“Ahi fiacca Italia, d’indolenza ostello, / cui niegan corpo i membri troppi e sparti, / sorda e muta ti stai ritrosa al bello?” (Vittorio Alfieri, Misogallo, 1799)
Se un giorno si dovesse scrivere una storia del pensiero anti-italiano in Italia, certamente l’ultimo libro di Fabrizio Rondolino, che attualizza un suo testo del 2011, avrebbe un posto in primo piano. Soprattutto in quanto riprende quella linea tra cosmopolitismo e particolarismo che accomuna da Giuseppe Berto a Fabio Cusin, che cerca di demistificare o di denunciare i vizi e gli errori (oltre che i peccati originali) della cosiddetta “dominazione italiana dell’Italia”. Non con pretese controstoriche o revisioniste, ma con una geniale verve provocatoria. Si può leggere, infatti, “L’Italia non esiste – per non parlare degli italiani” (Piemme) di Rondolino come una sorta di fulminante, illuminante e divertente autobiografia della nostra “non-Nazione” (come direbbe il suo autore) in tutti i suoi vizi e in tutte le sue contraddizioni. E pur non concordando in pieno o globalmente con le tesi ivi esposte (specie come chi scrive), non si può non riconoscere in questo testo una geniale e profonda capacità di indagare i veri nodi degli italiani. Ciò soprattutto per la capacità che ha questo testo di far riflettere sui nostri totem e tabù. Dal familismo amorale al clericalismo, dalle cecità della destra arci-italiana ai settarismi meschini della sinistra anti-italiana, delineando un affresco rovesciato ed intrigante della storia del nostro Paese. Per tale motivo abbiamo intervistato Fabrizio Rondolino, giornalista ed editorialista, già collaboratore dell’Unità, dello Staff di Massimo D’Alema ed autore televisivo.
-Come nasce questo libro e se può spiegarci il significato del titolo?
L’idea di questo libro nasce in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia: nel 2011 pubblicai una versione più lunga del testo attuale in risposta al clima un po’ pomposo che ha accompagnato quella celebrazione, segnata da un eccesso di retorica a cui questo libro voleva rispondere in maniera provocatoria. Senza avere, del resto, pretese controstoriche o ucroniche o men che meno revisionistiche. Di fronte però ad un forte ritorno dei nazionalismi in Europa e in Italia ho pensato fosse utile riprendere il testo del 2011 cercando, per così dire, di affilarlo e affinarlo. Il senso del titolo, al netto della provocazione, è che l’Italia è un luogo incredibilmente meraviglioso, dove si sta tutto sommato bene, ma non è una Nazione. E non lo sarà mai, perché è un insieme non riconducibile a unità di popoli, civiltà, culture, lingue, tradizioni, frutto a loro volta di invasioni, mescolanze, meticciati. In questo senso il testo è soprattutto una critica all’idea romantica e nazionalista di fare della penisola uno Stato unitario a dispetto di una storia quasi trimillenaria di divisioni, autonomie e particolarismi. L’Italia non è mai esistita se non come espressione geografica, e credo che gli italiani anzi abbiano prosperato proprio quando hanno cercato di assecondare la propria vocazione insieme particolare e cosmopolita.
-Secondo lei quale è un grande mito che racconta l’Italia?
Quello del Marchese del Grillo. Perché l’Italia unendosi è diventato un gigantesco Stato Pontificio. Il Marchese del Grillo dice, in questo senso, di più sull’Italia contemporanea dei mille libri che sono stati scritti e che si scriveranno sull’argomento. Quel modo “romano”, anzi “papalino” di avvolgere con estrema, ostentata lentezza una questione qualsiasi, fino a confonderne i contorni, fino a sbriciolarla in un pulviscolo indefinito e melmoso dove nessuno ci capisce più niente, quel modo di aggirare i problemi nella convinzione che si esauriscano da sé, secondo i voleri della Provvidenza, e disinteressarsene allorché cominciano a marcire, è la vera autobiografia del nostro Paese.
-Quali altri aspetti di inquietante attualità possiamo trovare in questa vicenda?
