Distinto, cordiale, pacato, Mario Segni (per i più Mariotto) è stato uno dei protagonisti della transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica. Nato in una delle migliori famiglie sassaresi, figlio di Antonio Segni (già Presidente della Repubblica e ministro), è cresciuto in un’Italia che si affacciava al boom economico. Dopo la malattia del padre entra in Parlamento nel 1976 eletto in una DC segnata dalle visioni del compromesso storico e da fughe consociative, portando avanti una visione di rinnovamento ispirata al cattolicesimo liberale di Sturzo e De Gasperi alternativa alle sinistre. Una bussola che lo porterà nel gruppo di Proposta, pur rimanendo sempre indipendente rispetto alle correnti e alle trafile della Balena Bianca.
Sottosegretario durante i governi Craxi e Fanfani prosegue la sua attività politica nella DC guardando al superamento della Partitocrazia, della correntocrazia, cercando di attuare un mandato maggioritario sulla scia degli auspici del centrismo storico, del maggioritario sul modello inglese. Negli anni della fine della Prima Repubblica è in prima fila per la campagna referendaria ottenendo nel 1991 la vittoria del Si per il superamento del proporzionale (fu il referendum più votato della nostra storia nazionale). Di fronte alla crisi dei partiti tradizionali si fa promotore di un blocco riformatore per realizzare una coalizione moderata e liberale. Poi la svolta berlusconiana, quella di Fiuggi e l’evoluzione della Lega riscrivono le variabili dell’equazione politica italiana nasce un nuovo bipolarismo. A partire dal 1996 porta avanti il suo impegno per la riforma del sistema politico parlamentare italiano per favorire partecipazione e stabilità, ma la controrivoluzione parlamentare introduce prima i compromessi proporzionali e poi le indecenze del Porcellum e dei suoi derivati. Di fatto un vero sistema maggioritario uninominale, come da lui vaticinato, non emergerà mai, ma trionferà invece la partitocrazia senza partiti (però ricca di cerchi magici e nuclei di poteri) tramite le liste bloccate e lo svilimento del ruolo del Parlamento.
Dopo aver lasciato la politica ha continuato il suo impegno saggistico e culturale, specie recuperando la memoria del padre tramite il suo testo “Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news” (Rubbettino). Un saggio in cui analizza la genesi della narrazione della DC golpista e della trasfigurazione della figura di Antonio Segni da parte di una componente rumorosa e radical della stampa italiana. Acuto lettore e colto giurista, abbiamo intervistato Segni per ripercorrere la storia della nascita della Seconda Repubblica, e dell’agonia di quella presente stravolta dalle conseguenze politiche del trumpismo.
-On. Segni lei ha vissuto il tramonto della Prima Repubblica e l’affermazione della Seconda, ora come valuta la cosiddetta Terza repubblica (o Seconda allargata) in cui per molti studiosi siamo immersi?
Il mio giudizio sulla cosiddetta Terza Repubblica (che forse è solo un’altra parte della Seconda) è molto negativo, sotto numerosi aspetti, in quanto – come è riconosciuto da tutti – il Paese e la sua classe dirigente, si trovano in una fase discendente, se non decadente. Un momento di crisi, evidenziato in primis dai risultati delle ultime elezioni europee e dalle altre tornate elettorali regionali che hanno registrato un’affluenza sotto il 50%, le più basse della nostra storia repubblicana. Tale fattore indica una profonda stanchezza del sistema e, soprattutto, della società italiana. Quindi è chiaro che siamo nel momento di quella fase che va dalla fine della Prima repubblica a quello che sarà un futuro ancora incerto segnato da grandi cambiamenti internazionali e strutturali. Naturalmente non si possono fare previsioni sicure riguardo ai processi in corso, ma io credo che la fine dell’attuale Repubblica potrebbe essere datata il giorno dell’elezione di Donald Trump. Con l’inizio della crisi del rapporto transatlantico e più in generale di una certa idea della democrazia occidentale. Naturalmente siamo solo agli inizi del nuovo mandato trumpiano e bisognerà stare a vedere come esso si evolverà nel tempo. Ma credo che stiamo assistendo ad un cambiamento di epoca con risvolti in tanti casi preoccupanti. Non mi meraviglierebbe, in questo senso, che gli storici futuri indichino quest’elezione, come un giorno cruciale della nostra storia contemporanea.
-E, secondo lei, perché proprio la Seconda Repubblica si chiude con l’elezione di Trump?
