La guerra russa in Ucraina, al suol terzo anno di combattimenti, è entrata in una fase di stallo diplomatico. L’elezione alla Casa bianca di Donald Trump, che sembrava rappresentare la svolta nel conflitto, alla luce dell’intricatissima situazione militare, al momento, non ha affatto prodotto gli effetti diplomatici auspicati dalla larghissima maggioranza degli elettori e dai sostenitori mondiali del presidente americano. Invero, ancora una volta, la durissima realtà dei conflitti combattuti sul vecchio suolo europeo ha finito per fagocitare tutte le buone intenzioni e la propaganda di rito, impartendo l’ennesima amarissima lezione di storia al mondo intero.
Così, da una parte, le posizioni russe, per bocca del presidente Vladimir Putin, risultano ferme nel ribadire il «principio della forza», ovvero il riconoscimento da parte della comunità internazionale delle conquiste territoriali dell’esercito russo. Un principio che ovviamente nei fatti si tradurrebbe con una resa dell’Ucraina e dell’Europa, e con una sostanziale e vantaggiosa modifica dei confini politici della Federazione russa. Fermo restando tutte le altre condizioni strategicamente introdotte dai russi come «cause profonde del conflitto»: disarmo dell’Ucraina, “cambio di guardia e di rotta”, rinuncia ai territori russofoni, ecc. Dall’altra parte, le posizioni di Volodymyr Zelens’kyj, se “ammorbidite” a causa del deciso intervento degli Stati Uniti d’America, risultano inconciliabili con le formali richieste della controparte.
Di fatto, l’operazione «Spider web», non particolarmente rilevante nell’economia del conflitto, ha comunque messo in luce la fragilità dell’intelligence russa, allontanando ancora di più l’improbabile soluzione diplomatica. A conferma di ciò, la reazione russa non si è fatta attendere: bombardamenti sulle principali città ucraine a mo’ di pura e amara rappresaglia, oltre alla lentissima e costosissima avanzata militare, che minaccia la città di Sumy. Nel mezzo tutta l’impotenza e la frustrazione americana nel partorire una formula credibile e duratura che porti al tavolo delle trattative le due parti, con i rubinetti americani dei rifornimenti bellici che si aprono e si chiudono, per l’Ucraina, a seconda delle valutazioni del complesso mosaico geopolitico attuale e dei fattori più vantaggiosi per la linea politica tracciata dal presidente americano.
Sul fronte mediorientale, invece, le iniziative di Benjamin Netanyahu, supportate e “sopportate” da Donald Trump, stanno causando un terremoto i cui effetti difficilmente possono essere previsti nel medio e lungo termine. Il Primo Ministro israeliano ha legato indissolubilmente la propria figura e sopravvivenza politica alle sorti di una guerra che si sta allargando sempre di più a macchia d’olio. Il 7 ottobre 2023, così come il 24 febbraio 2022, sono date che segnano un netto confine tra il mondo di ieri e quello di oggi. La guerra intrapresa da Hamas contro Israele, finanziata e costruita da Teheran, e logisticamente supportata da Hezbollah e Huthi (sempre finanziati da Teheran), e inizialmente “benedetta” e rilanciata dalle principali emittenti televisive russe come «crociata» per il nuovo ordine multipolare, si è rivelata un sonoro disastro. Infatti, l’iniziale offensiva israeliana, via via, si è trasformata una ferocissima guerra, che ha aperto nuovi scenari. In pochissimo tempo, Hamas, Hezbollah e Huthi sono stati travolti e messi nelle condizioni di non operare significativamente su un piano militare. L’operazione israeliana «Rising Lion» ha quindi interessato il regime iraniano, provocando una guerra di 12 giorni tra Israele e Iran, culminata con l’intervento americano a sostegno di Gerusalemme, per la “pace” nel mondo, e la “dovuta” e telefonata risposta iraniana in Qatar sulle basi americane. Una strana guerra – «drôle de guerre» verrebbe da dire – al termine della quale si sono formalmente dichiarati tutti vincitori, nel rigoroso rispetto della propaganda bellica delle parti.
L’intervento americano in Iran, però, è da considerarsi come un pesantissimo avvertimento per il regime di Khamenei. In cambio di una fragile e sofferta pace, di fatto, la garanzia – anche tramite Mosca – di nessun rovesciamento di regime, a mo’ di Iraq. In un contesto in cui l’Iran appare militarmente isolato e “sacrificabile” sull’altare della guerra russa in Ucraina, la pace a suon di bombe americane rappresenta certamente il male minore. Nel frattempo, la situazione nella Striscia di Gaza denuncia una gravissima crisi umanitaria che la comunità internazionale continua a ignorare. Situazione che, inserendosi in una guerra cruentissima, diventa anch’essa oggetto di speculazione, quasi un’arma ibrida, per le parti coinvolte nel conflitto, con continui scambi di accuse, soprattutto nella delicatissima e sanguinosa gestione degli aiuti alla popolazione civile. Un cessate il fuoco è, comunque, in via di definizione, anche se sul futuro della Striscia pendono progetti di cui si fatica non poco a decifrarne il contenuto e che certamente non contemplano affatto il riconoscimento di uno Stato palestinese.
Washington e Mosca sembrano più vicine; mentre l’Europa avverte in tutta la sua drammaticità la propria debolezza e vulnerabilità. L’asse Washington-Mosca, pertanto, rischia seriamente di sconvolgere il vecchio continente, del tutto impreparato e dipendente dallo storico alleato. Di qui, anche il diktat americano sulla spesa per la difesa militare europea, con il 5% del Pil di ogni stato membro, entro il 2035, a sostegno della NATO; il che decreta, una volta per tutte, la fine del «mondo di ieri». Il tentativo di costruire un asse Berlino-Londra-Parigi, che coordini e indirizzi la linea politica europea, come debita risposta alle iniziative delle potenze extraeuropee, appare decisamente in ritardo e in ogni caso di difficile attuazione nell’immediato. Le sorti dell’Europa sono, dunque, legate all’evolversi della guerra russa in Ucraina e alle decisioni partorite al Cremlino su altre iniziative da intraprendere, in un prossimo futuro, in Europa orientale. Una “pace” figlia di un esclusivo accordo Washington-Mosca, con il beneplacito di Pechino, scaturito anche e soprattutto alla luce degli eventi in Medio Oriente, potrebbe serbare, molto beffardamente, un nuovo Trattato di Versailles, con conseguenze imprevedibili per tutti gli attori, principali e non, della frantumazione dell’ordine mondiale. Si tratterebbe, infatti, dell’ennesimo scricchiolante armistizio, spacciato trionfalmente per pace, costruito a suon di bombe e forzature, e destinato, in un arco di tempo più importante, a incendiare nuovamente l’Europa.
È del tutto evidente che il contesto storico attuale registra una nuova divisione del mondo in blocchi contrapposti, dominati – questa è la novità – da realtà extraeuropee che reclamano dinanzi al tribunale della storia il loro «Lebensraum» a scapito di tutto ciò che appartiene al «mondo di ieri»; il ruolo di giudice, come sempre, in tali scenari, spetta solamente a «Polemos», il quale è, e rimane, incontrovertibile distruttore del vecchio e produttore del nuovo.