Ancora una volta Mario Draghi prende in mano le chiavi della stanza dei bottoni e detta la linea. Sembra ormai una figura imprescindibile per i politici europei, che pendono dalle labbra dell’ex governatore della BCE come di fronte ad un profeta che annuncia il disastro.
È tristemente vero, la situazione socioeconomica in Europa è complicata, a tratti molto preoccupante. Il Covid-19 prima, il conflitto in Ucraina ed il Medio Oriente che ribolle incessantemente da decenni, senza considerare altri scenari di terrore in giro per il mondo – che tuttavia non ci coinvolgono direttamente per interessi economici, dunque li trascuriamo – hanno generato uno scenario che ci sta amaramente avviando a pensare alla guerra come ad una realtà concreta e ineluttabile. Eppure, proprio gli sponsor dell’integrazione europea ci hanno raccontato per anni di quanto ci si sia garantiti oltre 70 anni di pace grazie a questa sovrastruttura politica che, ad oggi, sembra soltanto aver declassato gli stati Europei a meri osservatori di un mondo che corre ad un’altra velocità, isolati in una bolla di normazione e burocrazia.
Ecco che puntuale suona la sveglia Draghi, che ci mette sull’attenti e ci consegna un rapporto nel quale descrive la sua ricetta magica della sopravvivenza. Il rapporto si articola su tre punti fondamentali: produttività tramite innovazione, decarbonizzazione e sostenibilità, sicurezza e autonomia del mercato interno.
Il primo punto riguarda la produttività delle imprese, il cui netto calo negli ultimi anni è attribuito principalmente ad un divario tecnologico tra imprese europee e statunitensi così come ai costi dell’energia che per le imprese nostrane arrivano ad essere quadruplicati rispetto alle omologhe d’oltreoceano. Investire in innovazione non vuol dire necessariamente tagliare occupazione (sebbene al momento vi sono diversi casi che evidenzino invece proprio questo trend), ma si tratta di un processo lungo, nel quale la riconversione della forza lavoro e delle competenze mieterà vittime, in termini di imprese e risorse umane. L’Europa è storicamente trainata dalle piccole e medie imprese, che lentamente stanno scomparendo a causa della scarsa competitività sul mercato, schiacciate dal peso delle multinazionali. Molti potrebbero anche pensare che ciò possa concretizzarsi in vantaggi per i consumatori, sebbene il grave problema di tale strategia sarebbe quello di dover sconfessare ciò che la storia, la tradizione e la cultura hanno edificato per secoli. Il capitalismo spazza via le differenze e apre la strada alla standardizzazione.
Il secondo punto riguarda la decarbonizzazione e la transizione verde, che in qualche modo si lega al terzo punto nell’ambito della dipendenza esterna sulla fornitura di materie prime e semilavorati strumentali a tale transizione. Si fa riferimento ad una trasformazione sostenibile che deve puntare ad un mix energetico in ottica circolare, sebbene si debba trovare una via d’uscita dalla dipendenza dalla Cina per terre rare, batterie e mobilità sostenibile. I costi della decarbonizzazione sono più alti del previsto. I dati recentemente pubblicati sulle vendite delle auto elettriche accendono diversi campanelli d’allarme, e Volkswagen per la prima volta pensa alla chiusura di uno stabilimento in Germania. Il conflitto in Ucraina ha aperto una voragine economica nel sistema industriale europeo. Negli ultimi anni abbiamo quasi completamente riprogrammato il mix di forniture di gas, crollato del 20% dal 2022 ad oggi. A pagarne le spese sono stati proprio i cittadini europei, in termini economici e ambientali, dal momento che per far fronte al taglio delle forniture auto imposto, è stato necessario riaccendere le centrali a carbone, alla faccia della sostenibilità. In un mix energetico adeguato alla decarbonizzazione il gas naturale svolge un ruolo importante, vista la sua ridotta impronta carbonica rispetto ad altri fossili e al suo impiego nella produzione di idrogeno blu. Il GNL costa, per l’appunto, molto di più. Infine, il nucleare purtroppo non sembra essere un’opzione accettabile e, anche se lo fosse, difficilmente prima di 10-15 anni riusciremmo a trarre benefici da tale strategia.
