OGGETTO: L'essenza nascosta della geopolitica
DATA: 15 Ottobre 2024
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
“Sotto la pelle del mondo” di Dario Fabbri ci conduce oltre la superficie della geopolitica, verso un’analisi che intreccia storia, geografia e psicologie collettive. In questo viaggio, le dinamiche del potere e le tensioni tra popoli si rivelano non semplici questioni di leader o economie, ma riflessi profondi di pulsioni umane. Fabbri ci invita a scrutare oltre le apparenze, a cogliere l’essenza nascosta delle nazioni e dei conflitti, in un mondo dove nulla è come sembra e ogni dettaglio nasconde un significato più profondo.
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

Geopolitica umana. Due parole dall’alto valore pratico. Dall’obiettivo, ambizioso, di elevare lo studio della geopolitica pura verso nuove mete. Trasformando un’analisi che storicamente è stata tacciata di determinismo e che negli ultimi decenni era stata semplicemente annichilita o messa da parte, in favore di politologia e economia, in un’utilissima cassetta degli attrezzi, a uso e consumo della nostra collettività e non solo, tale da permetterci una lettura meno superficiale del nostro tempo e della vita umana in generale. Tutto questo è quanto si propone di fare Dario Fabbri, direttore della Rivista Domino, con il suo ultimo saggio “Sotto la pelle del mondo”. Chiaro riferimento a uno dei mantra del suo metodo e pensiero geopolitico, ribadito anche nella precedente pubblicazione “Geopolitica umana”, nonché nei suoi interventi e nel metodo che attraverso gli interventi, la stessa rivista e la scuola a essa collegata, si condensa nella prevalenza dell’elemento strutturale su quello sovrastrutturale. 

Grande mancanza del nostro tempo è l’aver confuso la forma esteriore con il nucleo delle questioni. Nell’aver reputato decisivo l’irrilevante, trascurando ciò che veramente conta nelle vicende umane. 

La “pelle del mondo” è tutta l’impalcatura leaderistica, politica ed economica che alle nostre latitudini e in tutto il cosiddetto Occidente allargato (ovvero, essenzialmente, negli Stati sottoposti all’impero statunitense) viene considerato prioritario. Per scadimento – anche, ma non solo – indotto delle collettività verso una condizione di post-storicismo. Ovvero, in altri termini, per invecchiamento anagrafico delle popolazioni, specialmente europee, e per la consolidata opinione secondo la quale il nostro tempo avrebbe espulso la guerra e la contesa tra i popoli dalla storia. Laddove, invero, questi ultimi continuano a battersi per la propria sopravvivenza e non solo. Specialmente in quel “resto del mondo”, “Sud globale” o “mondo contro”, che è piuttosto la parte maggioritaria del nostro pianeta. Ci piaccia o meno. 

L’elemento essenziale per uscire da una dimensione sovrastrutturale è dunque in primo luogo sfuggire a ciò che il nostro tempo e il nostro contesto reputa importante, per calarsi nella complessità. E nel dolore. Tornare alla storia, alla geografia, all’etnografia, alla proto-linguistica. Allo studio dei popoli, dei sentimenti e delle psicologie collettive.

Significa anche – ed è questo forse questa la chiave di lettura più significativa – guardare al mondo da un punto di vista profondamente umano. Potrebbe sembrare scontato, ma leggere le vicende passate e presenti come vicende umane, è esercizio difficile e spesso faticoso. Implica un insieme di varianti talvolta sottovalutate. Costringe a fare i conti con il caos, l’irrazionalità e la passionalità. Spinge a uscire dalla bolla fatta di idealizzazioni e demonizzazioni che la cultura occidentale, di larga impronta illuminista, positivista e razionalista, vorrebbe o avrebbe voluto allontanare. Guardare agli altri senza giudicare, calandosi nelle paure e nei desideri delle altre collettività è esercizio dal grande valore. E che può provocare anche enorme sofferenza.