Perché Trump propone, un cambiamento generale di organizzazione della società e del sistema politico che è radicale e che potrebbe mutare le fisionomie degli attuali paradigmi democratici occidentali. Un passaggio di paradigmi che è ancora in corso, ma è contraddistinto dalla crisi totale dei sistemi e modelli attuali. Forse stiamo vivendo, quindi, un po’ gli ultimi giorni di un modello – in parte agonizzante – che ha governato per anni il nostro Paese.
-Oggi come vede il premierato?
L’ho visto sempre con favore, poi si tratta di aggiustarlo, di mettere i necessari correttivi, non c’è niente di strano, che nel sistema maggioritario ci sia in qualche modo l’elezione e l’indicazione del primo ministro. Però, attenzione, non so se è il momento di parlarne, perché tutto questo è cambiato, con l’elezione di Trump. È cambiato con lo scenario mondiale, anche quello italiano. Perché Trump ha una concezione politica che non vuole solo il potenziamento dell’autorità e del potere degli organi di governo, ma il cambiamento dei principi e degli equilibri dei pubblici poteri e addirittura della società civile. Non devono governare i più, ma governano i più capaci e soprattutto i più ricchi, i più potenti economicamente. Questa è la sintesi. E allora, sotto questo aspetto, il quadro è completamente diverso. Non si tratta più solo di far funzionare bene gli organi di governo, che in molte società, come la nostra, sono stati effettivamente compressi, limitati, generando un grande danno per la collettività. Ma si tratta invece di vedere che cosa fare e come riordinare la società. Si tratta quindi di cercare di cambiare la “forma” (cioè, rafforzando l’esecutivo) riaffermando e difendendo però la “sostanza” (cioè, la difesa degli equilibri democratici e liberali). Perché nell’attuale logica trumpiana l’elezione e la scelta diventano non più l’insediamento di un mandato politico, ma l’affidamento della società a un gruppo che si è distinto per capacità diverse dalla politica, come il potere finanziario ed economico.
-C’è un modo di poter conciliare la difesa della impostazione democratica con, dall’altro lato, anche un rafforzamento del potere dell’esecutivo che non sminuisca però il ruolo del Parlamento?
Nella concezione che porta avanti Trump non c’è alcuna sintesi possibile. In quanto non ci può essere alcun limite, praticamente, al potere del leader. Perché c’è proprio non solamente un rafforzamento dell’esecutivo, c’è sostanzialmente una svalutazione della legge, della regola, del principio delle norme che le istituzioni applicano alla politica. Mentre nel caso di Meloni teoricamente ci sono le condizioni però solo se si guarda con attenzione all’equilibrio dei poteri. Basta introdurre, per il Sindaco d’Italia, alcune opportune cautele, con un forte culto dei contrappesi e dei limiti dei poteri. Un rafforzamento del ruolo dell’esecutivo, che all’opposto di come avviene ora negli USA, contempli un forte e saldo equilibrio rispetto al potere giudiziario, legislativo, ai ruoli del Parlamento e soprattutto della Presidenza della Repubblica. Mi sembra questo l’unico modo per rafforzare il governo senza scadere in derive autocratiche.
-Montanelli diceva che Antonio Segni aveva un rapporto carnale con la Sardegna, Mario Segni che tipo di rapporto ha invece?
Molto diverso, io sono pienamente sardo e amo la mia terra, ma il rapporto con la Sardegna che ho è completamente differente da quello di mio padre. Anche perché lui ha vissuto sempre a Sassari, specie durante gli studi universitari, ed ha avuto per questo un rapporto profondo. Specie con la Sardegna rurale, con il mondo agricolo per il suo ruolo nella riforma agraria. Io ho vissuto tra Sassari e Roma negli anni della gioventù, in una Sardegna ben diversa e molto più moderna dalla sua. Non per questo sono o mi sento meno sardo, ma certamente il nostro rapporto è ben diverso. Meno intimo e sanguigno.
-Quel mondo sardo a cui appartiene ebbe però illustri famiglie di esponenti politici. I Cossiga, i Berlinguer, i Segni. Che rapporto c’era tra queste famiglie che poi vivevano a pochissimi chilometri di distanza e che hanno seguito il mondo istituzionale da diversi punti di vista? Come queste tre famiglie si relazionavano e che rapporto avevano?
