di Massimiliano Vino e Pietro Mancini
Il volume YOG-SOTHOTHERY Oltre la soglia dell’immaginario di H.P. Lovecraft raccoglie sei saggi che esplorano il cosmo letterario dell’autore americano considerato da molti uno dei precursori della fantascienza angloamericana. Plasmato da forze sconosciute e poteri che vanno ben oltre l’umana comprensione, i miti di Lovecraft intrecciano temi dell’orrore cosmico, di civiltà e dèi antichissimi e provenienti da altri pianeti, capaci di manipolare i sogni e di indurre gli uomini alla follia, delle geometrie spaziali e di altre dimensioni incomprensibili all’uomo. Come ha affermato Michel Houellebecq, quella di Lovecraft è fondamentalmente una “macchina” per sognare. Selvaggia e spaventosa, con contenuti innovativi, intensi e influenti: la letteratura di HPL è quanto di più visceralmente sconcertante si sia visto agli inizi del Novecento. La stessa decisiva cesura tra il pre ed il post che ha avuto Stanley Kubrick nel cinema moderno. Eppure, nel mondo lovecraftiano esiste un tangibile segno di rottura tra realtà e irrealtà, sebbene queste si confondano spesso. All’uomo comune, infatti, non sarebbe consentito inoltrarsi nelle tenebre dell’altra realtà e riemergerne immutato. Una simile operazione comporterebbe il dissolversi dal mondo reale per coagularsi nell’universo delle verità nascoste. Le sue pagine, intrise di un senso di incombente terrore e rovina, fanno emergere le paure ancestrali che prendono forma nella nostra contemporaneità. Lovecraft non fu solo un innovativo scrittore, ma anche un acuto teorico della letteratura dell’immaginario, le cui interpretazioni sul “Mondo Secondario” hanno anticipato quelle di J.R.R. Tolkien e di J.L. Borges.
«Quegli interessi che mi hanno condotto alla narrativa fantastica si manifestarono in tenera età, poiché ricordo con chiarezza che già allora ero affascinato da storie e idee bizzarre, e da immagini e oggetti d’antiquariato. Niente mi ha mai affascinato tanto quanto l’idea di qualche singolare interruzione delle prosaiche leggi della natura, o di qualche mostruosa intrusione nel nostro mondo familiare di creature sconosciute provenienti da insondabili abissi esterni».
I Miti di Cthulhu, o del Ciclo di Yog-Sothoth, rappresentano il suo risultato più personale e famoso. La narrativa di Lovecraft si distingue per questo originale impasto di orrore e fantascienza, con storie che il suo continuatore Derleth salvò dall’oblio. Nel 1905 pubblicò il suo primo libro, The Gods of Pegāna, in cui il suo genio originale eccelle nella creazione fantastica d’una nuova, arbitraria mitologia ariana. In un’epoca di proto-globalizzazione e di profonde trasformazioni sociali, HPL si interrogava su cosa significasse la condizione umana in un universo vasto e indifferente: la sua visione del mondo, intrisa di un doloroso senso di sradicamento e meccanica alienazione, si riflette nei suoi scritti, dove proprio il terrore cosmico diventa una potente metafora dell’ansia esistenziale.
Dopo l’era definita Antropocene, caratterizzata dal determinante impatto della nostra specie sul Pianeta, emergono nuove narrazioni che cercano di dare un senso al collasso della ragione 1, alla crisi dello scientismo e alla trasmutazione di ogni valore. Proprio per questo Donna Haraway, attivista, teorica del femminismo radicale e filosofa, introduce – prendendo a prestito la più iconica creatura del Pantheon lovecraftiano (ma storpiando il nome) – il concetto di Chthulucene: una definizione che a suo dire evocherebbe forze tentacolari e multi-specie che si manifestano nella lacerazione del tessuto terrestre. Chthulucene, a differenza dell’Antropocene, non riguarda solo il dominio umano, ma rimanda paradossalmente a una necessità di coesistenza tra tutte le forme di vita. Proprio questa mitologia materialista è il cuore della sua opera. Ma, nonostante ciò, Lovecraft non è solo un maestro dell’orrore, ma anche un cartografo delle emozioni umane, un esploratore delle profondità dell’anima e delle sue paure più recondite, alimentando così un’alternativa di sogno e mistero in un mondo sempre più disincantato. L’incontro tra l’uomo e il mostro è un incontro tra un piccolo barlume di consapevolezza e l’onnipresenza del male, o meglio di “cose” che ci faranno del male. La morale delle storie è che l’uomo deve ascoltare e credere che queste “Potenze” distruggeranno tutto ciò che si trova sul loro cammino a meno che gli avvertimenti del narratore non siano presi sul serio.
