I capi di gabinetto, in questi ultimi anni hanno goduto di una fama tanto misteriosa e suggestiva, quanto fantasiosa. Di essi si fa spesso, infatti, il ritratto di maschere ancestrali del Deep State, di figure che rappresentano il volto invisibile del potere. Uomini che dai gabinetti ministeriali, dietro le quinte governano il Paese, non tramite il consenso o il dominio, ma tramite il consiglio. Figure che non solo hanno il potere, ma che soprattutto sono il potere. Una ricostruzione degna dei romanzi di Michael Dobbs o di alcuni testi del miglior De Roberto, ma che rischia di fraintendere o oscurare i veri ruoli e poteri che si esercitano nei gabinetti ministeriali. Il capo di gabinetto è, infatti, una figura cruciale dei pubblici poteri che svolge un ruolo di coordinamento e collegamento tra decisore politico e amministrazione, e che nel tempo ha visto mutare le sue funzioni e il suo ruolo. Per capire veramente il loro ruolo abbiamo intervistato il Professor Guido Melis, studioso e saggista, tra i maggiori esperti di Storia delle istituzioni politiche e Storia dell’amministrazione, che alla storia e alle storie dei gabinetti ministeriali e dei suoi protagonisti ha dedicato “Governare dietro le quinte. Storia e pratica dei gabinetti ministeriali in Italia 1861-2023″(Il Mulino, curato insieme a Alessandro Natalini) e “Il potere opaco. I gabinetti ministeriali nella storia d’Italia” (Il Mulino, curato insieme a Giovanna Tosatti).
-“Eminenze grigie”, “opache figure del potere”, “grandi vecchi del Deep State”. Sui capi di gabinetto e sul loro ruolo è stato detto tutto il contrario di tutto, con ricostruzione o testimonianze spesso molto fantasiose (se non complottistiche). Professor Melis può dirci chi è veramente un capo di gabinetto e quale è il suo ruolo all’interno dei pubblici poteri?
Il capo di gabinetto è una figura sfuggente, che le poche norme esistenti non valgono a definire con precisione. In origine (età liberale) era il responsabile di un piccolissimo nucleo di collaboratori stretti del ministro, tratto dall’interno dell’amministrazione stessa e incaricato di funzioni di segreteria privata inerenti alla persona del ministro: corrispondenza, affari privati, tutt’al più rapporto col collegio elettorale. Il fascismo mantenne la figura entro questi limiti. Ma le cose cambiarono con l’avvento della Repubblica. La nuova classe politica espressa dai partiti non conosceva l’amministrazione e poco se ne fidava, ben sapendo che – in assenza di una vera epurazione – la burocrazia era quella stessa del fascismo. Così interpose tra il ministro e il vecchio apparato amministrativo coi suoi direttori generali un gabinetto; ma un gabinetto assai più vasto (per numero di componenti) e più incisivo (per funzioni delegate) di quanto non fosse accaduto prima. I capi gabinetto del periodo 1948-1963 furono in prevalenza scelti dai ministri nelle file del Consiglio di Stato, Corte dei conti e Avvocatura dello Stato (o, più di rado, nell’alta magistratura ordinaria). Giuristi (spesso molto preparati), privi di una qualificazione politico-partitica, in genere estranei alle singole amministrazioni alle quali erano preposti. Dico preposti non a caso, perché ben presto essi divennero i veri arbitri dell’attività amministrativa, surrogando o addirittura sostituendo i ministri responsabili e comandando l’amministrazione dall’alto.
Ci fu poi un’ulteriore fase, quella aperta dai governi di centro-sinistra a partecipazione socialista: dal 1963 (governo Moro 1) almeno sino agli anni Ottanta del Novecento, i gabinetti, pur traendo ancora i loro membri dalle istituzioni che ho sopra citate, ebbero però via via una maggiore colorazione politica. Il capo di gabinetto divenne maggiormente un interprete della linea politica del suo ministro. Le funzioni esercitate divennero più direttamente politiche. Da allora in poi il gabinetto e chi lo dirige è un’intercapedine tra il ministro e il corpo della sua amministrazione, che continua a operare coi suoi dirigenti generali ma soggetta alla sostanziale direzione del gabinetto; e svolge funzioni più o meno di direzione a seconda anche della personalità del ministro (per intenderci: un ministro pratico dell’amministrazione non si lascia fagocitare dal capo di gabinetto; uno alle prime armi o inesperto sì).