Si tratta di tre famiglie note che erano nate a poche decine o centinaia di metri di distanza nel centro di Sassari in cui abitava la vecchia borghesia dell’isola. Si conoscevano da molto tempo. Fra Berlinguer e Segni c’è poi la comunanza della villeggiatura a Stintino, che invece non riguardava Cossiga. Si può dire che questo è stato un caso sassarese più che sardo, estremamente singolare, ma certamente dovuto anche a situazioni un po’ particolari, destinate a non potersi ripetere. Furono storie che si svolsero, almeno per quella di Berlinguer, separatamente. Perché Enrico Berlinguer è nato a Sassari ma poi non ha fatto mai attività politica in Sardegna, in quanto si è proiettato subito nell’ambito delle strutture nazionali del Partito Comunista, mentre mio padre e Cossiga effettivamente furono parlamentari della Sardegna, anche se immediatamente proiettati nella vita nazionale. Sono veramente le cose della vita, non c’è una legge che abbia predeterminato tutto, anche se questo colpisce certamente. Va detto però che Sassari è una città che aveva le caratteristiche per esprimere statisti a livello generale, tramite una classe dirigente con una cultura piuttosto alta e una valenza politica e professionale poco sarda in un certo senso e quindi favorevole a questo tipo di personaggi. Ricordo con curiosità un fatto di quando ero ragazzino: alcune cartoline che ci mandava da Mosca Enrico Berlinguer, allora segretario dell’Internazionale Comunista. Ricordo i suoi saluti a “zio Antonino”. Con Francesco Cossiga, e con i miei fratelli, invece, facevamo delle vacanze divertentissime sulle Dolomiti, a Misurina. Sicuramente il più sassarese però fu mio padre. Mio padre Antonio, infatti, ha avuto nella sua vita un ventaglio straordinario di cariche pubbliche, ma gli era rimasto il cruccio di non averne mai avuta una alla quale teneva tantissimo: fare il sindaco di Sassari.
-Lei si appassionò presto alla politica, cosa le disse?
Mi diede un consiglio che ho sempre seguito: “Fai pure, ma solo dopo esserti costruito una posizione personale. Devi essere sempre in grado di andartene in punta di piedi”. Così feci e diventai professore.
-Guardando al passato che ricordo ha di suo padre Antonio Segni?
Beh, il ricordo è quello di un figlio affezionatissimo al padre, che anzi lo seguiva finché poteva, ed a lui era profondamente legato. Avevo un ottimo rapporto con lui ed ero l’unico col quale ogni tanto parlasse di politica, si sfogasse e raccontasse le sue vicende. Ed anche se era occupatissimo avevamo dei momenti molto belli di confronto e di dialogo.
-Qual è stato il momento più bello con lui?
Questo è difficile da dire perché la sua è stata una vita molto intensa, fatta di tanti impegni e di grandi momenti di lavoro. Una condizione acuita dal fatto che la nostra famiglia era divisa tra Roma e Sassari, e che un po’ stavamo da una parte e un po’ dall’altra; quindi, spesso non c’erano mai lunghi periodi di calma o di tranquillità. Ci sono stati quindi dei bei momenti, ma spesso erano fugaci, immediati e quindi spesso indistinguibili nella lunga galleria di bei momenti passati insieme. Sono certo di poterle, però, dire quello che è stato il momento più triste: il giorno in cui si ammalò.
-Cosa provò in quel momento?
Si trattò di un evento molto importante dal punto di vista personale e familiare. Un momento che naturalmente cambiò la mia vita. Io poi avevo 24 anni (non ero certo un ragazzino, ma non ero neanche così maturo), e il fatto che mio padre, che aveva rappresentato quasi tutto per me, rimanesse gravemente malato, fu un grande trauma personale. Ed anche se la malattia non aveva compromesso la sua lucidità, gli aveva però impedito di esprimerla, di parlare, di vivere a pieno la sua vita.
-Come visse l’esplosione del caso del Piano Solo, quando era già gravemente malato?
Ricordo che, quando gli leggemmo il giornale, vedemmo il suo volto ricoprirsi di un dolore incomunicabile. La sua malattia non fu un’esperienza facile, però sono contento di conservare nitidamente i bei ricordi passati insieme prima di essa.
-Passando invece a quello che è stato il suo ingresso nel mondo politico, volevo chiederle come è iniziato il suo percorso istituzionale?
