli passando per Benedetto Croce e che è alla base del suo nuovo progetto culturale, la rivista La civiltà socialista che uscirà i primi di novembre, e della sua analisi dei cambiamenti che stanno sconvolgendo il quadro politico.
–Dalle fughe di notizie alle liti per l’esecutivo, come è cambiato Silvio Berlusconi da federatore del centrodestra a mina vagante del governo?
È evidente che Berlusconi soffre moltissimo di non essere il leader del centrodestra, come è stato in passato. Però c’è da considerare anche che per il leader di Forza Italia vale il proverbio per cui chi è causa del suo male pianga se stesso, poiché dal 2013 in poi Berlusconi ha seguito una strategia che potremmo definire “a zigzag”, oscillando tra visioni moderate ed atlantiste e prese di posizioni estreme come quelle di questi giorni, che hanno permesso ai suoi alleati, Salvini e Meloni, di avere uno spazio enorme che ne ha assorbito l’elettorato.
Per Berlusconi la sconfitta in questa elezioni è stata ancora più decisa, perché lui che aveva puntato molto in questi anni su Salvini come nuovo federatore del centrodestra, avendo come conseguenza solo l’appiattimento dell’agenda di Forza Italia sui temi della Lega, si è ritrovato invece con una coalizione a trazione Fratelli d’Italia che ha fagocitato i voti sia dei moderati che dei leghisti in cui il suo peso politico si è ridotto drasticamente. La Meloni è, inoltre, un soggetto completamente diverso da Salvini, sia per la sua storia pregressa, sia perché è una donna, sia perché è una leader. Una combinazione che non piace a Berlusconi, che adesso è costretto a fare buon viso a cattivo gioco.
–«Lui è sempre stato così» ha dichiarato in un’intervista. Davvero? Che ritratto può farci del cavaliere?
È un leader con una notevole capacità attrattiva e magnetica verso la gente. È un uomo che ha strumenti non indifferenti, come il supporto mediatico ed un profondo radicamento nel suo elettorato, che gli permettono di sopravvivere anche contro attacchi ed errori strategici, ma che non sono abbastanza per impedirgli di essersi ridimensionato rispetto al passato. Un esempio è la caduta del consenso portata da posizioni ambigue, come quelle delle fughe di notizie, riguardo il ruolo dell’Italia sulla scacchiera geopolitica e sulla vicinanza strategica all’Ucraina.
–Usciti tutti i nomi dell’esecutivo che giudizio e valutazione trae del neonato governo Meloni?
Ci sono sicuramente alcune persone di rilievo, non moltissime, e molti esponenti mediocri, figli delle nomenclature di partito. Scelte dovute soprattutto ai rifiuti di figure di spessore tecnico che hanno preferito non partecipare al governo e hanno portato la Meloni a rivolgersi ai membri di partito. Un esecutivo che valuto sicuramente sufficiente, ma che però non raggiunge l’eccellenza.
–La Meloni sta costruendo un partito conservatore?
C’è sicuramente un progetto in questa direzione. Al netto di fatti e discorsi dobbiamo dire che negli ultimi giorni si stanno facendo dei passi in avanti per un avvicinamento di Fratelli d’Italia al conservatorismo liberale di stampo britannico. Nel suo ultimo discorso, ad esempio, la Meloni ha citato Roger Scruton, allontanandosi sempre di più dal postfascismo. Un retroterra che si sta lasciando sempre di più alle spalle. Per questo io preferirei giudicare la Meloni dai suoi atti concreti invece che da retroterra passati che non gli appartengono più, come invece sta accadendo.
–Che ne pensa invece delle critiche mosse al governo dall’opposizione riguardo al «carnevale macabro di Predappio?»
Francamente che ogni anno (e questo avviene con governi di qualsiasi colore), un gruppo di mille duemila nostalgici si radunino a Predappio mi sembra una faccenda su cui non sia necessario drammaticizzare. Io li lascerei fare perché ogni forma di operazione repressiva nei loro confronti non solo non ridurrebbe il problema, ma rischierebbe, attraverso una criminalizzazione di questi atteggiamenti, di accentuare questo fenomeno trasformandoli in vittime e martiri. I media italiani, invece, pensando di attaccare su questo tema il governo, hanno colto la palla al balzo per gridare al ritorno del fascismo. Un atteggiamento ridicolo e insensato, poiché questo manipolo di nostalgici non sono né figli della vittoria della Meloni, né un pericolo per la democrazia italiana, ma un fenomeno minoritario e limitato del nostro paese.
–Oggi la leadership di Salvini sembra sempre più precaria. Dopo le dimissioni della Moratti come vede la partita della Lega per mantenere Fontana?