La presenza di una griglia teosofica nell’universo lovecraftiano, con la sua credenza nell’alternanza di grandi cicli storici, relega la nostra civiltà a una sorta di epifenomeno. In questi racconti viene spesso utilizzato il tema del luogo sperduto, lontano dalle rotte della civiltà. Dalle narrazioni di Lovecraft percepiamo che gli scrittori del fantastico sono “in genere” dei reazionari per il semplice fatto che sono professionalmente coscienti dell’esistenza del Male. L’uomo dimenticato e sconfitto dalla crisi esprime sicuramente un lacerante disagio, ma Lovecraft resta, come già accennato, un Wasp (white, anglo-saxon, protestant). Guardare all’esperienza esistenziale e letteraria del Solitario di Providence, significa calarsi in un contesto di profondi rivolgimenti per gli Stati Uniti. Il suo slittamento imperiale è già percepibile. La sua estroflessione e la sua corsa alla modernità, la collocano già in testa alle nazioni occidentali, prima del definitivo collasso dell’Europa dopo il 1945. L’uomo Lovecraft, figlio di un’America anglosassone, sta assistendo all’affermazione sempre più forte dell’Heartland a trazione teutonica nel Midwest e alla diluizione del potere anche culturale del cordone ombelicale inglese. Se Steinbeck dà voce all’America profonda dinanzi alla Grande Crisi del 1929, Lovecraft si fa cantore degli anglosassoni scalzati dal potere, lontani tanto dall’America rurale, quanto dal cuore newyorkese della modernità statunitense.
Per affrontare al meglio questa querelle possiamo attingere alla monumentale opera critica di Lovecraft. È proprio in questa veste che il solitario di Providence realizzò uno dei saggi più importanti riguardo la narrativa fantastica, Supernatural Horror in Literature del 1925, che continuò ad aggiornare e a modificare fino al 1936. Vediamo altri tentativi come questo di nobilitare la narrativa fantastica in saggi come In Defence of Dagon del 1921 o nelle svariate lettere che Lovecraft scrisse ad amici, colleghi e lettori. Nella sua interessante autobiografia Some Notes on a Non-entity del 1933, Lovecraft si mette a nudo sotto la spinta di William L. Crawford. Supernatural Horror in Literature e In Defence of Dagon sono dei saggi critici di fondamentale importanza ancora oggi, sono la difesa appassionata e appassionante di uno degli intellettuali che più ha segnato il nostro immaginario e la nostra cultura condivisa.
«Sono uno che odia l’attualità; sono un nemico del tempo e dello spazio, della legge e della necessità. Sogno un mondo di mistero gigantesco e affascinante, di splendore e terrore, nel quale non vi siano altri limiti se non quelli della libera immaginazione». I suoi “mostri”, il suo Pantheon orrorifico, così pesantemente materici, da un lato si scatenano contro una società che egli odia e da cui si sente estraneo; dall’altro – come abbiamo detto precedentemente – scardinando l’Io individuale, propongono una sorta di palingenesi. Oggi, tutte le paure dell’America si saldano, in un certo senso, con quelle del Solitario di Providence. Questo vuoto, questa alienazione del quotidiano, sono proprie di una società in cui la connessione umana è sempre più fragile.
