Confessione

Le due vocazioni di Corrado Calabrò

«Non è una conciliazione la mia, è una coesistenza. Convivo da sempre con il mio doppio. È come se i miei emisferi celebrali avessero un funzionamento alternato: uno è teso alla razionalità organizzativa e dimostrativa, l’altro fa affiorare dal profondo (anche dall’inconscio) emozioni, percezioni che ci erano sfuggite. Il diritto è impegno intellettuale e civile, ma “la letteratura, l’arte sono la confessione che la vita non ci basta” - ha scritto Pessoa.»
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Poeta delle stelle e del mare, grande uomo del silenzio e delle istituzioni; dotato della sapienza apollinea del grande giurista e civil servant, e dell’estro e la creatività del dionisiaco maestro delle lettere. Corrado Calabrò nella sua lunga e gloriosa carriera, letteraria e istituzionale, sovente ha alternato queste due vocazioni in un percorso intellettuale e professionale che ha pochi eguali nel panorama italiano. Giudice, capo di gabinetto, consigliere di Stato, presidente delle più alte istituzioni giurisdizionali, ma anche poeta letto e apprezzato in più di venti lingue, tanto da ricevere la candidatura al premio Nobel per la letteratura (oltre che circa ottanta premi nazionali e non). Conoscendolo è straordinario notare come questi caratteri si alternino e avvicendano in una sola figura, in un solo temperamento tanto autorevole quanto affabile, tanto severo quanto sensibile. Da giovane studente calabrese ha sempre alternato questi due mondi che si sdoppiavano in rigorosi inverni di studio e riflessione e in calde estati marine in cui a bordo di navi di pescatori contemplava la materia prima della sua poesia ancora in nuce: la notte, gli astri, il silenzio e – soprattutto – il mare.

Giovanissimo inizia il suo viaggio nelle istituzioni, la Corte dei Conti, il Consiglio di Stato e parallelamente l’attività di consigliere giuridico, capo segreteria tecnica e capo di gabinetto di importanti ministri. Presidente di sezione del Consiglio di Stato ha preso parte alle principali istituzioni giurisdizionali italiane. Dal 1° ottobre 2001 al 9 maggio 2005 è stato presidente del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, dove ha presieduto anche la I Sezione, ch’è quella che si occupa della funzione pubblica nell’economia ed in particolare dell’Antitrust, della Consob, della Banca d’Italia, il vero fulcro della nostra vita amministrativa. Dal 1963 al 1968 è stato Capo della Segreteria tecnico-giuridica del Presidente del Consiglio dei Ministri Aldo Moro a Palazzo Chigi diventandone uno dei più stimati collaboratori. Oltre ad aver svolto il ruolo di Capo di gabinetto in vari ministeri con circa 22 ministri: Bilancio, Mezzogiorno, Sanità, Industria, Agricoltura, Marina mercantile, Poste e telecomunicazioni – nel 1978 -, Pubblica istruzione e università, Politiche comunitarie, Riforme istituzionali. Affiancando i principali protagonisti della Prima Repubblica e le più cruciali figure della nostra vita politica, tra cui, oltre allo statista di Maglie, Giovanni Marcora, tra i più ingiustamente dimenticati uomini di governo della DC, che durante il Governo Spadolini si distinse per le sue posizioni decisive nel rilancio del settore industriale (un esempio di cui ci sarebbe oggi più che mai bisogno). Successivamente fu Presidente dell’Associazione magistrati del Consiglio di Stato dal luglio 1999 al settembre 2001. Dal 2005 al 2012 è stato Presidente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.