Guardi, il mio ingresso in politica è avvenuto in maniera molto semplice, seppur inusuale per le ritualità dell’epoca. La mia attività politica iniziò, infatti, con la candidatura come parlamentare. In genere la candidatura in Parlamento, in un partito organizzato come la Democrazia Cristiana, era il compimento di una serie di eventi, di attività, di iniziative. Il culmine di un percorso come poteva essere quello di sindaco o consigliere regionale. Per me non fu così. Però si trattò di un caso del tutto particolare, dovuto soprattutto al fatto che ero figlio di Antonio Segni e ne proseguivo direttamente la tradizione politica e culturale. Alle elezioni che si svolsero nel 1976, io proposi, infatti, la mia candidatura ai dirigenti locali, ma anche all’opinione pubblica, giovando del fatto che fu un’elezione difficile per la DC (si rischiava il sorpasso col PCI), e quindi il Partito era ben lieto di accogliere un certo rinnovamento. Il ricordo di mio padre poi era ancora fortissimo, e quindi ci fu solo una risposta positiva sia dai quadri locali che dai cittadini. Penso però di aver interpretato bene il ruolo che mi veniva assegnato in quel momento, anche se sicuramente la vera forza della candidatura naturalmente, come ripeto, fu la memoria e l’eredità di Antonio Segni, non di Mario, che veniva conosciuto proprio in quel giorno. Nonostante da quel momento iniziò il mio percorso nelle istituzioni.
-E come si inserì nel complesso panorama democristiano?
Effettivamente io fui un caso piuttosto anomalo, anche per il mio percorso dopo l’elezione, in quanto non feci mai parte di alcuna corrente organizzata, né prima di fare politica né più avanti. Quindi non passai attraverso la normale trafila di un uomo politico dell’epoca che si affermava tendenzialmente attraverso le strutture di partito. Ed avevo già un lavoro in quanto ero un giovane professore universitario. Ciò mi spingeva a una maggiore autonomia, e per tali ragioni, fui fin dall’inizio un solitario.
-E quindi voleva portare avanti anche questa sua indipendenza nel panorama della DC…
Cercai di portare avanti una visione a favore di un maggiore rinnovamento, per superare lo strapotere delle correnti e ogni deriva consociativa. Il dominio delle correnti era piuttosto ampio, tanto da costituire, in realtà, fino alla fine una causa dell’annebbiamento della politica democristiana e in alcuni casi contribuendo anche a episodi di malcostume.
-Quali furono le conseguenze dello strapotere delle correnti?
Produssero una dura lotta politica interna che era fatta soprattutto di rapporti di forza e conquista, tramite la produzione ipertrofica di tesi, che finiva spesso per offuscare personalità che potevano essere utili per una stimolazione politica. Come forse fu Umberto Agnelli. E infine erano strumenti costosissimi e disfunzionali, continuamente bisognosi di finanziamenti. Naturalmente tutto questo aveva eccezioni, c’erano personalità che sfuggivano a queste logiche, ci furono momenti di rottura, ma insomma il fenomeno più che un mero nodo dell’organizzazione interna della Democrazia Cristiana fu una delle cause che portarono alla propria irreversibile crisi.
– E in questo quadro chi fu la figura che più può considerare un suo mentore o un suo riferimento…
Guardi, mentori non ebbi proprio perché non appartenevo a nessuna corrente. C’erano, poi, ovviamente, figure che io rispettavo profondamente e a cui ero legato da rapporti di stima. Nonostante le spesso profonde e inconciliabili divergenze.
-Ci faccia qualche esempio…
Il primo era Moro, del quale non fui mai un seguace politico, non per mancanza di stima verso di lui, ma in quanto poco dopo il mio ingresso in politica – siamo nel 1976 – si pose apertamente il problema del compromesso storico, del rapporto verso il PCI. E io ero su posizioni nettamente opposte a quelle di Moro. Già all’epoca ero per una repubblica maggioritaria e bipolare. Tanto che nella mia visione il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana dovevano essere due perni alternativi e disgiunti del sistema politico, non due poli tra di loro consociati. Una posizione assolutamente in contrasto con quella del compromesso storico e del consociativismo che portammo avanti insieme ad altri giovani parlamentari democristiani, con cui creammo il gruppo Proposta. In quella fase fummo quelli che si opposero con più durezza, sebbene non avessimo nessun strumento di potere, al sentiero della Solidarietà Nazionale. Dopo la crisi del 1978, apparve chiaro che avevamo avuto ragione.
-Parliamo del suo libro, sul cosiddetto golpe del 1964. Come nacque l’idea di questa opera?