-Nel testo da lei curato, “Governare dietro le quinte”, vengono trattati la “storia” e la “pratica” dei gabinetti ministeriali. Come è cambiata nella storia italiana la funzione del capo di gabinetto?
In parte le ho già risposto: un cambio netto si ha dagli anni Sessanta in poi, quando la figura, prima “neutra” (un capo di gabinetto poteva “servire” ministri diversi, anche se di fatto tutti appartenenti alla medesima maggioranza centrista), diviene più “di parte”. Nelle 40 interviste che abbiamo realizzato coi capi gabinetti del passato abbiamo riscontrato l’esistenza di due idee, quasi due “filosofie”, dei capi di gabinetto: quelli che ci hanno detto “io sono un servitore dello Stato, svolgo funzioni di traduzione amministrativa di indirizzi politici del ministro”; e quelli che invece ci hanno detto “io mi sento partecipe del disegno politico del ministro, che affianco e partecipo attivamente alla elaborazione delle politiche pubbliche”. Alfredo Quaranta, ad esempio, ci ha dato la prima risposta; Paolo De Joanna o anche Michele Dipace la seconda.
-Nello specifico come tale ruolo ha mutato la sua funzione e la sua influenza durante la “prima parte della Repubblica”?
Il periodo della prima Repubblica ha visto in azione capi di gabinetto molto influenti. In alcuni casi essi duravano ben più dei ministri di riferimento (che cambiavano spesso con il continuo e cronico mutamento degli esecutivi); ciò ha consentito loro una conoscenza continuativa e approfondita della macchina dello Stato e ne ha fatto gli indispensabili sacerdoti della continuità burocratica, tanto più importante in presenza di una tanto spiccata (e patologica) discontinuità politica. Personalità come Tamiozzo (specie nel campo dei beni culturali), Uccellatore, De Lise, Manzari, Scarcella, Anelli, Calabrò, Quaranta hanno di fatto “governato” per più tempo che non molti dei ministri, passando al momento della crisi di governo e della nomina del nuovo esecutivo da un ministero a un altro (e con ciò diventando dei “generalisti”, specialisti cioè non di una sola materia ma delle molte materie ministeriali).
Si sono creati anche abbinamenti stabili (un ministro come Remo Gaspari sceglieva, qualunque fosse il ministero assegnatogli, quali suoi collaboratori Uccellatore e Quaranta, Iannotta e De Lise). Intorno ai capi di gabinetto si sono consolidate burocrazie esterne ai vari ministeri, via via formatesi per “chiamata” dei diversi ministri. Tutto ciò ha creato un sistema amministrativo parallelo e spesso sovrastante quello naturale, previsto dalle norme. Ha desautorato i direttori generali dei ministeri e in definitiva li ha separati (come se si fosse interposto un filtro) dai rispettivi ministri. Ciò per gli effetti negativi. L’effetto positivo è che si è costituita di fatto e senza che alcuna norma lo stabilisse una élite della Repubblica, forse l’unica: un cuscinetto di super-esperti che ha di molto influenzato le attività di governo.
–Per guardare più alla parte di “pratica” dei gabinetti ministeriali, quali ruoli e compiti esso esercita nel suo rapporto con il decisore politico e con l’amministrazione? E quali poteri esercita soprattutto?
Il gabinetto è il vero tramite tra il ministro e la sua amministrazione. Quest’ultima riceve dal capo di gabinetto le direttive per l’attività quotidiana (“io assegnavo le pratiche ai direttori generali”, ci ha detto uno dei capi di gabinetto intervistati). Va poi ricordato – non ne abbiamo sinora parlato – che nel gabinetto si sono via via consolidate altre figure, in subordine al capo di gabinetto: il capo dell’ufficio legislativo ha la responsabilità importantissima delle norme, cioè coordina coi suoi collaboratori tutta la produzione legislativa inerente al ministero (è noto che le leggi, da molto tempo ormai, non le fa il Parlamento ma le propone – in varie forme – il Governo, e quindi sono materia degli uffici legislativi). C’è poi una figura che ha preso piede negli ultimi decenni, ed è il responsabile della comunicazione esterna. Nei gabinetti lavora molta gente: i più affollati arrivano a 100, 200, 300 persone; in genere assunte con contratti a termine che cessano alla fine del Governo che li ha reclutati, ma che talvolta si confermano anche col Governo successivo, diventando quasi stabili.
