Quarantuno anni fa, il 16 novembre del 1980, a Parigi, il più celebrato filosofo marxista del momento ed ex dirigente del PCF, il francese Louis Althusser, strangolò la moglie Hélène. Di notte, nel letto. Per il mondo intellettuale francese fu uno choc. Perché Althusser non era mica uno scavezzacollo delle allucinazioni à la Burroughs, il padre della beat generation appassionato di armi che a un certo punto si fece venire in mente di poter giocare con la moglie a Guglielmo Tell senza essere Guglielmo Tell. Anche lui, certo, era d’avanguardia, ma di un’avanguardia dura e pensosa, ideologicamente alternativa, di quelle che come diceva Freak Antoni non fanno sconti comitiva. Ai viaggi psichedelici, lui preferiva decisamente quelli teorici. Maître à penser di una sinistra in piena crisi del soggetto, amico di Lacan, già autore di Le retour à Hegel, Althusser negli anni Sessanta aveva riaperto la riflessione su come trasferire il materialismo storico sul piano delle idee: gli esseri umani non sono soggetti attivi ma agenti di ideologie, prodotto delle strutture sociali, questo in soldoni il suo ragionamento, perfetto per una sinistra che poteva così rimproverare a Stalin più dei sei milioni di esseri umani morti, di aver snaturato il marxismo.
Cento anni fa, il 21 gennaio del 1921, a Livorno, i marxisti massimalisti strangolarono a suon di voti la sinistra socialista turatiana “riformista”, confermando l’irresistibile e ben poco entusiasmante vocazione alla diaspora della sinistra, dal dopo Hegel in poi. Iniziava così un viaggio per certi versi anche eroico ma costellato di balbettii, delusioni e contraddizioni: la duplicità di Togliatti padre della Costituzione e contemporaneamente dirigente di primo piano del movimento comunista internazionale filostalinista; le chiusure, le polemiche e i silenzi per i fatti di Budapest nel 1956 e di Praga nel 1968; la dolorosa scissione del “manifesto”, l’incerto eccezionalismo inseguito da un Berlinguer schiacciato dalla disinvoltura craxiana; la lunga, furibonda battaglia sul nome e sui simboli variamente floreali scomodati a rappresentarlo (“Il comunismo italiano è un’altra cosa. Non abbiamo bisogno di cambiare nome, perché siamo diversi, pienamente radicati nella democrazia”, il refrain di chi si opponeva); le irrisolte contaminazioni con i vari nostalgici centristi della Democrazia Cristiana, le baffute supponenze di Occhetto e D’Alema, le pochezze paninare (nel senso delle figurine, eh) di un Walter Veltroni; una classe dirigente prima istruita ma tiranneggiata dell’ideologia e poi invece non più ideologizzata ma clamorosamente ignorante sono sempre lì a far capire come in fondo i tempi de “La cosa”, il film del 1990 commissionato a Nanni Moretti da un partito cui dopo la crisi inforcata dopo il crollo (pardon, “apertura”, almeno per “L’Unità”) del muro sembrava affidarsi alle doti taumaturgiche del cinematografo, di passi avanti non è che se ne siano fatti granché. Anzi a essere sinceri, viste le guerre intestine degli ultimi tempi, quasi quasi qualcuno potrebbe perfino rimpiangere il passato, di sicuro più “politico” di quel ci offre il presente…
Dopo l’uxoricidio, Althusser, morto poi nel 1990, non subì alcun processo. Sostenuto come il regista Polanski dall’incredulo (o forse ipocrita) mondo intellettuale, fu dichiarato mentalmente infermo, alternando negli anni successivi il lavoro accademico a soggiorni in clinica psichiatrica e mantenendo la sua camera all’Ecole Normale Superieure dove insegnava dal lontano 1948. In galera non mise piede, ma alla emarginazione non riuscì a rassegnarsi, arrivando a scrivere un’autobiografia in certo senso inutile, perché a venir fuori era un testo anch’esso metafisico, privo di dolore vivo per quanto fatto, ma in compenso, espressione di quell’autostima squilibrata per non dire pazzia che lo avrebbe portato anche, come ha raccontato qualcuno, a scendere in strada urlando ai passanti “Io sono Luis Althusser!”. Non c’è troppo da stupirsene. Convinto che l’oggetto esistesse solo in funzione della teoria che lo descriveva, l’esponente più in vista del marxismo strutturalista aveva propagandato con successo la derealizzazione di Marx, aveva ragionato su come trasferire il suo pensiero sul piano delle idee, rendendolo invulnerabile a qualunque critica di tipo empirico. In altre parole, rifiutare la realtà.
