Negli ultimi anni spesso si sente in bocca agli opinionisti televisivi pronunciare formule che rimandano ad un prossimo, se non già presente, “declino occidentale”. Poniamo subito un riferimento fondamentale per questo breve motto che sta prendendo piede. Oswald Spengler, filosofo tedesco, scrisse tra il 1918 e il 1922 un saggio dal titolo “Il Tramonto dell’Occidente”, che contribuì enormemente a instillare nella cultura occidentale, una consapevolezza del proprio declino. Questo filosofo, proponendo una morfologia della storia, ha anche però avuto un peso enorme nella cultura di destra ampiamente intesa, e non solo. Un numero enorme di filosofi, pensatori, scrittori e artisti si sono ispirati alla sua opera, rendendolo universale nella sua espressività, ma non nella sua radice. Spengler affonda le proprie, di radici, in un contesto nicciano che ne delinea grandemente i confini dell’opera e l’intento celebrativo, pur ripescando anche una tradizione greco-romana e cristiano-“faustiana”, ricalcando e forse ponendo le estreme conseguenze della filosofia di Nietzsche stesso.
Rampini è un esempio di questa modalità purgata di accettare il concetto (fresco per il suo “Suicidio Occidentale” della Mondadori, con quella bella scelta di “Suicidio” come parola chiave, che ha quel qualcosa di clinico analitico e da quarto grado della speculazione sommaria della società). La cosa più assurda è sicuramente però la sicumera del tentativo di proporre cure, per quanto già pietoso sia il tentativo deresponsabilizzante, condivisibile, dell’Occidente dalle proprie colpe non universali. Ma l’artista della capovolta concettuale sa sempre dove spiccare il salto e quali muscoli utilizzare. Il propagandista della modalità “Democrat” del pensiero rimpiange solo un declino economico materialista dell’Occidente, i valori, per lui, permangono quali sovrastruttura del capitale che limita l’espressione sociopolitica libertaria. Quante contraddizioni in una singola frase.
Non esiste arte migliore che renderle tutte tautologie tramite una danza concettuale che, sfruttando l’evidenza pragmatica della ragione di Spengler, ma confonde lo spettatore con movimenti sinuosi e armoniosi, convincendoci che la In Medio Stat Virtus, come i Romani più onesti continuarono a ripetere anche quando i Visigoti erano alle porte di Roma nel 410 d.c. Ormai quel coraggio stoico è perduto, la danza da odalisca invece, assume un ruolo fondante nella riflessione attuale: il ruolo del quarto potere e la sua retorica continua atta a plasmare concettualmente l’opinione media. Rampini condanna se stesso in fondo, sostenendo quella media virtus nel quale è possibile dare un giusto peso al grande cambiamento valoriale che è in corso. Condanna sé stesso proprio perché è tale ragionamento ipocrita e da media res, totalmente epurato di tutti i restanti dettami stoici, e retoricamente rimpinzato di utilitarismo cinico che hanno permesso di raggiungere una condizione suicidaria. Ma non è un caso per i grandi stoici del passato, il suicidio fosse un atto di completamento della propria integrità morale, qua invece non muore mai nessuno per l’integrità morale poichè nessuno crede a questo principio.
Anche il razionalismo logicista di Odifreddi non si discosta da tale solco interpretativo del declino. Non esiste alcuno spirito faustiano da prendere come monito, esiste il portafoglio vuoto e la trippa, le paura del dimagrimento da fame, quali unici metri di giudizio. Non c’è sintesi migliore che la paura del venir meno di queste cose (soldi e trippa), l’unico movente possibile nel dare ragione ad uno dei capisaldi del conservatorismo occidentale. Ma i danzatori non rinunciano ad uscire puliti e senza cadute dal ballo, non hanno mai capito che quello che loro additano come causa, la fine di un dominio economico, forse è sempre stato un effetto. Manca poi il coraggio del marxista del sostenere un’affermazione del genere, ovvero una riduzione assoluta della storia del pensiero alla storia dell’economia e del potere.
Un qualche valore va salvato, quei valori pragmatici propedeutici che giustificano il mantenimento della ricchezza, non la sua fondazione. Rifiutando un valore fondativo o accantonandolo, si ottiene la confusione che porta alla contraddizione, tipica del nuovo millennio, di incagliarsi in contrasti valoriali tra libertà assoluta e coercizione assoluta, dogmatismo islamico e LGBTQ+, Instagram e cultura. Esemplare è il decadimento di un certo tipo di cristianità, quella che parla del demonio e delle possessioni, delle condanne, delle guerre sante e della dannazione perenne del corpo e del mondo. Un caso sopra tutti nella nostra vicinanza pandemica è quella del prete della “Peste” di Camus: “l’amore di Dio è un amore difficile: suppone un totale abbandono di se stessi e il disprezzo per la propria persona. Ma lui, solo può cancellare la sofferenza e la morte dei bambini, lui solo in ogni caso può renderla necessaria, in quanto è impossibile capirla e non si può che volerla. Ecco la difficile lezione che volevo dividere con voi; ecco la fede, crudele agli occhi degli uomini, decisiva agli occhi di Dio, a cui bisogna avvicinarsi. A questa terribile immagine bisogna che ci adeguiamo; in cima, tutto si confonderà e si eguaglierà, la verità sorgerà dall’ingiustizia apparente.” Non sorprende il cercare una chiesa tutta sorrisi e abbracci, dove vigono solo le parole salvezza e paradiso, dimentichi di dannazione e inferno, poiché è meglio presentabile.
Il Tramonto dell’Occidente è un concetto insito nell’Europa fin dal mondo antico, passando per la cristianità ed espresso filosoficamente nel Novecento, e non comprenderlo è la prima forma di distanza dall’Occidente stesso. Ridurlo ad una questione di potere e prestigio imperialistico è soltanto un rimasuglio mentale di nostalgia per quell’arroganza tecnica con cui un Cortèz prese a cannonate gli aztechi di Montezuma. I Conquistadores portavano Dio tra i barbari, un po’ come gli USA portano la democrazia con i missili. Le quantità cambiano, la proporzione rimane. Ma cosa li spinge? Gomez Davila ci illumina in questo senso:
“Ragione, progresso e giustizia sono le tre virtù teologali dell’imbecille”