–In un quadro come quello italiano, in cui non esiste un sistema come era quello degli enarchi, quale è il profilo e la fucina in cui si sviluppano i capi di gabinetto? E quali devono essere tendenzialmente le loro caratteristiche?
Il Consiglio di Stato, la Corte dei conti, l’Avvocatura dello Stato, le alte magistrature (queste specie nel Ministero della giustizia). In genere sono essenzialmente dei giuristi. Ciò corrisponde a un vizio italiano: governare da noi vuol dire fare leggi, o norme di rango minore, comunque significa avere una preparazione giuridica. In altri Paesi governare vuol dire invece operare concretamente, non emanando prescrizioni ma formulando piani economici, elaborando politiche sociali o intervenendo nel concreto su singoli problemi inerenti alle materie affidate a quel ministero. Ovviamente in questi casi occorrono, sì, degli esperti di diritto ma anche molte altre competenze pratiche extragiuridiche. Una piccola svolta la impose nella sua breve durata in carica il governo Renzi, quando cercò di sostituire i gabinettisti provenienti dalle pépinèeres che ho citato con i consiglieri parlamentari. L’esperimento suscitò una forte reazione degli esclusi e si interruppe col cadere del governo Renzi.
–E perché si sviluppano proprio tramite questo sentiero e queste istituzioni?
Molto per tradizione. Un ministro, specie se arriva per la prima volta al governo (oggi capita più di ieri) non sa letteralmente dove mettere le mani. Come se fosse un ristoratore che, comprato il ristorante, non conoscesse nulla del funzionamento della cucina. Allora è naturale che si rivolga allo chef che gestiva prima di lui il ristorante e che richiami in servizio lo staff di cuochi che conoscono a menadito la cucina. Poi queste istituzioni (come il Consiglio di Stato ecc.) sono in genere prestigiose e forniscono ottimi elementi per guidare i gabinetti. Il ministro neofita spesso si rivolge al presidente del Consiglio di Stato o all’Avvocato generale e chiede dei nomi: su quella rosa sceglie. Ciò determina una continuità.
–Il testo oltre ad una rigorosa ricostruzione storiografica anche una panoramica su tutte le voci del silenzio che hanno esercitato questo compito. Quali furono le figure di capi di gabinetto esemplari che hanno cambiato la storia del potere e dei poteri italiani?
Questa è una domanda difficile. Noi abbiamo fatto anche un libro di biografie (si intitola Il potere opaco. I gabinetti ministeriali nella storia d’Italia, il Mulino, 2019, a cura mia e di Giovanna Tosatti) nel quale abbiamo raccolto, dall’Ottocento a oggi, alcuni profili esemplari di addetti ai gabinetti. Ci sono giuristi insigni, soprattutto; ma anche – specie in età liberale, personalità di altra estrazione: pochi, ma ci sono. Alcuni sono stati essi stessi ministri (per esempio Vincenzo Giuffrida, che era un collaboratore stretto di Nitti, poi consigliere di Stato; o Gaetano Stammati, che era vicinissimo ad Andreotti, ragioniere generale dello Stato). Altri sono stati esperti in varie materie, ad esempio nelle scienze agrarie e della bonifica (Eliseo Iandolo, per fare un nome). Lei mi chiede quanto hanno contato negli equilibri del potere? Non è facile dirlo, perché la funzione è in gran parte indecifrabile: suggeritori, influenti nelle decisioni piccole e grandi, longa manus nei contatti segreti tra il loro ministro e altre personalità istituzionali, costruttori di reti con altri capi di gabinetto magari provenienti dalla medesima “casa madre” come fu il Consiglio di Stato. Talvolta anche legislatori occulti: “Quella legge – ci ha detto uno di loro – l’ho scritta tutta io, dal primo all’ultimo articolo. E siccome né il ministro, né il Consiglio dei ministri, né il Parlamento l’hanno modificata, io sono l’autore della legge”.
–Negli ultimi anni come la figura del capo di gabinetto si inserisce nel complesso sistema dei pubblici poteri in cui il ruolo del mondo politico è stato profondamente instabile?