Questo libro è nato in modo singolare. Qualche anno fa, nel 2018, ricorrevano i 40 anni del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro. Nel rileggere i giornali che ripercorrevano la sua vita e la sua vicenda mi capitò di leggere anche alcuni articoli che rievocavano in modo arbitrario le vicende del 1964. Ho quindi deciso di effettuare una rilettura attenta degli stessi e mi sono accorto che la narrazione era rimasta sostanzialmente inalterata in 50 anni e perciò sostanzialmente falsa. Dopo tre anni in cui mi dedicai alla ricerca del materiale mi sono reso conto che era stato raccontato un pezzo di storia italiana con una costruzione falsa. Come documenti mi sono basato sull’archivio Antonio Segni e, per una strana circostanza, a casa ho trovato una cassetta con molte lettere e documenti che poi ho richiamato nel libro e prodotto come allegati. Ma nel rileggere il tutto la scoperta più grande, più significativa e più singolare è stato il costatare come troppi documenti conosciuti erano stati raccontati in modo diverso, se non opposto.
-A quale scopo?
Credo che sia stato il desiderio di un grande scandalo. In ogni caso, questo ha influenzato fortemente tutto il corso degli anni Sessanta. Da lì è iniziato il racconto della Democrazia Cristiana golpista. Il risultato di questa predicazione è stata una campagna che dipingeva l’Italia come ad un passo dal colpo di Stato e la DC come partito pronto a fare il golpe pur di sbarrare la strada al PCI. La narrazione successiva ha poi rafforzato la tesi che ha fatto partire tutto dal luglio 1964, con l’azione golpista nella quale sarebbero stati coinvolti il Presidente della Repubblica e l’Arma di Carabinieri.
-Antonio Segni però era contro il centrosinistra?
Innanzitutto, aveva una contrarietà tattica perché riteneva che l’alleanza con i socialisti si dovesse fare più avanti nel tempo e dava un giudizio fortemente negativo sulla politica economico del Governo Fanfani (che aveva l’appoggio esterno del Psi). Una preoccupazione estremamente forte che condivideva con Guido Carli, l’allora Governatore della Banca d’Italia, cui si aggiungevano quelle di una larga parte della stampa più autorevole e della Cee. Oltre che di Merzagora.
-E cosa c’entrava il piano Solo?
Secondo la tesi golpista era lo strumento con cui veniva imbavagliato il disegno riformista e quindi il programma del governo. In realtà era, invece, un piano antisommossa, preventivo, contro un’ipotetica azione militare. “Solo” perché prevedeva che fossero soltanto i carabinieri a intervenire. Ma anche la polizia aveva un progetto simile, il piano Vicari. Non successe mai nulla. Pietro Nenni, però, smentì per iscritto che ci fossero tentazioni autoritarie da parte di mio padre. Azioni politiche molto forti sì, ma niente di altro. Ho scritto un libro per contrastare lo scoop dell’Espresso di Scalfari e Jannuzzi del 1967, sul presunto tentativo di golpe del 1964. Quel racconto – anzi diciamo quell’invenzione – fu la madre di una serie di fake news che dipinsero la DC come un partito golpista.
-Si spieghi meglio?
Lo scandalo del Piano Solo scoppiò nel 67 quando nessuno ne sapeva nulla. E ciò in un Paese come l’Italia è stranamente sospetto, specie per la mole di personalità coinvolte. Stupisce come nessuno si sia accorto di questo presunto golpe, il che suggerisce che probabilmente non ne esistesse alcuno… Ed anche nella nostra famiglia non ci fu il ben che minimo sospetto o cambiamento rispetto alla nostra normale routine. Credo, del resto, che dati i rischi di un tentativo di quel genere, se qualche segnale ci fosse stato lo avremmo colto… Aldilà di ciò, mi resi conto di una serie di invenzioni, di falsificazioni, di totale copertura della verità. Rimasi estremamente sorpreso. Non avrei mai creduto che fosse possibile costruire una storia di cui i pilastri erano totalmente infondati.
-Ci faccia un esempio…
Nenni viene citato varie volte come quello che, per gli artefici di questa narrazione, per primo si rese conto che stava succedendo qualcosa, tramite la formula del “tintinnare di sciabole”. Ora Nenni, in realtà, potrebbe essere citato, se ci fosse il processo, come il principale testimone, non di accusa ma di difesa di mio padre. Perché Nenni disse che non ci fu mai il rischio di un colpo di stato, né che subì mai pressioni dal mondo militare. Lui testimoniò che Antonio Segni aveva svolto un ruolo di contrasto politico molto forte contro il centro-sinistra, e questo è verissimo. Però confermò che lo svolse apertamente, né ci fu mai una vera azione di censura o di abuso da parte di mio padre in questo senso.
