Come ha scritto Robert Fisk su “Independent” esiste in Libano “una mancanza di responsabilità politica endemica tanto da essere diventata di moda” per cui nel nostro piccolo abbiamo il dovere di portare sul tavolo tutte le ipotesi possibili. Anche se non sarà il tempo, purtroppo, a rendere giustizia alle vittime e allo sradicamento di questi popoli, che nonostante tutto continuano a vivere laddove nascono, crescono, combattono.
Un duro colpo per i libanesi, oltre 100 morti, 5mila feriti, 300mila sfollati, un contraccolpo violentissimo per le dinamiche vicino e mediorientali. Ancora una volta. Le indagini sulle dinamiche dell’esplosione a Beirut vanno avanti e intanto già si intravedono speculazioni di ogni genere sui responsabili. Occorre fare una premessa. Se l’aeroporto della capitale libanese è controllato da Hezbollah, il porto invece viene gestito in maniera mista (pubblico-privato). Inoltre come si scriveva qualche ora fa, quel porto non era un semplice porto ma il terminale della “Mezzaluna Sciita”, quel corridoio politico, strategico e trans-confessionale che collega l’Iran al Libano passando per l’Iraq e la Siria, garantendo dunque uno sbocco fondamentale ai cosiddetti “mari caldi” del Mediterraneo per quest’asse mediorientale in ascesa nella regione, venuto alla ribalta nelle cronache recenti per la sua lotta senza frontiere allo Stato Islamico in “Siraq”.
Fatta questa precisazione, in attesa di conoscere le cause, è necessario interrogarsi sulle conseguenze di questa tragedia in una cornice “geopolitica delle infrastrutture”. Di conseguenza il porto di Beirut fuori gioco indebolisce dunque l’alleanza, strategica e trans-confessionale che collega l’Iran al Libano passando per l’Iraq e la Siria, e rafforza tre attori principali: Israele, Francia e Turchia. Israele in quanto nemico dichiarato di Hezbollah, la Francia perché tramite le sue società private (tra queste c’è già Sogreah) potrebbe lavorare all’allargamento del porto di Tripoli, città a maggioranza sunnita situata nella parte settentrionale del Libano, e infine la Turchia, che potrebbe inserirsi in questo switch, nel solco di una strategia imperiale neo-ottomana, e investire in quello che potrebbe diventare in pochi anni, per via della posizione geografica, un hub insostituibile nella gestione dei flussi finanziari, di beni e servizi, anche nell’ottica di pacificazione, ricostruzione e riavvicinamento con la Siria di Assad.
Con uno scenario simile il Libano diventerebbe irrilevante per gli iraniani, tagliati fuori dall’esplosione del porto di Beirut, costretti ad implementare quello di Latakia (città costiera non lontana da Tartous, dove è Unpresente una base navale russa) in Siria dove l’anno scorso in accordo col governo di Damasco avrebbero già ottenuto la concessione per la gestione. Il problema è che ci vorranno anni, forse un decennio, prima che diventi un vero e proprio snodo strategico pari a quello della capitale libanese. E nel Vicino e Medio Oriente il tempo è una pistola puntata alla tempia.
«Nostra Signora del Libano, veglia sull’intero popolo di questa terra così provata».
Giovanni Paolo II