Molto è cambiato dal 1994 in poi, nella cosiddetta “seconda Repubblica”: anche se l’avvento di Berlusconi, nonostante le premesse che lasciavano credere a un cambiamento radicale, non segnò affatto una novità nel reclutamento dei capi di gabinetto. Oggi siamo in presenza di un governo nuovo (quello Meloni) che ha modificato di molto l’organico dei capi di gabinetto. Con effetti visibili di instabilità (sono già frequenti le dimissioni o gli spostamenti ad altro incarico dei primi prescelti). Di fatto, se viene a mancare la lunga esperienza di un buon capo di gabinetto, il ministero ne risente, tanto più se – come nel caso attuale – anche il ministro è al suo esordio nella carica.
–Viviamo, secondo molti analisti, in questo momento una fase di “innovazione” all’interno della nostra amministrazione. Secondo lei quali sono i principali nodi della nostra burocrazia che andrebbero affrontati e risolti?
Massimo Severo Giannini, che è stato uno dei grandi maestri del diritto amministrativo del secolo scorso e che nel 1979-80 tentò una coraggiosa riforma dell’amministrazione, diceva: primo devi conoscere le funzioni che vuoi esercitare, poi decidi l’organizzazione più adatta infine scegli il personale più idoneo a svolgere quelle funzioni. Noi oggi non sappiamo bene quali siano le funzioni, oscilliamo tra più modelli di organizzazione, assumiamo il personale a casaccio con una tipologia di concorso che non ci dice quali sono i più adatti e in migliori. Detto ciò, il mondo è cambiato e sta cambiando repentinamente: digitale, intelligenza artificiale. Come possiamo pensare di amministrare una società permeata da questi epocali cambiamenti se non modifichiamo i modelli amministrativi, le norme, le procedure, le modalità di azione, il reclutamento, la valutazione del merito, le carriere? Ci vuole una revisione completa e profonda, non per piccole riformette.
–La nostra storia è fatta però non solo di zelanti servitori dello stato, ma anche di figure in cui si sono concentrati enormi poteri. Pensiamo a Carlo Dossi durante i governi Crispi. Quali furono tra i numerosi capi di gabinetto quelli che più svolsero, nel bene e nel male, un ruolo quasi da Eminenza Grigia?
Il caso che lei cita è quello di Alberto Carlo Pisani Dossi, un dirigente del Ministero degli affari esteri dell’Ottocento che altri non era se non Carlo Dossi, lo scrittore della “Scapigliatura lombarda”. Dossi, nominato capo di gabinetto da Crispi, dovette misurarsi con il potere consolidato del segretario generale del Ministero Giacomo Malvano (uomo caro alla Destra storica, per moltissimi anni figura preminente in quella amministrazione). Fu una lotta senza esclusione di colpi. Crispi, che era il protettore di Dossi e che gli aveva affidata la riforma del Ministero, cercò di spedire Malvano il più lontano possibile, destinandolo a Tokyo. Malvano riuscì a scampare dall’esilio facendosi nominare consigliere di Stato. Più tardi, caduto Crispi e tornati in sella i suoi avversari, toccò al povero Dossi la sorte di essere spedito a Bogotà.
Comunque la riforma Pisani Dossi si fece e fu efficace. Modificò in profondo le materie e i coefficienti di merito dei concorsi alla carriera diplomatica, consentendo di fatto una trasformazione del profilo stesso dei prescelti. Si può ben dire che Dossi fu dunque capace di orientare il suo ministro (Crispi) e di realizzare un disegno di cambiamento.
Figure influenti, anche se forse non quanto Dossi, furono, Camillo Corradini con Giolitti, Ferdinando Flores con Nitti, Francesco Barlotta con De Gasperi, il già citato Giuseppe Manzari con Moro, Franco Piga con Rumor, Gianni Letta ispiratore di Berlusconi, Sandro Pajno stretto sodale del primo Prodi. Una indubbia influenza ebbero i due Fortunato, padre e figlio: il primo, Pietro, vicinissimo a Emilio Colombo; il secondo, Vincenzo, altrettanto prossimo a Tremonti. Una precisazione infine va fatta per i capi di gabinetto di tre ministeri per così dire “speciali”: Interno, Difesa, Affari esteri. In questi tre ministeri i capi di gabinetto sono in genere tratti dalle file delle rispettive amministrazioni. All’Interno è un prefetto, alla Difesa un militare, agli Esteri un diplomatico. Ciò non significa che non sia il ministro a scegliere, ma ciò avviene previa una consultazione coi rispettivi corpi, i quali – attraverso le loro figure più influenti – offrono dei profili di candidati. Inutile dire che questi corpi conservano una compattezza interna e un senso dell’identità che forse non hanno le altre amministrazioni.