-Tutto da riscrivere quindi…
Certo. La narrazione dominante descrive un governo di centro-sinistra che coraggiosamente vuole fare le riforme (a cominciare dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica), e un fronte di destra, democristiano, appoggiato fortemente dagli industriali, che a un certo punto cerca di coinvolgere anche una parte del mondo militare per frenare questa eventualità. In realtà il quadro era ben diverso. Il blocco delle riforme preparato e portato avanti dal governo Moro, si muoveva in un quadro di forte crisi economica nella quale una svolta statalista e troppo interventista avrebbe potuto provocare un aumento dell’inflazione e una grave crisi finanziaria. Tanto è vero, che la battaglia contro la politica del centrosinistra fu condotta non solo dal Presidente della Repubblica, ma, con lo stesso rigore, dal Governatore della Banca d’Italia di allora che era Guido Carli (che era un vero riformista), e attirò le preoccupazioni di molti nostri partener europei specie nella Commissione Europea guidata da Walter Hallstein. Carli, che, come ho già detto, non era certamente un uomo di destra, avvertiva i pericoli per la tenuta economica dell’Italia provocati da un cambio di passo di questo tipo. Si facevano addirittura scenari weimariani… C’era poi Merzagora, molto legato al gruppo degli industriali, che incarnava un malcontento e una preoccupazione che era propria di tutto il mondo produttivo. Quindi si trattò di una vicenda in cui sussisteva in realtà lo scontro tra il “centro sinistra” e una linea economica rigorosa ad esso avversa. Uno scontro, di carattere essenzialmente politico, che però si risolse in quegli anni.
-Quando scoppiò, invece, lo scandalo?
Con l’invenzione del caso del Piano Solo, secondo cui esisteva un piano golpista guidato dal Presidente della Repubblica e dai Carabinieri. Tale racconto associava la lotta politica di cui sopra ad una lotta, in realtà, tra i fautori di una svolta golpista, come veniva additato di essere mio padre, e il blocco riformista per la difesa della democrazia di Moro, Nenni e Saragat. Una narrazione che tanto i responsi giudiziari quanto i protagonisti di ambo gli schieramenti smentirono del tutto. Perché quello del 1964 fu uno scontro politico sul centrosinistra, non una lotta contro la presunta deriva golpista delle forze della reazione…
-Chi furono i suoi registi?
Il principale, il vero patron, ispiratore, sostenitore, fu certamente Eugenio Scalfari. Mentre il principale esecutore fu Lino Jannuzzi, cioè quello che con grande abilità professionale, ricostruirà tutte le vicende. Anche lì con totali falsificazioni. Per esempio, secondo loro mio padre si era sentito male durante quel colloquio per lo scontro verbale che c’era stato con Saragat sulla questione del movimento diplomatico e la vicenda del Piano Solo, e lì sarebbe appunto arrivato l’ictus. Venivano spesso citate e raccontate delle vicende e delle storie del tutto false e romanzate. Come il fatto che alcuni corazzieri avrebbero sentito Saragat gridare da dentro: “Io ti mando davanti ai carabinieri per quello che hai fatto”. Ma ciò è smentito da tutti quelli che erano lì quel giorno e dal fatto che i corazzieri erano tanto lontani che non avrebbero potuto nemmeno in ipotesi sentire le loro urla… Un ennesimo esempio che mostra come anche nei piccoli particolari c’è stata una totale manipolazione di quella vicenda. La verità è che i cinque anni successivi furono segnati dall’esplosione della cultura rossa, e che c’era bisogno di un episodio emblematico che coinvolgesse la componente liberale della DC per delegittimarla. Specie nella sua volontà di contrastare alcune svolte invasive e dispendiose in finanza pubblica.
-Quando nacque l’idea dell’opzione referendaria?
