“Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei , ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che respingete. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate.”
L’incipit di Lettere a una Professoressa è forse il più noto della letteratura italiana. L’autore è don Lorenzo Milani, ma presentato con l’artificio di un testo corale, scritto dai suoi allievi nella scuola di Barbiana, luogo ameno sulle colline del Mugello. L’obiettivo di Milani era dare la facoltà di parola e d’espressione a un ripetente, il somaro della classe, categoria che nell’Italia degli anni ‘60 veniva esclusa dalla società italiana del boom economico. Il ripetente che come classe sociale interpreta il figlio della classe sociale dei contadini e operai, che viene esclusa dalla conoscenza a prescindere dalle potenzialità intellettuali della persona. L’obiettivo di Don Milani era denunciare la non applicabilità dell’art. 3 della Costituzione italiana, che di seguito sarà dovere citarlo:
“Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di razza , lingua, condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, che , limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese”
Di fatto l’articolo costituzionale non era solo un’utopia. Gli ostacoli del dopoguerra erano evidenti e anche normali. In primis la povertà di un Paese per maggior parte arretrato sia economicamente che intellettualmente. Un articolo del Corriere della Sera del 19 ottobre del 1945, intitolato La diserzione nelle scuole, riportava che il 90 % dei bambini tra gli 11 e i 14 anni abbandonavano la scuola e il 18% degli italiani era in condizione di analfabetismo.
L’istituzione scolastica era artefice del mantenimento di un livello mediocre, in cui la società italiana era suddivisa in due classi: “gli oppressi e gli oppressori“, tanto per citare un tema scolastico di Antonio Gramsci. Ai licei erano destinatari i figli della ricca e media borghesia, mentre ai figli degli operai, contadini, spettavano gli istituti dell’avviamento professionale. Questo ne convergeva, come denunciava don Milani, una subordinazione pedissequa dei poveri e degli analfabeti alle classi borghesi.
Ma il testo offriva anche importanti punti di riflessione per la riforma della scuola pubblica, basata sull’inclusività nei confronti dei ragazzi meno abbienti dovute alle origini famigliari, all’autoritarismo e intransigenza degli insegnanti. Un punto centrale che doveva avere la scuola, nella sua azione psico-pedagogica per l’abbattimento delle barriere sociali, era la lingua, altro punto fondamentale trattato nel libello. Lingua che doveva essere di fondamentale importanza per sviluppare il pensiero critico del bambino, dato che capire la parola, nel suo significato semantico, equivaleva a saper leggere vagliando accuratamente il testo, saper scegliere la fonte e il documento. Proprio a detta di ciò Milani scriveva: “Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del commerciante, del fattore sarà spezzata”.
Uso appropriato del linguaggio identificabile come lotta di classe: proposizione cara a Don Milani, che voleva un operaio istruito e alfabetizzato in grado di interpretare un contratto di lavoro, saper interloquire con un rappresentante dell’azienda in una trattativa sindacale. Insomma, in grado di saper esercitare la piena sovranità dei propri diritti.
Il libro pubblicato nel maggio del 1967, venne considerato un livre de chevet della generazione del Sessantotto, da alcuni definito il libretto rosso del neonato movimento sessantottino. Di fatto un vero e proprio best-seller: basti considerare che solamente dopo cinque mesi l’uscita aveva venduto già più di cinquantamila copie. Per fare un paragone, L’Uomo a una sola dimensione di Herbert Marcuse, definito il testo fondamentale del ’68, aveva venduto poco più di 100.000 copie, dopo poco più di un anno dalla sua pubblicazione. Proprio in quell’anno, in contemporanea con la distribuzione del testo, uscì un rapporto Censis che causò un ampio dibattito, in cui emergeva che i ceti popolari in Italia ammontanovano al 64,8% della popolazione attiva e solamente l’8,4% di questi erano laureati, il restante dei laureati proveniva dalla borghesia.
I movimenti di protesta studenteschi utilizzarono il libello come un prontuario per impostare le motivazioni ideologiche generali delle loro occupazioni a licei e facoltà universitarie. Dopo il 1968 e le proteste connesse, il libro fu utilizzato come punto di partenza per la necessità di riformare ex novo il sistema scolastico italiano dal punto di vista psico-pedagogico. Tra il 1969 e il 2000 nella scuola vennero attuate alcune riforme postulate da don Milani. Nel 1974 vengono varati i decreti ( D.P.R. n. 461, 417, 418, 499, 420 del 31 maggio 1974), in cui entravano in vigore i consigli di interclasse e i rappresentanti dei genitori. Nel 1977 con la legge n. 517, vennero abolite le differenziali per i disabili; nel 1979 vennero approvati i nuovi programmi didattici per lo studio. Il 5 maggio del 1990 venne varata la legge n. 148 in cui veniva prevista la separazione didattica degli insegnanti alle scuole elementari, prevedendo tre insegnanti per gli ambiti disciplinari. Infine nel 2000 la riforma Berlinguer che aveva avuto l’obiettivo di avvicinare il modello scolastico tra quello liceale e professionale.