Proprio quello che voti alla mano è riuscito a fare negli ultimi decenni il partito comunista, passato di “svolta” in “svolta” (da quella di Salerno alla Bolognina), dall’essere PCI a Pd passando per Pds e Ds, dal compromesso storico a quello con i poteri una volta tanto aborriti, dalla lotta nelle fabbriche fino all’abbandono del mondo degli esclusi e delle periferie, dalle gloriose lotte sindacali all’ammirazione dello sciagurato modello Blair, fino al “migliorismo” di un Napolitano mai dimostratosi in vita sua tanto attivo sulla scena politica come da presidente della Repubblica, per non parlare dello spaventoso abbaglio collettivo per un l’ex segretario Renzi, uno che pretendeva di spacciarsi come erede di La Pira andando a braccetto con Marchionne. Un partito borghese che ha conservato dentro di sé l’idea fumosa di una società “altra” e diversa da quella borghese, fino agli schiaffoni a ripetizione ricevuti da scadenze elettorali da cui è uscito a tutti gli effetti come partito “di classe”, ma non esattamente in senso gramsciano. Più che un partito, un’idea di partito che continua però a godere della fiducia a prescindere di molti intellettuali, dal Moretti che nel 2002 urlò a piazza Navona “con questi dirigenti non vinceremo mai”, fino a un Michele Serra che tra due merde preferisce mangiare la propria: “ragionamento” non troppo diverso da quello di Cacciari sul referendum renziano: “fa schifo ma voto sì”.
A differenza di quello attuale, almeno l’apparato culturale del PCI di una volta, quello che dal dopoguerra fino agli anni Settanta ha dettato legge nella società italiana, era imponente e pervasivo, per quanto articolato intorno a un partito ancora sostanzialmente convinto – molto togliattianamente e poco vittorinianamente – che gli intellettuali avessero il dovere di mettersi al servizio di un progetto politico prima ancora che esplorare a proprio piacimento i campi della conoscenza.
La voce “Cultura” redatta da Alberto Asor Rosa per “La storia d’Italia” dell’Einaudi alla metà dei Settanta dava bene il senso dell’egemonia conquistata, offrendo una rilettura degli ultimi cent’anni di cultura italiana perfettamente funzionale a una logica egemonica del PCI (eurocomunismo e compromesso storico). Nella stessa opera il filosofo Cesare Luporini nel capitolo “il marxismo e la cultura italiana del Novecento” sosteneva la discontinuità tra Labriola e Gramsci, chiamando la necessità di nuovo mandato per un’élite intellettuale nutrita di francofortismo a forte trazione hegeliana. Era un’élite intellettuale chiusa in salotti dove nessuno si sognava più di aprire le finestre, nemmeno per osservare, giù in strada, nemmeno i cartelloni pubblicitari. Con tanti saluti al povero Gramsci, strumentalizzato da Togliatti, accusato di “populismo” dall’Asor Rosa di “Scrittori e popolo”, senza che nessuno conto si sforzasse di capire quanto avesse visto giusto dal carcere l’autore dei “Quaderni” quando individuava il rischio, per gli “intellettuali europei” di essere “una casta a sé, senza radici nella vita nazionale-popolare”. E anche allo stesso Pasolini, idolatrato come Gramsci dopo la morte ma fino ad allora considerato un ostacolo a che in Italia si potesse affermare una politica autenticamente rivoluzionaria. Era quella sinistra formato PCI che dettava legge, che portava Argan a sindaco di Roma e che con la riforma lottizzatrice entrava alla RAI dalla porta principale; era la sinistra marxista italiana che sprezzava come “torbidume arcaicizzante” (così Fortini) le ricerche di un antropologo già definito “intellettuale decadente” da Togliatti come Ernesto de Martino, che dava dignità culturale a un mondo reietto e sollevava sane perplessità sull’esistenzialismo “negativo” di Heidegger.