Oltre ad aver scritto pagine indimenticabili come “Rosso d’Alicudi”, pubblicato nel 1992 da Mondadori, “Una vita per il suo verso” (2002), “La stella promessa” (2009), “Quinta Dimensione” (2018), recentemente ripubblicato. Opere in cui elabora uno stile fatto di attese, di silenzi, di distanze in cui smarrirsi e ritrovarsi. È riconosciuto come uno dei maggiori protagonisti della nostra vita istituzionale oltre che un testimone privilegiato dell’evoluzione del nostro mondo politico che ha potuto conoscere grazie alla sua attività di grande uomo del silenzio e di indiscusso conoscitore degli ingranaggi del potere. Per conoscere però la sua visione, il suo pensiero, la sua storia non si può non partire da quel binomio manniano che alberga nel suo cuore e che lo ha accompagnato tra la poesia dello stile e la prosa delle istituzioni.

-Civil servant e poeta, capo di gabinetto e letterato, come ha saputo conciliare questi due aspetti nel suo percorso istituzionale, culturale ed esistenziale? Per lei che rapporto esiste tra diritto e letteratura? 

Non è una conciliazione la mia, è una coesistenza. Convivo da sempre con il mio doppio. È come se i miei emisferi celebrali avessero un funzionamento alternato: uno è teso alla razionalità organizzativa e dimostrativa, l’altro fa affiorare dal profondo (anche dall’inconscio) emozioni, percezioni che ci erano sfuggite. Il diritto è impegno intellettuale e civile, ma “la letteratura, l’arte sono la confessione che la vita non ci basta” – ha scritto Pessoa. 

-Una tendenza al binomio di accenti che in un certo senso la ha accompagnata sin dalla sua infanzia. In cui era già conteso tra “logica teutonica” e “trasgressione dionisiaca”, tra il disciplinato studio invernale e il fascino estatico del mare che la accompagnava nei mesi estivi. Come era, quindi, il giovane Corrado Calabrò?

Il mare è stato il mio imprinting, il mio primo inseguimento di un orizzonte. 

“Il mare va preso come viene
così, con la sua stessa inconcludenza:
portando verso il petto, a ogni bracciata, 
un’onda lieve che non si trattiene.
Non c’è altro senso nel tendere al largo,
dove l’acqua è mielata dal tramonto,
se non di tenere la cadenza
fino a quando stramazzano le braccia
e spegnere nel mare il desiderio
di raggiungere a nuoto la soglia
che segna il limitare a un nuovo giorno”.

Avevamo una casetta di vacanze a Bocale, al bordo della spiaggia. Lì ho trascorso le mie estati dai dodici ai quindici anni; poi ho proseguito sulla costa ionica, a Locri, Gioiosa, Riace. Facevo nuotate di chilometri e chilometri, uscivo la notte con i pescatori, andavo a caccia alzandomi prima dell’alba. Era tale il mio affidamento al mare che talvolta, mentre facevo il morto dopo ore di nuoto e sotto un sole cocente, mi assopivo a braccia e gambe aperte. Una volta, a Gioiosa Ionica, quando avevo sedici anni, mentre, a un paio di chilometri dalla costa, semiassopito mi lasciavo trasportare placidamente dal mare, sentii un urto in una spalla e subito dopo tre, quattro mani che brancicando mi afferravano dai capelli: una barca a vela di pescatori mi aveva investito; mi avevano scambiato per un naufrago e cercavano di tirarmi a bordo con un raffio… Ma facevo anche letture furiose. Lessi allora tra l’altro, a quattordici anni, l’edizione divulgativa dello stesso Einstein della relatività ristretta; da lì nacque il mio interesse per l’astrofisica che mi ha accompagnato tutta la vita. 

D’inverno il mio “doppio” s’immergeva nello studio: non si scherzava con lo studio a casa mia. Una volta che riportai due sette in pagella mio padre mi disse “Figlio, siamo ancora al secondo trimestre; hai tempo per riparare”. 

-E quali furono i suoi primi approcci alla letteratura, alle istituzioni, al mondo?

 La poesia era di casa, da noi. Mio zio Demetrio recitava a memoria i canti dell’Inferno dal primo verso all’ultimo e dall’ultimo al primo. Mia madre, Pascoli, Carducci, Leopardi. 

