L’alba sorge scura sui colli di Wellington, timida come il ramo di una giovane felce mamaku. Il vento spazza l’aria e inarca le tratte degli albatri, l’aurora non riesce ad alzare la temperatura. Il bacino naturale a cui è aggrappata la metropoli più piccola del mondo riposa protetto. Il treno sorseggia i singulti dell’oceano e ricorda New York, una città distesa e spaziale; i palazzi di acciaio e vetro che svettano sul porto rimandano a Oslo. Aotearoa Nuova Zelanda è un paese nordico per noi europei, il più nordico dell’emisfero australe. Ultima base dell’Occidente, dopo una distesa d’acqua pacifica; ultima isola dove l’inglese fa da padrone, dopo è tutto turismo megèro. Apostrofe prima che finisca tutto inghiottito nel silenzio placido delle tempeste; punto d’inizio del mondo di cui l’essere umano non conosce niente – gli antropologi cercavano le ragioni e le fondamenta del totemismo nelle isole del Pacifico oltrecomincia il lavoro per i biologi marini ed etologi. L’essere umano là non vive: inizia l’oggetto di studio dei Robert Luis Stevenson, Paul Gauguin e Zac Langdon-Pole. Unica terra emersa di un continente sommerso – Zealandia. Terra sputata nell’oceano; ultimo porto prima dell’inizio della fine: Tonga, Cook Islands, Fiji, Samoa, Vanuatu, Tahiti. Aotearoa è la colonia perfetta per il pensiero post-coloniale. Isola pescata nel mare dalla divinità Māui, nel racconto mitologico Māori, subissata di foreste e sprovvista di un passato. Lontana a sufficienza da ogni continente in cui è presente una cultura millenaria, ha partecipato alle guerre in disparte. L’ultimo conflitto che ha scosso l’isola risale al XIX secolo – le guerre māori che si conludono con il Te Tiriti o Waitangi –, le bombe delle guerre mondiali sono arrivate con i ricordi di chi ha combattuto per l’Impero britannico. Il racconto di quest’isola emersa dal profondo viene fatta da agglomerati di testate giornalistiche e da outlet di notizie online.
“Siamo a malapena una nazione bi-culturale”, sostiene Stephen May, professore all’Università di Auckland. Il separatismo Maori – lo sparviero agitato dal partito National per riavvicinarsi al suo elettorato Pākehā – e l’impossibile multiculturalismo – l’obiettivo culturale del partito Labour – sono gli estremi di un arco politico inclinato. Le etnie Māori, Pasifika, Pākehā (la componente europea della popolazione neozelandese) e Asiatica sono mischiate nei luoghi di lavoro, ma separate e disgregate nelle comunità. Non è passato nemmeno un secolo da quando Rita Angus dipingeva il mondo neozelandese e il paesaggio extra-urbano è rimasto lo stesso: idillico. Le città si sono evolute, ma il mondo rurale è rimasto pressoché intonso: le colline verdi che finiscono a strapiombo nell’oceano, le dune di sabbia chiara ricoperte di pīkao e di palme nīkau, i tui che catturano il polline rosso lava dai kōwhai. Il cambiamento percepibile è avvenuto nelle città e nel racconto mediatico del cambiamento che ne viene fatto. Un’espansione costante e irrefrenabile delle abitazioni, che inghiottono la terra. I centri urbani si infittiscono di villette, trasformando sempre più la Nuova Zelanda in una copia tremenda dei suburbs americani.