“Amo l’umanità ma odio gli uomini”, dice il personaggio di un racconto di Dostoevskij. La stessa cosa che rimproverava Pasolini a Fortini in una lettera del 1959, dove parlava dei mali di una sinistra troppo chiusa in se stessa: “Io sono marxista come sei tu, solo che io ho presente non solo nel mio pensiero ma anche nella mia fantasia, l’enorme massa dei sottoproletari, da Roma in giù. Invece che fare tante storie, manifestare tanti sospetti, se la cosa davvero ti importa, vieni a occuparti un po’ tu di questo problema che riguarda metà circa della popolazione italiana e quindi anche noi. No: invece tu sordo cieco, tappato in casa, con un’idea tutta ideologica degli operai e in genere del mondo, stai a fare il giudice di coloro che si spendono e, spendendosi, sbagliano, eccome se sbagliano”.
L’atteggiamento criticato da Pasolini era lo strano frutto di quell’idealismo progressista che aveva permesso agli intellettuali comunisti di formazione crociana di non rinnegare il proprio passato, e allo stesso tempo impedito loro di mettere in discussione il primato (hegeliano) della filosofia sulla storia. Come avrebbe poi detto Carlo Salinari, lo studioso di letteratura responsabile della politica culturale del PCI dal 1951 al 1955, “la polemica crociana contro il positivismo si accompagnava alla svalutazione della conoscenza scientifica, fatale per la cultura italiana; il richiamo alla storia di Croce era il richiamo alla storia delle idee, non alle forze storiche che muovono la storia”. Tornato sugli scudi comunisti di una dottrina comunista che da Lenin arriva a Marcuse passando per Lukàcs e Korsch, nonostante le inascoltate contravvertenze dei vari Della Volpe e Semerari, il morbo dell’idealismo aveva fagocitato il marxismo, così come il crocianesimo aveva ridotto Gramsci a una specie di santino, padre del PCI e de “L’Unità”. Era la linea idealista-comunista dettata da Togliatti: un progetto “nazionale”, funzionale al recupero di tutta una componente intellettuale di formazione crociana e gentiliana nell’orbita del partito.
Nel 1990, il filosofo Jean Guitton definì Althusser (originariamente fervente cattolico, diventato ateo con la moglie Hélene), un mistico-leninista: la sua idea, era conciliare Lenin con santa Teresa d’Avila. Più modestamente, in casa nostra con l’Ulivo di Prodi e di Vetroni si pensò di poter conciliare quel che era rimasto dell’ormai ex partito comunista con un cattolicesimo da sfogliare (c’è-non c’è) nella cosiddetta Margherita di Rutelli e compagnia, così brillantemente amministrata dal tesoriere Luigi Lusi con quella decina di milioni di euro spariti nel nulla. In effetti, cos’è il catto-comunista se non una versione light del mistico-leninista, una sua propaggine in tempi di liberismo? Solo che questo catto-comunismo (o anche crocianesimo-marxista) nostrano, da anni molto a corto di cultura politica, è riuscito a fare di due forze, di due fedi, una debolezza metafisica: sempre più avulsa dalla realtà, senza interesse e forse capacità culturali per interpretare una società in trasformazione. Con un paradosso (storico) incorporato: che a turbare i sogni e gli atti del PCI alla fin fine è stato proprio quel riformismo turatiano sconfitto a Livorno (ultimo in quel congresso, con meno del 10% dei delegati) e salutato a posteriori troppo facilmente come una “profezia” alla luce della strada social-democratica ma sciaguratamente liberista imboccata nel dopo PCI. Una scelta che molto poco sarebbe piaciuta allo stesso Turati.
Cosa resta oggi del PCI? “Poco, pochissimo, forse nulla” concludeva Filippo Ceccarelli qualche giorno fa su “la Repubblica”. Anche troppo buono. Un modo di consolarsi però gli eventuali nostalgici possono trovarlo: non è mai andato in giro di notte a gridare “Io sono il PCI!”.