Se c’è una cosa che la vicenda Silvia Romano ci ha insegnato, questa è certamente una diffusa e sentita mancanza di empatia da parte di un numero consistente di persone, i quali si sono resi colpevoli di aver scatenato una campagna d’odio nei confronti dell’attivista e volontaria milanese. A lasciare molti sorpresi ed “indignati” sono specialmente le immagini dello sbarco della giovane, non più vestita alla “occidentale” e dichiaratamente convertita all’Islam.
Avevo bisogno di credere in qualcosa, di conoscere le ragioni di quanto mi stava accadendo. Ho espresso la volontà di diventare musulmana. Nessuno mi ha obbligata, è stata una mia scelta. E in quel momento ho scelto di chiamarmi Aisha.
Aisha, così come i suoi familiari, sono ora alla ricerca di una tranquillità che mancava loro da 18 mesi. Certamente il clima infuocato, che ha visto prendere posizioni anche molto gravi da parte di alcuni esponenti di partito, non aiuta a ristabilire un clima di serenità. Il problema è che nessuno, più o meno esperto, può mettersi nei panni di una prigioniera di Al Shaabab.
Eppure, quasi ottant’anni fa, qualcuno sembra aver compreso più di mille analisti e psicologi, l’essenza della prigionia e della conversione in prigionia, prima dei social, prima del talk show, prima di qualsiasi lettura fuorviante operata dall’imperante società dello spettacolo e dei mass media attuale. Il 22 febbraio del 1942 moriva suicida a Petròpolis, in Brasile, il grande scrittore e umanista Stefan Zweig, ebreo austriaco costretto a fuggire dalla sua amata Austria dopo che la stessa era stata annessa dalla Germania nazista. Esponente di spicco della grande letteratura dell’ex impero asburgico, Zweig aveva dato alle stampe il giorno prima tre dattiloscritti costituenti un racconto: la Schach-novelle, ovvero La novella degli scacchi:
Preferisco dunque concludere a tempo debito e a testa alta una vita che ha sempre identificato nel lavoro intellettuale la gioia più pura e nella libertà personale il bene più prezioso della terra. Saluto tutti i miei amici! Possano rivedere l’aurora, dopo la lunga notte! Io, troppo impaziente, li precedo.
Scrisse così Zweig, in un’ultima lettera, la sua dichiarazione di stoico congedo dalla vita e dal mondo. Eppure la Schach-novelle, piccolo capolavoro dallo stile lucido, avvolgente e nostalgico, proclama più delle sue ultime lettere, il canto del cigno dell’uomo dinanzi alla barbarie. Uno specchio lucido di resistenza alla prigionia e all’oppressione. Protagonista di questa vicenda è il misterioso Dr. B., imbarcatosi per Buenos Aires e lasciatosi coinvolgere, suo malgrado, in una partita a scacchi niente meno che contro il grande campione Czentovic. Il Dr. B., interviene in una partita in corso tra Czentovic e un altro passeggero della nave, ribaltando completamente la partita e conseguendo una clamorosa vittoria. Tutti restano interdetti dinanzi a questo insperato successo ed è evidente l’iniziale imbarazzo del Dr. B. in proposito:
“Perché non so davvero” aggiunse con un sorriso trasognato “se sono in grado di giocare correttamente una partita secondo ogni regola. La prego di credermi, non era assolutamente falsa modestia quando dicevo di non aver toccato un pezzo degli scacchi dai tempi del liceo, e dunque da più di vent’anni. E, anche allora, non ero considerato un giocatore particolarmente dotato”.
E allora come spiegare l’esattezza delle sue mosse? La straordinaria capacità di ricordarsi ogni singola combinazione? In effetti non mentiva il Dr. B.: di scacchiere non ne toccava veramente dai tempi del liceo. Nel frattempo però era incorso dell’altro: la storia – così tragicamente simile a quella di Stefan Zweig – aveva spezzato bruscamente la quotidiana e silenziosa attività da avvocato e amministratore patrimoniale del tranquillo Dr. B. Arrestato dalla Gestapo il Dr. B. era stato destinato, anziché ai campi di concentramento, ad una particolare forma di prigionia: una camera privata di un albergo. Molto spesso la prigionia viene, giocoforza, associata ad un complesso di stenti, di fame, di sete, di condizioni igienico sanitarie precarie. Invece la prigionia del Dr. B., così apparentemente comoda nelle sue apparenze nasconde il lato più duro di una simile forma di isolamento:
Non ci fecero nulla: si limitarono a collocarci nel nulla più assoluto, poiché, com’è noto, non v’è cosa al mondo che eserciti sull’animo umano una pressione pari a quella del nulla. Rinchiudendoci singolarmente in un vuoto totale, in una stanza isolata ermeticamente dal mondo, quella pressione che alla fine ci doveva disserrare le labbra non sarebbe nata dall’esterno, con freddo e percosse, ma dall’interno.