Dati alla mano però, a distanza di 56 anni dalla pubblicazione della Lettera a una professoressa e a tutta la serie di riforme elencate sopra, la situazione non sembra poi cambiata più di tanto se si guardano i dati statistici pubblicati in questi ultimi anni: ad oggi in Italia l’abbandono scolastico ammonta al 13%, peggiore dell’Italia in Europa ci sono solamente Romania e Spagna. L’indirizzo di studio più colpito è per la maggior parte quello degli Istituti tecnici e professionali e questo va a ricadere direttamente sui giovani Neet (fascia d’età compresa tra i 15 e i 34 anni che non studiano e non lavorano), che sono il 25% dei giovani di quella fascia di età, peggio ci sono solamente il Montenegro, la Turchia e la Macedonia. Secondo un’altra indagine demoscopica, quella svolta dell’Isfol (Istituto per la formazione dello sviluppo professionale dei lavoratori), nella quale si evince chiaramente che il livello culturale dei genitori influisce sullo sviluppo socio culturale dei figli. I ragazzi che scelgono l’indirizzo di scuole professionali e istituti tecnici hanno genitori con un basso livello di studio: poco meno della metà ha un diploma e solamente un sesto possiede la laurea.
Riprendendo la celebre affermazione del Priore di Barbiana, i sogni dei ragazzi rappresentati da questo sondaggio sono i nipoti di quelli che negli anni Sessanta si istruivano a base di Gazzetta dello Sport. Don Milani mettendo in evidenza che il vocabolario della Gazzetta dello Sport era composto da soli 2000 vocaboli che si ripetevano continuamente e che non insegnava la cultura, il pensiero critico, ma invece un finto sapere: “E non chiamerei cittadino a pieno diritto, cittadino sovrano, chi non fosse in grado condizioni di intendere davvero la prima pagina del giornale oppure il livello di Tribuna politica e il livello di un comizio”.
Il problema potrebbe dunque prospettarsi all’interno dell’ambiente familiare stesso, dove deve venire dato valore allo sviluppo delle relazioni umane e della ricchezza della cultura con finalità di creare conoscenza critica e sviluppo della personalità dello studente. Ma la Scuola, con tutto il suo apparato politico-dirigenziale-burocratico, non può essere considerata affatto scevra di responsabilità.
Il corpo docente può essere caratterizzato in due categorie morali: la prima categoria appartiene a quelli che sentono il loro lavoro non come un mero mestiere, ma come una missione, con chiare implicazioni di vocazioni laiche. Questa categoria è sempre più soggiogata dal rispetto della pedissequa burocrazia, rapporti statistici, rispondere a questionari, oppure interpretare circolari ministeriali, valutazioni con la doppia cifra e virgola e test Invalsi, che va a sottrarre tempo prezioso per l’insegnamento. L’altra categoria è composta da insegnanti attratti alla docenza non da una passione per il lavoro, ma piuttosto dallo stipendio sicuro e dal miraggio del posto fisso, male atavico italiano. Questi soggetti provengono dal mondo delle libere professioni, e respinti dal libero mercato e si rifugiano nella “mamma Stato”. Per descrivere questa seconda categoria può far comodo Antonio Gramsci, autore buono per tutte le stagioni:
“Lo studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di più di quanto gli altri valgano nella loro. Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce.”
– Socialismo e cultura, 29 gennaio 1916
Dagli ultimi vent’anni la scuola è stata interpretata da tutti i governi italiani che si sono succeduti, senza distinzione tra sinistra e destra, come una Corporation anglosassone, sottoposta esclusivamente dalla norma alle leggi di bilancio di mercato e produttrice di individui che devono essere utilizzati nel mondo di lavoro. Emblematico è il caso dell’ultimo governo in carica, che ha mutato nella denominazione del “Ministero dell’istruzione” aggiungendo il complemento di specificazione in “Ministero dell’istruzione e del Merito“.
La domanda da porre ruota attorno al “merito”, e al suo significato per l’attuale esecutivo. Facendo un’analisi semantica del termine, “merito” ha l’origine dal sostantivo maschile latino “merĭtum”. Indicava la parte di una distribuzione che toccava a ciascuna persona, ma anche anche cura, ausilio nel trovare da parte del docente al discente la propria aspirazione, nel motto socratico “conosci te stesso”. Merito, interpretato nel campo semantico dell’istruzione che dovrebbe significare dare una parte, trovare nelle persone le proprie aspirazioni. Come ha teorizzato il sociologo Howard Gardner, l’intelligenza non è fissa e univoca, il famoso QI (quoziente intellettivo) è superato. L’intelligenza è di fatto un processo relazionale diversificato, individuato in nove diverse categorie: logico-matematica, linguistico-verbale, visivo-spaziale, naturalistica, filosofico-esistenziale, corporeo-cinestetica, musicale e per finire le due categorie intrapersonale e interpersonale. Forse è questo che deve cercare di sviluppare la scuola, famiglia e la società, lo sviluppo della personalità umana, senza richiedere un profitto in tempi brevi. Lo stesso messaggio che ha scritto don Milani, in fin dei conti, ma che sembra non essere ancora stato recepito.