C’è quell’attitudine all’abbandonarsi all’ipertrofia di leggi e leggine, decreti e proibizioni, divieti e regolamenti, giudici e avvocati, al solo scopo di rendere impossibile la vita al cittadino onesto, e consentire al malfattore di farla franca con furbizia, scaltrezza e legittimo orgoglio. C’è quel modo di gestire la cosa pubblica come fosse un patrimonio privato, elargendo e confiscando a seconda del capriccio del momento, della parentela, dell’opportunità; quel modo di premiare soltanto gli accoliti, i fedeli, i clientes, i parenti, meglio ancora se mediocri, ottusi e cialtroni, aspergendoli di un potere che si considera dovuto e aprendo loro le strade della carriera e del successo. C’è infine quel vizio, insomma, di concepire la società civile come una parrocchia di sudditi furbacchioni, privi di diritti come di doveri, ma sempre pronti ad aspettarsi abusi e privilegi, che è l’eredità che lo Stato della Chiesa ha lasciato al Regno d’Italia, e poi alla Repubblica.
-Perché crede come scrisse nel suo libro che sguazziamo in una condizione neopapalina?
Perché il nostro Paese è un gigantesco ed ipertrofico Stato pontificio. Anziché liberarcene, con l’Unità d’Italia lo abbiamo nazionalizzato. Dalla Roma dei papi abbiamo ereditato le due principali caratteristiche del nostro Paese, i due tumori maligni che l’hanno ridotto a quello che è: la tenace convinzione che corruzione e inefficienza siano le sole modalità possibili della vita pubblica, e l’abitudine a baciare la pantofola di chiunque possa concederci un favore o un’assoluzione. Corruzione e ipocrisia. Se volgiamo lo sguardo all’Italia preunitaria, troviamo ovunque esempi di buona amministrazione e di relativa tolleranza. I Borboni amministravano Napoli e Palermo all’insegna della modernizzazione, seppur con i loro limiti; il Granducato era un faro di cultura e di libertà intellettuale che attirava le persone colte di tutta Europa; il Lombardo-Veneto austriaco era un modello di buongoverno; i Savoia, prima di oltrepassare il Ticino, erano usi a governare con grande serietà; e così via. L’unico Stato amministrato pessimamente, con le finanze in rotta e con un primato europeo di corruzione e inefficienza, nonché il più ferocemente illiberale, era lo Stato della Chiesa.
-Come scrive nel libro: “E oggi questo siamo: una vasta, inefficiente suburra di peccatori bigotti”.
Esattamente.
-Qual è il vero lascito delle nostre classi dirigenti?
La vera eredità, l’eredità permanente che le nostre classi dirigenti hanno lasciato e continuamente lasciano al Paese non è, come si potrebbe pensare, la mancanza del senso dello Stato o la diffusa illegalità o l’arretratezza – è la guerra civile. La guerra civile – fredda, calda, tiepida, a bassa o ad alta intensità – è la forma classica del rapporto politico in Italia, dai Comuni al Risorgimento, dalla Resistenza alla cosiddetta Seconda repubblica. Il trasformismo ne è l’involucro formale, la polizza che protegge le classi dirigenti e impedisce loro di farsi male quando perdono, in cambio della rinuncia a realizzare, quando vincono, ciò che avevano promesso. Nei rari casi in cui l’involucro si rompe, il rito barbarico del capro espiatorio ne consente e incoraggia una rapida ricucitura: lo scempio del corpo di Mussolini è stata la premessa dell’amnistia dei fasciti, così come la morte in esilio di Craxi ha consentito alla Prima repubblica di cambiar nome in Seconda. Perché nulla possa cambiare, occorre che nulla cambi: così la guerra civile può ricominciare
-Quali sono i lasciti della Controriforma, l’unica rivoluzione italiana a suo avviso, per le nostre classi dirigenti?
L’Italia, per la presenza dello Stato pontificio e per l’assenza di una classe dirigente nazionale, era naturalmente destinata a diventare il quartier generale e l’arsenale meglio rifornito della Compagnia di Gesù: e nessun popolo più del nostro s’impregnò di gesuitismo. La retorica applicata alla morale – cioè, la capacità di trovare una soluzione verbale più o meno brillante a qualsiasi malefatta, e una giustificazione per ogni atto – è il lascito più importante che i Gesuiti hanno consegnato all’Italia e agli italiani. La cui amoralità è tanto più disinvolta e definitiva, quanto più è corroborata da un’assoluta buona fede.