Le forme politiche, le istituzioni, gli Stati, non hanno un sistema di valori, di pulsioni, di incongruenze, differente da quello dei singoli esseri umani, poiché da questi ultimi sono composti. Né totalmente buoni e né totalmente cattivi, gli esseri umani manifestano tutte le proprie storture e le proprie nobiltà. In esse bisogna calarsi. Esercizio scomparso alle nostre latitudini, dato che siamo in un tempo di critica feroce di un passato ritenuto deprecabile (ovvero, banalmente, umano). Segnale della carenza di profondità del nostro tempo che si manifesta nella cultura della cancellazione, nell’applicazione delle nostre categorie alla storia e agli altri.  

Perché modellare il passato e gli altri popoli sul nostro tempo e sui nostri valori è sintomatico della scarsa comprensione della storia e dell’uomo. Ed implica anche come una parte considerevole di popolazioni occidentali consideri il presente – il proprio presente – il vertice assoluto della civiltà. Ignorando completamente la caducità di ogni aggregazione umana e le ambizioni e pulsioni di chi non fa parte del nostro “paradiso terrestre”. Come i romani al proprio tempo. Senza sapere o fingendo di non sapere che la storia, in quanto umana, è soggetta a profondi sconvolgimenti, azioni, reazioni e crolli repentini. Con buona pace del “progresso” tanto decantato. 

Tale approccio, sviscerato prendendo in esame i principali scenari geopolitici globali, esce pertanto dal racconto quotidiano e ne mette in luce i nodi realmente cruciali. 

Sintesi del tempo che stiamo vivendo, scrive Fabbri, è il momento di egemonia contrastata che sta vivendo l’impero planetario degli Stati Uniti. Momento di crisi interna, sociale e psicologica, e di contrapposizione crescente da parte dei suoi principali rivali. Altri imperi, unici dotati di una stazza tale da impensierire il Numero Uno: Russia, Cina, Iran e Turchia. 

Intanto gli Stati Uniti si rivelano divisi internamente. La costa contro l’America profonda. La parte più europea e più post-storica, contro il “cuore” dell’impero. Strumentalmente evidente nella – in realtà ritenuta inconsistente – disputa elettorale attuale. 

Quest’ultima strutturalmente irrilevante in ragione del fatto che, negli Stati Uniti come altrove, a guidare la traiettoria di una collettività sono i popoli che la costituiscono, tramite gli apparati, quali burocrazia o dipartimenti. 

L’inganno politologico è ritenere rilevanti le elezioni politiche, laddove queste nel mondo non occidentale non avvengono come espressione di cittadinanza, ma per gruppi etnici o clan di riferimento. Spartendo le diverse zone di influenza. Mentre in Occidente, segnalano quanto già avvenuto. Più che un sisma, le elezioni politiche sono sismografo di ciò che è già presente. 

E nessun leader ha realmente importanza, se non esprime pulsioni e desideri della propria collettività di riferimento. Ciò vale tantopiù se si guarda alla Russia. Ritenendo Putin l’unico artefice del suo attuale momento:

«Dovremmo mandare a memoria: nessun individuo produce una moltitudine. Vero il contrario. È la Russia a figliare i suoi capi, non questi a generarla.»

Al netto di qualsiasi regime, vero o presunto, di qualsiasi meccanismo di propaganda – a cui le collettività non sono in nessun modo assuefatte – nessun sistema politico può sopravvivere senza consenso. E il fatto che alcuni popoli non votino, non vuol dire che siano totalmente passivi.

Così gli iraniani, che hanno prodotto la Repubblica islamica e, pur oggi aborrendola, non baratterebbero la propria ambizione e la propria statura imperiale con un modello di vita occidentale. Al di sotto degli Ayatollah, i persiani nutrono un nazionalismo meno religioso, più laico, ma non meno aggressivo.

Sotto la pelle del mondo niente è come sembra. Così Erdogan, al pari di Netanyahu, esprimono i momenti della Turchia e di Israele. Con tutte le contraddizioni e, spesso, gli orrori che ciò comporta. 