Ho letto e amato i classici greci, latini, francesi, italiani. 

Non ho imitato modelli; nell’adolescenza e nella prima giovinezza ho sentito più vicino a me ora quello ora quell’altro poeta; in particolare Baudelaire, Garcia Lorca, D’Annunzio, Quasimodo.

Sui diciotto anni scoprii Proust. Non c’era ancora l’edizione italiana e quella francese per me era costosa. Leggevo quindi La recherche nell’edizione Gallimard in una libreria di Messina in piedi, tornando dall’Università. Il libraio tollerava.

-Come iniziò il suo viaggio nelle istituzioni e che ricordi ha di quella fase?

Mi laureai in giurisprudenza nell’Università di Messina, che allora aveva docenti come Pugliatti e Falzea, a giugno del quarto anno. 

Vinsi qualche mese dopo un concorso al Ministero del Lavoro e venni assegnato all’ufficio legislativo dove nel 1962 scrissi per intero la legge sul contratto di lavoro a tempo determinato, che non subì alcuna modifica in parlamento e che rimase in vigore per 40 anni. 

Vinsi poi il concorso a magistrato della Corte dei Conti. Nel contempo Manzari, che mi aveva conosciuto quando era Capo di gabinetto al Ministero del Lavoro, agli inizi del 1964 mi chiamò alla Presidenza del Consiglio, dove aveva assunto uguale incarico con Moro. 

Fu un’esperienza in prima linea, indimenticabile. 

E tuttavia, malgrado l’intensità del lavoro alla Presidenza, volevo entrare nel Consiglio di Stato; volevo entrarci per concorso, non per nomina governativa.

Mi alzavo così alle 4 e mezza e studiavo fino alle otto, qualche volta con la mia primogenita Maria Teresa in braccio. Alle otto e mezza ero in ufficio, e venivo assorbito dal lavoro incalzante. Nel giugno ‘68, vinto il concorso, passai al Consiglio di Stato e lasciai la Presidenza del Consiglio in coincidenza con l’uscita di Moro. Successivamente, alternando con l’attività giurisdizionale, sono stato in 14 Ministeri con 22 Ministri. 

-Dal 1959 al 1997 è iniziato un capitolo a parte del suo itinerario che riguarda il suo rapporto col mondo delle istituzioni: la sua attività come consigliere e capo di gabinetto in vari e fondamentali ministeri. Che ricordo ha di quella stagione? E quali sono stati gli incontri e le esperienze che più la hanno colpita?        

A ogni cambio di governo ricevevo due-tre richieste. In quell’epoca firmava tutto il Ministro. Io ponevo come condizione che ogni provvedimento da sottoporre alla firma avesse il mio visto. Nei Ministeri dove sono stato abbiamo distribuito centinaia di migliaia di miliardi di lire: non un granello è rimasto attaccato a me o ai miei Ministri. Ho anche redatto alcune leggi; tra le altre quella istitutiva del Ministero dei Beni culturali e il DPR n.18 che ha strutturato il Ministero degli Esteri (quest’ultimo a due mani con Nicolò Varvesi). E ho rigenerato il Ministero dell’agricoltura (col nome di Ministero delle politiche agricole, per salvare la faccia) dopo che un referendum l’aveva soppresso. Come è stato possibile? Perché il referendum era stato rivolto non contro la legge vigente ma contro una legge precedente non più in vigore. Non se n’erano accorte neanche la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale. Non mi voleva credere nessuno: il Ministro, il Presidente Ciampi (che si arrabbiò, temendo un trucco), il Parlamento. Ma era così e il disegno di legge venne approvato.”