-Quale è il vero nodo delle nostre classi dirigenti?
La sua assenza. L’Italia non ha classe dirigente. Non l’ha mai avuta, dalla caduta dell’Impero Romano in poi, e con ogni ragionevolezza non ne avrà mai una. Le classi che comandano nella politica, nell’economia, nella cultura non dirigono alcunché: gestiscono più o meno bene (e spesso molto male) la sopravvivenza quotidiana, accrescono i piccoli e grandi benefici di cui godono, e si assicurano che i propri figli possano ereditare serenamente ciò che essi stessi hanno ereditato dai loro padri: il potere di continuare a esistere. Senza classe dirigente, com’è evidente, non può esistere né una nazione, né uno Stato: c’è dunque una logica intrinsecamente oligarchica nello sfascio italiano.
Le società moderne si caratterizzano per una progressiva emancipazione dell’individuo tanto dai vincoli familiari o corporativi, quanto dall’appartenenza specifica a un territorio o a un gruppo d’interesse. L’individuo – che per l’appunto è la figura chiave della modernità, in un movimento dialettico di libertà e responsabilità che costruisce e stabilizza la tela sociale – si forma, agisce e compie le sue scelte in un ambiente aperto, che ha spezzato definitivamente l’orizzonte chiuso della famiglia, della piccola comunità, della corporazione professionale, della confraternita o della contrada. È la continua e reciproca interazione con gli altri a definire il campo d’azione dell’individuo e la trama mobile della socialità. Ed è qui, in questo spazio comune, che si forma e si consolida una classe dirigente nazionale. Tutto ciò in Italia non è mai accaduto. L’individuo è rimasto per dir così una creatura premoderna: è immediatezza, spontaneità, anarchia, insolenza, miopia, grettezza. Non entra in relazione con gli altri individui se non attraverso la famiglia o la corporazione, che ne chiudono ermeticamente l’orizzonte. In queste condizioni è impossibile il formarsi di una classe dirigente: possono sorgere tutt’al più, come infatti sono sorti, grandi individui e grandi famiglie. Ma i primi per definizione non lasciano eredi, e le seconde ostruiscono, fino a bloccarle, le arterie della dinamica sociale. Ne risulta un sostanziale immobilismo, interrotto di tanto in tanto da un’eruzione violenta.
-Esiste ancora un’egemonia culturale della sinistra in Italia?
Io credo di no. Il fatto è che questa scelta – l’egemonia del Pci sulla cultura italiana – ha finito col perpetuare, in forme sempre più devastanti, la tradizionale arretratezza dei nostri intellettuali, sostanzialmente tagliati fuori dal pensiero contemporaneo più vivace, e prigionieri invece di una vulgata crociano-gramsciana che li ha sempre più allontanati da quanto di nuovo e importante accadeva nelle università e sulle riviste straniere. O forse vale l’inverso. Di certo, il nostro ždanovismo è stato prevalentemente provinciale, conservatore e impregnato di idealismo: per questo oggi non esiste una cultura di sinistra in Italia, ma soltanto un suo sistema di potere culturale.
-E invece la sinistra come è oggi?
La sinistra si ritrova oggi frammentata e quasi polverizzata, è divenuta minoranza nel proprio stesso elettorato di riferimento, tradisce gli ideali libertari sposando spesso la lugubre causa giustizialista, alimenta un sistema di potere sempre più asfittico, s’attarda nella difesa delle corporazioni e dei piccoli privilegi, non riesce ancora a venire a capo di un dilemma – se essere «riformisti» o «radicali» – che il resto del mondo ha archiviato mezzo secolo fa. È felicemente e consapevolmente prigioniera della conservazione, detesta gli italiani che pure continuano a votarla, e quando non diffida della modernità ne imita malamente gli aspetti più volgari. È una sinistra talmente smarrita, la nostra, che riesce persino a discutere seriosamente e a spaccarsi sull’essere o meno il MoVimento 5 Stelle un partito «di sinistra», mentre è, limpidamente, la versione più feroce e intollerante del qualunquismo italiano, ma anche la più grottesca e ignorante. Il rancore elevato a virtù giudicante: nessuno aveva osato tanto. Priva di spina dorsale e di cultura politica, la sinistra negli ultimi quindici anni ha oscillato fra il turboriformismo (non privo di tratti qualunquistici) di Matteo Renzi e la radicalizzazione da centro sociale, insieme velleitaria e impotente, della leadership attuale. A conti fatti, insomma, la sinistra in Italia non esiste.