Rimuovere un leader o un intero sistema di potere, spariglia le carte senza modificare la profondità antropologica. 

Oggi la Turchia ha ambizioni regionali, panislamiche e ancor di più panturciche. Dall’Asia Centrale fino alla penisola balcanica.

Mentre Israele è sempre meno “occidentale” e sempre più allogeno. Tendente alla teocrazia. Animato da uno spirito messianico. Da un senso di accerchiamento e, contemporaneamente, di percepita intoccabilità data dall’arma atomica e dalla patente intolleranza – ricambiata – nei confronti dei vicini. Solo per citare degli esempi, tra i massimi fraintesi. Come altri, questi Stati vivono ancora con i piedi ben piantati nella storia e nella tragedia della violenza e della guerra, animati dall’irruenta gioventù di una parte considerevole delle proprie popolazioni. Sempre con il rischio di collassare su sé stessi (vedi l’India o lo stesso Israele) o di osare troppo.

Un approccio profondo significa dunque presagire e saper riconoscere le tendenze cruciali per non cadere nel panico. Lo stesso che Fabbri intravede nelle collettività europee e nella nostra italiana in particolare:

«L’Italia manca degli strumenti necessari a capire il pianeta, il nostro tempo. Resta in fideistica attesa degli eventi, senza idea di cosa aspettarsi. Paese più anziano degli altri, assieme al Giappone, ha creduto e crede che tutto sia finito, che davvero economia o leader si impongano sulle cose.»

Inscritta nella sfera d’influenza statunitense, per proprie spropositate ambizioni e per le disavventure dell’ultima guerra, l’Italia non ha più avuto gli strumenti per perseguire il proprio posto nel mondo dal 1945. Adattandosi tuttavia inizialmente, stante l’ancora relativa giovinezza e violenza della popolazione, al mutato clima. Approfittando della posizione geografica e della congiuntura che la voleva centrale e confine tra i due blocchi imperiali statunitense e russo-sovietico (scambiata per semplice contrapposizione ideologica), l’Italia ha continuato a perseguire i propri interessi. 

Roma, Aprile 2024. XVII Martedì di Dissipatio

Scivolando infine, a partire dalla fine della contrapposizione tra i blocchi, nell’attuale posizione. Complice una popolazione sempre più anziana e – anche legittimamente – disabituata a vedere il mondo nella sua violenza. 

O desiderosa solo di restarne fuori. Esercizio che, anno dopo anno, si rivela del tutto impossibile. Il risveglio dalla bolla della fine della storia è traumatico. Lo sarà ancora di più in futuro. Come cantava De Gregori: 

«Però, la storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione.»

I più letti

Per approfondire

Geopolitica del contagio

Breve storia occidentale di una gestione "compassionevole" dell'epidemia.

La diplomazia di Sant’Egidio

Sempre più influente e capillarmente distribuita, la Comunità di Sant’egidio è ormai considerata il perno della diplomazia religiosa globale. E sotto il papato di Francesco il suo peso è aumentato considerevolmente. Alcuni dei suoi dirigenti sono ormai diventati maestri nel destreggiarsi nel mondo degli intrighi internazionali.

Il dragone e l’aquila: le potenze del capitalismo politico

Lo scontro tra Cina e Stati Uniti passa dal dominio del mare, dalla guerra commerciale, dalla potenza di Huawei nelle telecomunicazioni, dal tentativo cinese di autonomia strategica nell’ambito dei semiconduttori. Ne parliamo con Alessandro Aresu, direttore della Scuola di Politiche e consigliere scientifico di Limes.

I navigatori dell’infinito

La fantascienza di J.-H. Rosny aîné.

Putin è un protagonista di Dostoevskij con altri mezzi

"Per capire Putin bisogna leggere Dostoevskij, non il Mein Kampf" diceva nel 2016 Henry Kissinger.

Gruppo MAGOG