-In questi anni è riemerso molto il mito del capo di gabinetto specie con alcuni libri un po’ sensazionalistici come “Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto”. Lei che è stato chief of staff in ministeri come Bilancio, Mezzogiorno, Sanità, Industria, Agricoltura, Marina mercantile, Poste e telecomunicazioni, Pubblica istruzione e università, Politiche comunitarie, Riforme istituzionali, può delinearci un vero ritratto dei poteri e delle qualità di questo ruolo? E quali sono i veri nodi della macchina pubblica?

I poteri del Capo di Gabinetto, ancora oggi cospicui, ai miei tempi erano ancora più rilevanti. 

Il Ministro deve dedicarsi all’azione esterna, anche all’apparizione, per avere visibilità. Alla preparazione dell’azione ministeriale, alla promozione e al coordinamento di tutta l’attività realizzatrice era (specie allora) preposto il Capo di Gabinetto. 

Il cambiamento più notevole che ho notato nell’azione amministrativa col volgere degli anni è stata la restrizione della discrezionalità, che era considerata caratterizzante l’Amministrazione. Per impedire la corruzione i procedimenti amministrativi sono stati ingessati, con passaggi sempre più defaticanti e con restrizione minuziosa di ogni discrezionalità. 

Ai tempi del mio ingresso nell’Amministrazione faceva carriera chi faceva di più e meglio. Oggi i dirigenti rifuggono dalla firma che li espone in prima persona, malgrado debbano obbedire alle richieste (palesi e occulte) del Ministro. Conseguenze sono la lentezza e la farraginosità dell’azione amministrativa. Certo la corruzione va stroncata inesorabilmente, ma non può essere presunta come usuale risvolto della discrezionalità, se non addirittura dell’azione amministrativa. 

Nell’abuso di ufficio – per fortuna abrogato – una decisione presa dal soggetto competente in base a un’istruttoria istituzionale rischiava di essere valutata diversamente, con gravi conseguenze, da un soggetto terzo, fuori dall’esigenza, dal momento temporale e dalla sequenza operativa che l’aveva determinata.

Regolamentare burocraticamente ogni attività, come fa l’Unione europea, equivale a far correre sul tapis roulant un podista i cui concorrenti corrono su pista. 

Roma, Ottobre 2024. XX Martedì di Dissipatio

-Lei visse da un osservatorio privilegiato i grandi sconvolgimenti della Prima Repubblica: dallo scandalo Sifar del colonnello De Lorenzo, a Tangentopoli, passando per l’assalto alle istituzioni svolto dal terrorismo. Come è cambiato per lei lo scenario dei poteri italiani?

In generale la classe politico-governativa della prima Repubblica era più preparata – direi più formata – di quella successiva. Non parliamo della più recente. 

Ho avuto vari Ministri bravi, ma anche qualcuno mediocre. Tuttavia, moltiplicando gli sforzi, i risultati della rispettiva gestione non son mai scesi sotto un certo livello. 

Certo, quando il Ministro è un uomo di valore l’azione di governo ha un colpo d’ala e al tempo stesso sa dare risposte risolutive alle situazioni da affrontare.

Tra tutti i miei Ministri il più efficiente è stato Marcora. Aveva un’acutezza fulminea di visione. Di ogni questione coglieva il punto essenziale. E aveva il pugno da knockout.

Da Ministro dell’agricoltura s’impose nel Consiglio dei Ministri CEE; da Ministro dell’Industria risollevò la situazione della nostra industria. La legge la scrivemmo noi funzionari ma gli obiettivi ce li indicò lui. Era anche dotato di un’autoironia rara. Quando era già agli estremi De Mita, allora Segretario della Dc, gli telefonò per dirgli che aveva fatto una nomina cui lui teneva. “Ti ringrazio” rispose Marcora “ma io non voglio morire. Naturalmente” soggiunse “questo è un punto di vista strettamente personale”.

In questo quadro la burocrazia (brutta parola!) si è vista sempre più disprezzata, mortificata nella retribuzione e irretita in un viluppo di norme. Ne è conseguito lo scadimento della qualità dei funzionari e dell’efficienza della loro azione.