L’idea della battaglia per il maggioritario me la fece nascere Pannella, che creò la Lega per il collegio uninominale. Si costituì a livello parlamentare e c’erano dentro tutti i radicali, mentre era patrocinata dai socialisti. Formica era uno dei più attivi, tanto è vero che si raccoglievano fondi e i soldi venivano versati all’Avanti. Lì questa Lega fece delle cose molto belle sul piano culturale, e fu molto attiva. Questa è la parte precedente. Dopo di che però il referendum fu inventato non da me, ma dal Congresso della Fuci presieduto da Guzzetta, con Ceccanti e Tonini. Guzzetta trovò anche il meccanismo giuridico e io lo seppi dai giornali. La cosa mi interessò, andai a trovare i fucini assieme a Bartolo Ciccardini e immediatamente si aggiunse Pietro Scoppola, che fu uno degli animatori della battaglia referendaria e una delle anime decisive del movimento. Stiamo parlando, non a caso, dell’89. Nel ’90 partì la prima raccolta di firme.
-Chi la contrastò maggiormente?
Per la Dc fu una grande occasione mancata. Avrebbe potuto appoggiare il referendum e assumere la guida del movimento riformista italiano. Fu succube, invece della irruenza di Craxi e della durezza con cui egli combatté il referendum. Non me l’aspettavo. Craxi era stato l’inventore della grande riforma. Invece fece un ragionamento puramente tattico. Disse che col maggioritario non ci sarebbero più stati sindaci socialisti, ma che sarebbero stati tutti o democristiani o comunisti. Naturalmente per la Dc contò, per determinare l’opposizione al referendum, il convinto appoggio di Occhetto. Il paradosso fu che una riforma di tipo gollista passò, in Italia, con l’appoggio della sinistra e con la feroce contrarietà di tutto il mondo politico moderato. Poi noi, per fortuna, avevamo l’appoggio di Montanelli, della Confindustria, dell’associazionismo sociale. Ma Forlani, Andreotti, Craxi che in quel momento erano i detentori del potere, erano ferocemente contrari e fecero di tutto per ostacolarci…
-Dal 1996 si dedicò principalmente all’impegno per il maggioritario?
Sentii che ormai dovevo dedicarmi alle questioni istituzionali, non alla politica in senso stretto. E da una posizione più neutra noi preparammo un evento di cui oggi possiamo parlare con rammarico: il referendum del ’99 che avrebbe sancito il passaggio a un sistema maggioritario integrale. Fu veramente una catastrofe per il Paese. Non raggiungemmo, infatti, il quorum per pochissimi voti (49,6% rispetto al limite del 50). E quello che avrebbe dovuto essere il passaggio definitivo ad un sistema maggioritario e ad una vera nuova Repubblica fu, invece, l’inizio della restaurazione.
-Come visse gli anni della campagna referendaria e della fine della Repubblica dei partiti?
Tutti noi avevamo aspettative di un cambiamento profondo nel Paese che poi non si è realizzato. Allora la fase referendaria di quegli anni segnò veramente la fine della prima Repubblica e quindi un cambiamento profondo nel Paese. Perché si formò un movimento culturale, politico che coinvolgeva il nerbo dello Stato italiano e da cui i partiti organizzati erano sostanzialmente esclusi. Insomma, nonostante la vittoria popolare nel referendum del 1991 del 1993, nella fase di assestamento parlamentare e poi governativo fummo sconfitti. Qui devo ammettere anche un nostro errore, avevamo sottovalutato la forza del sistema, e di quel che rimaneva del ceto parlamentare che riuscì abilmente a svuotare e a dirottare il corso della riforma. Era stata talmente forte la vittoria politica del risultato dei due referendum (tanto che furono i referendum più votati in tutta la storia della Repubblica) che ci sembrava ormai di avere già la vittoria in tasca, e quindi trascurammo il dibattito parlamentare. Un’opera di fiancheggiamento, di svuotamento, di agguati, di sortite, vinse alla fine. Il maggioritario nel tradursi in legge fu depotenziato. Di fatti non ci fu mai un’elezione fatta col maggioritario, come era il significato del referendum. L’Italia non ha mai votato con un vero sistema maggioritario.
-Chi ha ucciso il ruolo del Parlamento?
Quella controriforma che è stata la reazione alle riforme referendarie, e il Porcellum ha dato il colpo di grazia al maggioritario, sostituendolo con le liste bloccate. A questo punto il potere dei partiti era totalmente restaurato e il Parlamento è stato svuotato di poteri, impoverito, privato della sua reale capacità di lavoro.
-Come uscirne?
La crisi del Parlamento ha una soluzione unica: l’abolizione delle liste bloccate e la legge uninominale secca. Ogni collegio elegge un deputato, e se i suoi elettori fanno riferimento a lui senza incertezze, lui sa che per essere rieletto per rendere conto a loro.