-E, secondo lei, quanto il woke nella sua declinazione all’italiana ha cambiato anche i connotati di questa sinistra in bene o in male e se l’ha fatto?
Mentre negli Stati Uniti l’effetto è stato evidentemente dirompente, perché nella vittoria di Trump c’è anche una reazione in qualche modo fisiologica agli eccessi della cultura woke, in Italia è stato un fenomeno tutto sommato marginale, provinciale. Il radicalismo della sinistra italiana è un altro ed è figlio di un immaginario un po’ gruppettaro o postsessantottino con derive giustizialiste o moraliste, ma che sostanzialmente non è cambiato con l’arrivo del politically correct: una semplice aggiunta cosmetica.
-Perché la nostra è una sinistra in parte antiitaliana?
La sinistra italiana condivide grosso modo tutti i vizi e tutte le mancanze del Paese, ma si crede diversa e migliore. Tanto la destra s’atteggia, o è, arcitaliana, tanto la sinistra è o s’atteggia ad antitaliana. C’è, al fondo della sinistra, un disprezzo radicato e profondo per l’Italia e per gli italiani; una diffidenza e un’incomprensione, quasi un mancato riconoscimento reciproco; l’istintiva convinzione che qualcosa di profondamente sbagliato nella natura stessa del Paese la condanni ogni volta al fallimento. Probabilmente è per questo che la sinistra non ha mai vinto davvero: per vincere bisogna sedurre: e non è facile sedurre chi, al fondo, si disprezza.
-Perché però ritornare alle radici dell’unità e alla critica ad un certo nazionalismo culturale?
Io tengo molto a questo aspetto, perché ciò che noi pensiamo determina ciò che noi facciamo in modo anche molto più significativo di quanto si possa pensare. L’ideologia risorgimentale, cioè la versione italiana del nazionalismo culturale romantico, è un’ideologia ottocentesca, che non c’era prima e che si è intestardita a cancellare la vera vocazione degli italiani. Fino alla metà dell’Ottocento ha prevalso in Europa un’idea universalista, antica quanto l’impero romano: c’era l’idea che i popoli non coincidono con le nazioni, che i popoli possano convivere felicemente, mescolarsi, mantenendo le proprie identità, sotto un ombrello sovranazionale. È stata questa la grande opera di Alessandro Magno, di Augusto, di Carlo Magno; ed era questo il modello di governo perfetto secondo Dante. È un concetto che noi abbiamo completamente smarrito. Per noi la sovranazionalità o è astratta, o addirittura nemica, mentre invece la nazione è la nostra dimensione. Questo per me è sbagliato, e sicuramente non è così che siamo sempre stati. Perché la storia d’Italia e la storia d’Europa, soprattutto la storia d’Italia, è una storia diremmo oggi glocal, di piccole comunità, di cosmopolitismo, di mescolanza continua, di meravigliose invasioni. Non dovremmo dimenticarcene mai.
-Oggi come valuta le attuali classi dirigenti italiane e politiche? E come sono cambiate rispetto a quelle in cui si è formato?
Questa è una domanda che rischia di provocare risposte nostalgiche. E io ho una forte tendenza al ricordo e alla nostalgia, quindi mi scuso in anticipo con il lettore. È vero che abbiamo avuto anche nella Seconda repubblica leader di valore, ma il nostro sistema politico non si è mai ripreso dal trauma di Tangentopoli. Con qualche eccesso ma anche con qualche verità si è parlato di “golpe giudiziario”: è un fatto che il sistema dei partiti è stato spazzato via. E questo è un problema, perché non esiste una sana democrazia politica senza partiti, cioè senza luoghi dove le persone si organizzano, discutono, imparano; così come non esistono classi dirigenti senza partiti che le formino. L’idea di scardinare i partiti, di togliere il finanziamento pubblico, di additarli al pubblico ludibrio è stata una catastrofe che non ha pari, che non ha esempi in Occidente. La politica è una professione altamente specialistica: se applicassimo la stessa ricetta, per dire, alla medicina, chiudendo le Univesità, dimezzando gli stipendi e insultando i dottori per strada, saremmo tutti morti.