 -Dal 1963 al 1968 è stato Capo della Segreteria tecnico-giuridica del Presidente del Consiglio dei Ministri Aldo Moro a Palazzo Chigi. Che esperienze la ha lasciato quella fase? E come definirebbe il presidente Moro?

Moro era un uomo di Stato, con una visione politica di lungo respiro affrancata da sovrastrutture di qualsiasi genere, anche religiose, benché fosse profondamente cristiano. Aveva un senso del dovere quasi sacrale: da parlamentare (aveva contribuito alla redazione della Costituzione), da uomo di governo, da professore (non mancava mai alle lezioni e intratteneva un coinvolgente rapporto con i giovani). 

Ed era un uomo di una soavità indicibile, tanto quanto era imperioso Fanfani.

La sua azione di governo era lenta ma determinata. Lo integrava bene Manzari nell’azione concreta. La sua fermezza istituzionale Moro la dimostrò anche nel caso De Lorenzo (il piano “Solo”) e nella penosa gestione della malattia del Presidente Segni. Negli anni della sua presidenza ci fu in Italia una ripresa economica. Pura coincidenza?

A Palazzo Chigi, sotto lo stimolo e la supervisione di Manzari, scrissi un libro bianco sul rapporto tra funzione di governo e funzione giurisdizionale. Manzari avrebbe voluto che Moro lo facesse approvare dal Consiglio dei Ministri, ma Moro, pur dicendo di apprezzarlo, lo lasciò cadere. 

Come vide da servitore dello stato e intellettuale (o letterato se preferisce) quella stagione di grandi cambiamenti che andarono dall’ascesa del centrosinistra all’avvio dei governi pentapartitici in cui lei poté collaborare con politici di primo piano?

Dagli anni ’80 in poi si è assistito al progressivo sgangheramento del ruolo della politica e di un’appropriata considerazione dell’interesse pubblico. Purtroppo…

-Che spaccato può darci dei momenti più significativi della sua attività giurisdizionale? 

 Molteplici e di grande importanza sono state le questioni decise dal TAR del Lazio, cui, proprio ai tempi della mia presidenza, vennero attribuite più competenze e nelle materie più nevralgiche. 

Al Consiglio di Stato ho fatto la sentenza più determinante degli ultimi 80 anni: quella che ha reinventato il giudizio di ottemperanza, conferendo così al giudicato un’effettività senza precedenti. Criticata al suo apparire dalla dottrina (Guicciardi e Mario Nigro, che pur ne riconosceva la necessità), venne seguita da centinaia di sentenze conformi finché, 29 anni dopo (solo dopo 29 anni) il giudizio di ottemperanza è stato normato legislativamente…

-Abbiamo affrontato la sua visione e testimonianza per quanto riguarda l’aspetto istituzionale e giuridico, ma non possiamo non affrontare ora il corpus della sua opera poetica per cui è stato candidato anche al Nobel. Che cos’è, quindi, per il poeta Antonio Calabrò, la poesia e cosa prova quando scrive?

Ci siamo abituati ad appagarci di una visione banale del nostro essere nel mondo. Per la quotidianità ciò è sufficiente. Ma nel fondo del nostro animo si annida l’insoddisfazione. Noi sappiamo che l’apparenza superficiale non è tutto. Quello che non percepiamo è molto più di quello che percepiamo. Ci manca la conoscenza della realtà ultima in cui siamo immersi e che ci struttura.

Ma non è solo questo che ci manca. Ci manca la conoscenza del perché ci innamoriamo, ci manca la conoscenza dello scopo della nostra vita. La vita ci sfugge tra le dita e si porta con sé le emozioni che l’hanno pur profondamente segnata e anche le cose che aspettavano e non si sono realizzate. 

La poesia è un tentativo di recupero. Ma la poesia non racconta, allude, evoca. 