-Come visse il momento di nascita della Seconda Repubblica, del berlusconismo e del bipolarismo muscolare, se vogliamo?
Io mi ricordo che una volta quando Berlusconi stava per entrare in politica, abbiamo avuto un lungo incontro con lui. Ed io gli dissi, che ero contrario all’ingresso in politica di un leader con un’enorme potenza economica non come regola magari legislativa, ma come costume, come diritto politico. In quanto mi sembrava rischiosa la sua discesa in campo poiché questa fatalmente avrebbe dato la sensazione di una politica soggetta all’interesse e all’influenza, di un gruppo rappresentato direttamente dal suo fondatore. Prefigurando i rischi di un conflitto d’interesse ante litteram. Mi ricordo che gli dissi: “Non c’è in Italia uno che farebbe il Ministro dell’Industria meglio di Gianni Agnelli, ma se tu fai Gianni Agnelli Ministro dell’Industria tutti gli italiani pensano che quello che lui lo farà per la Fiat invece che per l’Italia. Creando un problema a livello istituzionale e morale”. Non mi ascoltò ovviamente. Quella previsione si confermò purtroppo pienamente vera, il potenziale conflitto di interessi fu un fatto deleterio che indebolì il mandato politico e di governo, ma non quello elettorale, di Berlusconi e del centrodestra. Un fattore che impedì di attuare riforme strutturali necessarie per il Paese di cui oggi sentiamo ancora la necessità.
-Fu testimone della stagione di Tangentopoli e di una ondata fortemente giustizialista da essa scaturita. Come vide quel tipo di deriva verso uno strapotere giudiziario, che fu saldato anche da un forte rapporto tra media e procure, media e magistrati?
Lo vidi come un pericoloso scivolamento. Specie di fronte all’opera di certa stampa e a fenomeni di vere e proprie campagne politiche basate sulla grande capacità della sinistra di sponsorizzare e sfruttare queste inchieste. Allo stesso tempo seppure Tangentopoli denunciò giustamente un clima di corruzione e immoralità appare evidente che nel farlo seguì troppo spesso delle derive giustizialiste. Tanto che fu totalmente abbandonato il principio della garanzia e dei limiti alle azioni giudiziarie. Oggi più che mai è invece importante riscoprire l’indipendenza della magistratura, ma in un solido e integro equilibrio di poteri. Senza la lotta dell’esecutivo per assoggettare il potere giudiziario e viceversa…
-Le volevo chiedere quali sono stati i grandi rammarichi della sua vita e quali invece i grandi successi di cui va propriamente fiero?
Il grande rammarico è quello che ho detto, di non aver completato il disegno referendario. Questo certamente. Mentre i grandi successi sono stati quelli che hanno accompagnato la prima fase della nostra lotta per il maggioritario e la riforma istituzionale.
-A chi è rimasto più legato, e con chi ha avuto, la maggiore sintonia o la maggiore frequentazione degli esponenti del mondo politico?
Beh, per esempio, nei tempi Proposta, con Roberto Mazzotta, Gerardo Bianco, nella fase referendaria penso ad Arturo Parisi, al tempo del Patto Segni a Diego Masi.
-Oggi, secondo lei, c’è uno spazio per il centro, o è sempre un tentativo, se vogliamo, illusorio o velleitario?
No, io penso di no. E non me lo auguro, perché comporterebbe automaticamente un’instabilità continua. Di fondo, uno dei vantaggi di questo periodo, in quest’anno che abbiamo passato, con tanti problemi, tanti limiti che ci sono stati è la stabilità del governo, un dato ovviamente importante per tantissime ragioni. E quindi penso che il futuro della dialettica politica sarà ancora il bipolarismo.
-Quali sono stati i riferimenti culturali della sua vita, i libri, i film, le figure che l’hanno ispirata e che può dire che fanno parte del suo bagaglio?
Il centrismo degasperiano di cui noi di Proposta ci sentivamo i continuatori. All’estero De Gaulle, che fu il principale fautore dell’idea presidenziale maggioritaria.
– Il suo libro preferito, invece, di narrativa?
Per esempio, noi abbiamo in Sardegna un libro stupendo, “Il Giorno del Giudizio” di Salvatore Satta, e poi penso al Gattopardo. Direi che quelli sono stati per me due colossi. Il libro di Satta però su tutti per il ruolo che svolse nel mostrare lo spirito della Sardegna, dei Sardi. Unito ad un senso spirituale cristiano molto forte.