Emerge il fatto che la Lega sia un partito di impostazione leninista e stalinista, poiché se una sconfitta, come quella di queste elezioni, fosse accaduta ad un qualsiasi altro partito sarebbe stata senz’altro messa in dubbio la leadership di Salvini e si sarebbe andati a congresso, cosa che non è affatto accaduta, anzi. Ciò però non impedisce di fare sorgere molti punti di domanda sulla leadership di Salvini e sulla sua gestione del partito negli ultimi anni. Le dimissioni della Moratti, in una regione strategica come la Lombardia, complicano ancora di più le cose. Intendiamoci la Moratti non è stata mai nella Lega e queste dimissioni non sono un colpo al cuore per il partito di Salvini, però una eventuale sua candidatura alle elezioni regionali porterebbe indiscusse problematiche al centrodestra, soprattutto alla luce del peso che ha avuto il terzo polo alle scorse elezioni in Lombardia. Però tale problematica si porrebbe solo nel caso il PD fosse un partito in grado di fare veramente politica. Poiché creando una aggregazione capace di fondere terzo polo e Partito Democratico, dietro al nome di Letizia Moratti, si rischierebbe di sconfiggere alle elezioni un candidato valido, ma modesto, come Attilio Fontana, e di conseguenza evitare una eventuale vittoria del centrodestra.
–Da D’Alema a Boccia, il PD sta diventando la stampella dei cinque stelle?
Enrico Letta ha espresso posizioni condivisibili e unitarie riguardo lo schieramento euroatlantico e il sostegno all’agenda Draghi. Però ha anche ragione D’Alema quando dice che ormai il PD è un partito senz’anima e senza identità. Il partito di Letta è stato incapace di fondere e sintetizzare i due agglomerati dei postcomunisti e dei democristiani di sinistra che non sono riusciti a creare una sintesi ideologica, ma hanno portato in questa esperienza politica i loro incerti bagagli. Oggi il PD è posto di fronte alla scelta di definirsi o sparire, perché da una parte preferisce non prendere una posizione netta per paura di scissioni e spaccature, dall’altro non può fare a meno di creare una posizione chiara, invece di continuare l’esperienza fallimentare di fare “il pesce in barile” conciliando senza successo una posizione giustizialista e massimalista, filo cinquestelle, ed una agenda riformista e liberaldemocratica, vicina al terzo polo.
Il problema è uno solo. Una coalizione può avere due anime e due identità diverse, un partito no. Se non si risolve questa contraddizione lo schieramento dem continuerà a collezionare una sconfitta dietro l’altra senza dare battaglia. Che è una delle caratteristiche dei paradossi prodotti da queste elezioni.
–Ovvero?
Le elezioni del 25 settembre hanno prodotto una serie di paradossi. Il primo è stato la vittoria del centrodestra come maggioranza nel parlamento, ma non nel paese. Il secondo è stato che la vittoria del centrodestra è stata accompagnata dalla sconfitta totale di due dei maggiori alleati del partito vincitore, ovvero Lega e Forza Italia, i quali non raggiungono la metà dei voti di FDI, vero vincitore di queste elezioni. Il terzo paradosso è che tra i partiti che hanno perso, il PD non ha avuto risultati politici, anche se ha perso meno voti degli altri, mentre il Movimento 5 stelle, pur perdendo più della metà dei propri voti ha ritrovato un’anima ed un profondo radicamento nel territorio al sud Italia, e Forza Italia e Lega, seppur sconfitte hanno ottenuto posti di rilievo nelle istituzioni e nel governo. Il PD invece ha perso le elezioni in partenza, rompendo le alleanze sia con il terzo polo che con i cinquestelle di Conte, rendendo scontato il proprio destino prima dell’inizio delle elezioni. Il paradosso è che il Partito Democratico, nonostante abbia perso meno a livello elettorale, ha perso tutto a livello politico, trovandosi senza alleati, senza identità, e con una divisione inconciliabile tra le sue due anime.
–Quale dovrà essere allora la sfida del prossimo segretario dem?
Sarà quella di fare una scelta di campo, tra la via del riformismo e del gradualismo, insieme a Renzi, Calenda e la Bonino, oppure la via della seta, proposta da D’Alema e Bettini, scegliendo di diventare un partito giustizialista e massimalista insieme ai cinque stelle di Conte. Se non si verrà a capo di questa faccenda si avrà l’ennesimo congresso farsa che porterà il centrosinistra verso l’ennesima sconfitta e forse verso l’estinzione.
–E il terzo polo diverrà l’ago della bilancia del sistema politico italiano oppure si trasformerà nel compagno segreto del centrosinistra?
È tutto da vedere perché già a stento è difficile vedere una prospettiva per la coabitazione tra Renzi e Calenda, che però mi auguro, figuriamoci con altri soggetti politici. Però oggi il terzo polo ha una potenzialità indiscussa di radunare i riformisti e i centristi, che sono scontenti sia del centrodestra a trazione Fratello d’Italia, sia dall’agonia del Partito Democratico.