La politica kiwi (neozelandese) è sterile e ancora appiattita su un bipolarismo imperfetto. Come in tutte le nazioni occidentali, i Verdi e il partito Labour (progressista) vincono nelle aree urbane; le lande coperte di fattorie, fienili arrugginiti, e pale eoliche, invece, sono terreno fertile per i conservatori (National e Act). Ad oggi, il paese è governato da una coalizione progressista, composta dai Verdi e dal partito Labour, quest’ultimo ha da solo ha la maggioranza nel Beehive – il palazzo del parlamento monocamerale che sorge sulle pendici della collina di Tinakori a Wellington. Eppure, questo paese maledetto dalla memoria e non ancora ricordato nei libri di storia, è un baluardo del conservatorismo sociale. La popolazione neozelandese è educata a principi di rispetto e di cordialità. Le maniere appaiono tanto tra le mura domestiche quanto sul marciapiede. Il partito conservatore non riesce a domare questa bestia, che lo desidererebbe, solo perché è senza un leader – ne ha fagocitati cinque in cinque anni, Judith Collins è stata solo l’ultima a cadere in favore di Cristopher Luxon. Jacinda Ardern, invece, è la campionessa della kindness, parola social sventolata a furor di schermo per tutta la durata della pandemia. Unica leader di un paese senza popolo sovrano. Sotto l’insegna della leader Labour, la popolazione neozelandese è diventata un team che si rispetta con gentilezza. Il racconto della squadra che racchiude tutta la nazione sotto un unico obiettivo è stata la favola propinata dal governo Labour. La carota per compensare il bastone delle restrizioni e dei lockdown. Un team guidato da un capo-popolo deciso: una donna dal carisma bovino. Figura amata da tutti gli amministratori liberal del mondo occidentalizzato e rispettata dalla popolazione locale, che l’ha eletta per un secondo mandato nel 2020 spingendo il partito progressista oltre la soglia del 50%.
Aotearoa Nuova Zelanda è un paese di segreti seppelliti nelle montagne, dove si possono sentire gli echi delle divinità Maori nei ruggiti del vento. Nelle città aleggia un senso di scarsità, di dispersione, di calma. I giornali raccontano poco del palazzo e la popolazione se ne interessa ancor meno. I gossip sulla famiglia Windsor occupano le prime pagine, ghermiscono le pagine di news online e riscattano il valore della monarchia, che impera in maniera informale e soggioga le conoscenze. Il popolo kiwi è mansueto e ammaestrato, non conosce la rivolta – anzi, la disdegna. La condizione morale non è mai in subbuglio. Un popolo abbandonato, che se ne frega dei suoi leader; avverso alle novità, sempre alla ricerca di restituire il suo posto a ciò che è antico – in Nuova Zelanda la storia è la natura, l’archeologia è riappropriazione da parte della natura dei suoi spazi. La semplicità dozzinale viene instillata attraverso un’educazione pratica e sprovvista di concetti duri, puri, raffinati. Il giornalismo racconta la cronaca truce, che attecchisce. Non esiste un discorso filato e tramato tra il giornalismo, la cultura e la politica. La gioventù viene educata al lavoro subito, in maniera brutale. Insomma, qua il ventenne Fabrizio De André, il fannullone, diventerebbe un emarginato, preda della rete sociale che mantiene e sostiene la classe disagiata, composta da decine di migliaia di homeless – il tasso di disoccupazione della Nuova Zealand era al 3,4% a fine 2021: la great resignation è una favola sconosciuta.
Quest’isola ai confini del mare ha metà corpo nel futuro e metà ancorato nel passato. La sua brama e gli interessi geopolitici la spingono a scalciarsi e poi a fare la pace con la Cina; il suo interesse, la sua ambizione di diventare un hub tecnologico è un desiderio per sognatori, buono per Icaro. La popolazione Pākehā, da un altro lato,risponde ancora al ritratto del popolo inglese che dava Emerson nel XIX secolo: innamorati del lavoro e della fatica, lungimiranti nel ragionamento e nella pratica, attaccati e attratti dalla proprietà. Un popolo che ha bisogno di tradizioni, empirista, con i piedi conficcati nella terra. Aotearoa Nuova Zelanda riposa ancora all’ombra delle nuvole che corrono nel cielo, in attesa di una filosofia che la porti al centro del mondo. Fino ad allora avrà una vita tranquilla, ai bordi del mondo: Estremo Occidente.