Lovecraft, inoltre, fu uno dei primi a riconoscere l’importanza di E.A. Poe, analizzando con occhio critico la sua opera fornendo un’interpretazione profonda e simbolica del suo lavoro; è evidente come questo studio abbia fondato le basi per il cosmicismo. Nonostante questi successi, le scarne critiche di alcuni lettori erano ciò che più di ogni altra cosa lo colpiva nel suo orgoglio ferito di scrittore. La figura del diverso, portata ai limiti estremi, si fonde con l’immagine del mostro; infatti, essere ‘fuori dalla norma’ per definizione, essere di gran lunga il più alto, il più forte, il più brutto, il più cattivo, significa essere ai margini della distribuzione statistica dei casi riferiti a una popolazione. Rimanendo nel campo della cosiddetta ‘percezione normale’ di un essere vivente, la classificazione di mostro parte da una fortissima ‘diversità’ rispetto all’essere normale, al tipo medio di umano, maschio o femmina che sia, conosciuto in una determinata regione della terra. Il titolo originale dell’Estraneo, The Outsider, coglie ancora meglio l’essenza della materia; si raffigura una persona che non appartiene a nessuna organizzazione o professione, uno che non è accettato dagli altri. Non è il mostro a essere inserito in un contesto normale, sono i “normali” a essere inseriti in una condizione irreale. L’ Estraneo di Lovecraft, che si riconferma invece come modello atipico, richiama l’infelicità dell’infanzia del protagonista, le memorie negative, i libri come unico rifugio e svago, boschi crepuscolari del suo vissuto comune, fitti di immensi alberi grotteschi coperti da erbe e dall’assenza di luce solare.
«Quel lato dell’umano che identifica una parte oscura propria, che si nega di possedere e che viene quindi proiettata sull’altro». Ed è infatti il lato introspettivo che spesso rende la creatura interessante per il lettore, la sua profondità psicologica, la sua storia e le sue verità nascoste che, in fondo, richiamano e identificano il suo lato umano. Un altro parallelo importante, già accennato in precedenza, è quello dell’ibrido, di un soggetto con più anime interne, un carattere da interpretare come se fosse una entità metafisica al servizio del lettore, creato per consentirgli di aprire realtà diverse, per esplorare mondi nuovi altrimenti chiusi all’essere comune, destinato usualmente ad un loop di azioni note e ripetitive fino alla sua morte. Il mostro, infatti, è in genere qualcosa che si contrappone a un’idea, più o meno definita, di normalità e di equilibrio: la sua anomalia è tale in relazione ai modelli ritenuti dogmatici dall’osservatore. I mostri sono una necessità psicologica, e non semplici creazioni della fantasia. Tale profondità intellettuale rende quanto mai complesso, con il rischio di una banalizzazione, il costante tentativo di rendere in forma cinematografica l’opera di Lovecraft. Tra il 25 e il 28 ottobre 2022 Netflix ha rilasciato l’antologia del fantastico Cabinet of Curiosities, su iniziativa di Guillermo del Toro in veste di produttore esecutivo e presentatore, mentre la regia è affidata a un nome diverso per ogni episodio. In particolare, gli episodi 5 e 6 della serie sono tratti dai due omonimi racconti di H.P. Lovecraft: Il modello di Pickman e I sogni nel la casa stregata. Se nell’immaginario collettivo l’orrore lovecraftiano è indicibile perché sovverte tutti i parametri della realtà e si dipana in dimensioni oniriche o universi paralleli, il racconto Il modello di Pickman non rispetta lo schema; al contrario, tutto concorre a trasportare il lettore in una dimensione estremamente concreta, di cui è possibile ricostruire la geografia e la genealogia. In Cabinet of Curiosities le opere dell’artista maledetto provocano a Thurber incubi molto vividi e visioni relative a Lavinia e la sua congrega, in seguito alle quali l’uomo inizia a dare segni di instabilità mentale e a bere, mettendo così a dura prova il rapporto con la fidanzata Rebecca e la famiglia di lei. La costante della nostra attuale produzione culturale, che accomuna quasi tutti i generi e che si rintraccia specialmente nelle opere dell’Occidente allargato e delle coste degli Stati Uniti, è la costante ricerca di un elemento morale superiore, in una inevitabile contrapposizione tra il Bene e il Male. Ciò che è del tutto assente nella narrativa di Lovecraft, dove all’incontro tra la razionalità della ricerca scientifica o artistica con l’innominabile, si associa una totale assenza di moralità:
«Non c’è scontro tra bene e male: c’è l’esistenza di ripugnanti creature che vivono ai margini dell’umanità.»
Manca anche negli specifici racconti di Lovecraft riprodotti da Netflix, qualunque tematica di genere, né in questo caso alcun tipo di stereotipo (quanto invece preme molto alla piattaforma statunitense). Non solo, ma in Lovecraft manca anche qualunque effettiva comprensione del male in quanto prodotto in qualche misura della sofferenza “specchio di un buonismo che certo non appartiene a Lovecraft”. Secondo il Solitario di Providence, sovvertire le leggi di natura per lenire il proprio dolore, può produrre conseguenze nefaste, al di là di qualsiasi comprensione per il protagonista sofferente. Qualsiasi concessione da cancel culture è in sintesi una damnatio memoriae in nome dell’inclusività, che impedisce di vedere l’evoluzione della coscienza e delle sue zone d’ombra fino a oggi.