Rammentare è riportare alla mente, ricordare è riportare al cuore. La poesia ci fa riscoprire i nostri sentimenti, ci fa rivivere le nostre emozioni attraverso una lente che ce li rivela in modo palpitante come se prendessero vita solo in quel momento. 

-In una intervista ha detto “Movimenti, tendenze, congreghe tendono a mascherare una realtà impresentabile: l’impotenza creativa”. Nel nostro scenario chiassoso e cacofonico dominato dall’inflazione di sensazioni e notizie quale pensa debba essere il compito del poeta, aldilà di un certo gusto a fare sindacato, corporazione, cerchio magico della nostra poesia e cultura?

Ahimè, la poesia è diventata ostaggio di conventicole che mascherano la loro impotenza creativa stabilendo che la poesia è il prodotto esclusivo del loro gruppo. Sono come quei pazzi che, riuniti in cerchio, dicevano a turno un numero e gli altri ridevano: a ogni numero corrispondeva una barzelletta. 

No, la poesia non è fumisteria e non è un gioco di parole, anche se si esprime attraverso la risignificazione della parola. La poesia è inseguimento della bellezza. 

Ma la poesia non è un semplice sfogo di sentimenti. La poesia è un’interrogazione seminconscia nel profondo di noi stessi; è una lente, un calco 3D dell’anima. E non è solo il vissuto che affiora nella poesia, anche il non vissuto si protende per prendere forma.

“Non c’è via più sicura per evadere dal mondo, che l’arte; ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte” ha scritto Goethe.

Se l’infinito è inattingibile, e forse addirittura inconcepibile, il transfinito è l’oltre cui l’artista e lo scienziato non riescono a rinunciare. È questo l’anelito che spingeva Leonardo a ritoccare indefinitamente i suoi quadri e che fa sì che gli astrofisici incalzino la fuga delle galassie.

Essa è diacronica. Per chi crede nella fisica “la linea che divide passato, presente e futuro è mera illusione” ha scritto Einstein. Lo stesso può dirsi della poesia: è come se ci sottraesse per un po’ alla spietata irreversibilità dello spazio–tempo.

La poesia è come il mare che si protende instancabilmente per oltrepassare l’orizzonte pur restando confinato nel proprio letto.

Sebbene l’orizzonte, come tutti gli orizzonti, si allontani ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso.

-Come nasce una sua opera?

Non programmo mai di scrivere poesia: scrivo quando la pulsione diventa irreprimibile. 

Ogni mia poesia esprime lo stato d’animo dominante in quel momento e me ne libera. Il processo creativo è subliminale; a volte è il portato d’un flusso di coscienza lungo e profondo che s’era inabissato come i fiumi carsici. 

-A questo punto non posso non chiederle il suo rapporto con i suoi luoghi (specie la Calabria e il mare calabrese che frequentava nelle peregrinazioni notturne insieme ai pescatori)? E come ha cercato di raccontarli tramite la poesia?

Sono più d’una le poesie in cui riaffiora il ricordo della Calabria: Gambarie, Alba Morgana, Sirena, L’ultima luna di giugno e altre. 

Ma il ricordo più emozionante è nella parte finale del poemetto Il vento di Miconons; ogni volta che lo sentiva recitare (era incluso in un recital eseguito nei teatri di 32 città) il compianto Giuseppe Accroglianò si scioglieva in lacrime.

“Ma i luoghi dell’infanzia son soggetti
anch’essi a un’occulta subsidenza.
Riuscii a dissimulare per un anno
a me stesso che mia madre non c’era.
Avvampavano ancora la bocca
i peperoncini tumescenti,
conservati da allora nel freezer.
Ma col tempo il basilico appassiva
ed il mare erodeva la spiaggia
tutt’intorno al lido di Reggio.
Così seppi che s’era abbassata
la soglia della casa della mamma
e ch’era sceso di due metri il luogo
dove ogni anno, ad agosto, m’aspettava.

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