Il terzo punto nello specifico riguarda la sicurezza interna dell’Unione. Gli scenari di incertezza che si consolidano e si esasperano in escalation militari in ogni angolo del globo devono indurre l’Europa a ripensare il sistema di difesa militare che oggi è in piedi. In pratica, realizziamo quella che si dovrebbe definire un’economia di guerra. Ripensare le politiche di difesa in ottica comunitaria avrebbe senso nel caso in cui l’intenzione fosse quella di depotenziare la NATO e ridurre la presenza militare americana in Europa. I recenti sviluppi geopolitici ci suggeriscono che questo non accadrà, dal momento che è evidente che la necessità di prolungare il conflitto sul fronte orientale sia stata strumentale proprio ad una rinnovata coesione del Patto del Nord Atlantico. Sono venute meno in maniera repentina voci autorevoli che volevano un’Europa militarmente più autonoma, Macron non pervenuto, Scholz ha già ampiamente deciso da che parte stare, e non è quella di Bruxelles.
Non mancano i riferimenti alla necessità di una tenuta del sistema di welfare che contraddistingue (?) l’Europa e la differenzia da un sistema laissez faire all’americana, cercando di ridurre sperequazione sociale e disagio. Eppure, anche su questo aspetto non mancano le contraddizioni in termini, dal momento che negli ultimi anni il numero di cittadini sotto la soglia di povertà è aumentato, i tagli alla spesa pubblica in sanità ed istruzione si moltiplicano, le aree periferiche d’Europa si desertificano lasciando indietro i deboli.
Qual è il costo di questa “operazione”? tra i 750 e gli 800 miliardi all’anno, pari a circa il 4,5% (valore medio a prezzi correnti) del PIL dell’Unione nel suo complesso. Praticamente un Next Generation EU replicato annualmente per un numero indefinito di anni, da finanziare in larga parte con l’emissione di titoli di debito comuni garantiti dalla Banca Centrale Europea. Già di suo questa posizione fa storcere il naso, in modi diversi, ad attori diversi. I falchi sono già sugli scudi perché rifiutano la logica del burden sharing con Paesi economicamente meno virtuosi, e ciò non è una novità a Francoforte; basti pensare a quanto accaduto per l’emissione del debito legato al NextGenEU. Inoltre, c’è una differenza essenziale non trascurabile sulla gestione e l’efficacia di tali investimenti. Quello che in Italia è stato chiamato PNRR ha previsto lo stanziamento di un fondo da 191,5 miliardi in sei anni soltanto per l’Italia, le cui tranche sono versate semestralmente al raggiungimento di determinati obiettivi. Una gestione “in piccolo” come quella italiana ha prodotto in tre anni solo 9,4 miliardi di spesa con un rilascio di fondi dell’85%, si sostiene quindi che l’Ue, che manca di parte delle strutture esecutive e di capillarità gestionale possa riuscire a replicare efficacemente qualcosa di più scottante del NextGenEU per ogni anno. Il piano Draghi ci suggerisce quanto spendere ma effettivamente manca di tempistiche e obiettivi. Se si decide di affondare le mani così tanto nelle tasche dei cittadini europei si deve prevedere esattamente come questi denari debbano essere spesi. In secondo luogo, cosa altrettanto rilevante, la collocazione di tale debito: “aggredire” il risparmio privato dei cittadini dell’Unione o collocarlo presso investitori istituzionali o, ancor peggio, fondi sovrani stranieri (petromonarchie e Cina in prima fila)? La capacità di risparmio dei cittadini europei è stata erosa in maniera considerevole negli ultimi 20 anni. Nel secondo scenario si attiverebbe un cortocircuito importante, poiché chiederemmo – ad esempio – alla Cina di finanziare i nostri investimenti per liberarci della Cina, guadagnandoci. In poche parole, risarciamo la Cina dei danni che ci siamo auto inflitti con la globalizzazione.
In chiave strategica, l’Ue ha già perso questa sfida, relegandosi ad attore secondario nella nuova guerra fredda tra Usa e Cina. La necessità di ripensare in maniera improvvisa il posizionamento di Bruxelles a ridosso di una recessione indotta da un fattore esogeno come il Covid-19 ha compromesso ulteriormente la situazione. Allora torna prepotente la ricetta dell’integrazione europea, proposta in pillole ad ogni crisi su una materia differente. Questa volta è stato scelto il simulacro del professore che bacchetta lo studente discolo. Questo fallimento annunciato già da prima dell’introduzione dell’euro ha evidenziato gli innumerevoli limiti strutturali dell’Ue, che oggi vengono sconfessati dagli stessi che oscillano perpetuamente tra l’europeismo ortodosso e l’atlantismo a orologeria, che di fatto ci consegna una triste verità, ovvero che chi oggi è al potere in Europa e nei singoli stati non ha idea di quello che si dovrebbe fare: è più facile affidarsi ad un tecnico che chiedere scusa a 450 milioni di persone. La deresponsabilizzazione della politica europea passa, ancora una volta, da Mario Draghi.