Figlio della propria epoca, della già citata Grande Crisi, delle difficoltà dell’America Wasp, Lovecraft non può essere compreso e pienamente apprezzato snaturandone la coscienza e l’identità culturale. Come si evince dallo stile barocco e arcaico, dai riferimenti eruditi e classicheggianti presenti nella sua opera, dalle atmosfere che associano l’orrore al moderno, alla violazione delle leggi di natura, in un cosmo leopardianamente ostile, perchè indifferente, all’essere umano, Lovecraft rimpiange un ideale di perfezione scomparsa. La sua infanzia, costellata di neopaganesimo, di latino, greco antico e mitologia, influenza prepotentemente la formazione dello scrittore del New England. Nei versi che Lovecraft compone, giovanissimo, si scaglia contro il mondo moderno, rifiuta il cristianesimo, rimpiange la fine di Roma. Al liceo, ha valutazioni altissime in latino e scarsissime in algebra. Si sente un antico romano. Nel 1936, in una lettera al poeta e storico Robert Hayward Barlow, scrive che:
«L’Impero Romano mi apparirà sempre come l’evento fondamentale della storia umana»
L’inizio della costruzione del suo mondo del sogno, fuga ideale dalle percepite follie del proprio tempo, comincia come spirituale connessione con il passato, con Roma. Pur sentendo il proprio ancestrale legame con il mondo anglosassone, Lovecraft avverte un “patriottismo romano”, esaltazione di ordine, potenza e organizzazione. Celebrazione di perfezione artistica e letteraria, che sembra connettersi all’ascendente anglosassone e settecentesco del Solitario: più vicino, spiritualmente a un intellettuale inglese o britannico del XVIII secolo, al neoclassicismo che tanta influenza ha avuto nella formazione del New England e nella definizione della sua identità.
Nel proprio disprezzo per il mondo contemporaneo, Lovecraft fa culminare probabilmente la propria intera produzione, attraverso la scrittura, sofferta e non adeguatamente ricompensata, di At the Mountains of Madness, oggetto di un’analisi specifica in questa raccolta di saggi. Nell’unico grande romanzo scritto dall’autore di Providence, si somma la sua intera elaborazione cosmologica, le sue paure legate al moderno, nonché una raffinata, precisa raffigurazione dell’aspirazione umana, mediante la scienza, a ampliare la conoscenza dimentica delle conseguenze. Nel suo lungo errare, conclusosi nel continente di più recente esplorazione, al cui interno risiedono le testimonianze più terrificanti del processo di crescita, sviluppo e decadimento cui va incontro qualsiasi civiltà umana e non, si innesta Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler. Il senso del declino verso cui anche la civiltà occidentale è destinata a incamminarsi, si esplica nell’allucinante apparizione degli Shoggoth, indefinibili follie generate dalla smania di potenza dei Grandi Antichi. La compassione del protagonista del romanzo per questa potente progenie del passato, contiene la più significativa manifestazione di compiuta umanizzazione del mostro: «They were men!»
Una simile, rivoluzionaria, affermazione è il non plus ultra della piccolezza dell’uomo dinanzi a un Universo cieco e incurante, nel cui centro governa la più alta delle divinità del pantheon lovecraftiano, Azathoth. Demone-sultano dormiente, Azathoth è nella sua intima espressione quasi emblema di un aristotelismo rovesciato, in cui il Primo Motore Immobile, ovvero Dio, anziché essere pensiero di pensiero è incubo, che emana dal centro verso la periferia. In maniera del tutto casuale, perché inconsapevole. Per l’umanità, anziché estendere il volume dell’orrido che gradualmente si disvela e che potrebbe, un giorno, comportare la stessa fine dei Grandi Antichi, si profila solo una vita dedita al sogno e alla conservazione di ciò che pure viene percepito come semplice convenzione, conservatori per sopravvivenza, mentre la massa converge verso l’abisso:
«Mi rendo conto di essere un individuo alquanto monocorde, i cui soli interessi reali sono il passato e l’ignoto o lo strano. Capisco di essere fondamentalmente un cinico, uno scettico ed un epicureo; un tranquillo conservatore.»