La stanza è priva di ogni riferimento e di ogni seppure minimo legame con la realtà umana. Né un orologio per contare il tempo, né una matita per scrivere, né un coltello per tagliarsi le vene. Persino le sigarette sono negate. Alle guardie viene dato l’ordine di non parlare e di non rispondere alla domande del prigioniero:
Camminavi su e giù e, insieme a te, andavano su e giù i tuoi pensieri, avanti e indietro, senza posa. Ma, per quanto ci appaiano privi di sostanza, anche i pensieri hanno bisogno di un punto d’appoggio, altrimenti iniziano a ruotare e a turbinare in modo assurdo su se stessi. Neanche i pensieri sopportano il nulla.
Per quattro mesi, l’unica boccata d’aria è rappresentata dall’interrogatorio, grazie al quale il Dr. B. può osservare oggetti e colori differenti e può sperare nello sguardo e nel confronto con un’altra persona. Sull’orlo della pazzia, ormai prossimo a confessare la sua strenua difesa dei beni dell’ex Corona asburgica dagli espropri operati dal Reich, il Dr. B. trova però, quasi miracolosamente, un’ancora di salvezza: dentro uno dei cappotti che si trovavano appesi all’interno della stanza per l’interrogatorio, si scorgeva la forma indistinguibile di un libro e il Dr. B. decide quasi d’impulso di rubarlo. Tuttavia, una volta in camera, rimane profondamente amareggiato e colpito al tempo stesso:
A prima vista fui deluso, e provai persino una specie di amara irritazione: quel libro, guadagnato con enorme rischio e tenuto in serbo con fervide aspettative, non era altro che un manuale di scacchi, una raccolta di centocinquanta partite di campioni.
Che farne allora? Un libro del genere presuppone un compagno contro il quale giocare e una scacchiera con dei pezzi. Il Dr. B. però ha ormai quell’unico testo, unica e immensa boccata di ossigeno fatta di diagrammi di partite, di lettere indicanti le colonne e di numeri indicanti le traverse. Servendosi del suo lenzuolo già miracolosamente quadrettato e di molliche di pane modellate a costituire i pezzi, elabora così, clamorosamente, la sua risposta al vuoto della prigionia. Convogliando energie fisiche e mentali in quell’unica attività e in quell’unico libro, assorbendone dettagli, regole e schemi, il Dr. B. si confronta in maniera quasi religiosa con quel gioco, il quale risulta anche efficace in termini di difesa logico-mentale contro le domande degli uomini della Gestapo:
Una distrazione infinita animava quotidianamente il silenzio della cella, e proprio la regolarità degli esercizi restituiva alle mie facoltà mentali la sicurezza ormai scossa: sentivo il cervello rinfrescato e persino, per così dire, affilato dalla costante disciplina mentale […]. Mi ero perfezionato nella difesa contro finte minacce e celati stratagemmi: da allora in poi alle udienze non mostrai più alcun punto debole, mi parve persino che gli uomini della Gestapo a poco a poco iniziassero a trattarmi con un certo rispetto.
Stefan Zweig
Un libro dunque, per quanto astratto e complesso, restituisce il Dr. B. alla sua umanità. Quelle fondamenta così scosse e sovvertite dalla innaturale regolarità e monotonia di una stanza priva di qualsiasi riferimento, rappresentazione materiale del Nulla e del Vuoto più totale, vengono ricostruite un pezzo di scacchi per volta, sulla superficie bianca e nera di una scacchiera prima materiale e poi mentale. Il passatempo diviene scelta di vita, diviene l’unico riferimento, l’unico conforto in un mondo divenuto insensato e fuori da ogni regola. Ritornando a Silvia Romano, vale pertanto la pena di ricordare le sue parole, citate in apertura: «avevo bisogno di credere in qualcosa». Credere in qualcosa è un bisogno essenziale e radicato in uomini e donne di ogni epoca. Che sia un manuale di scacchi o un Corano, un libro in prigionia rappresenta spesso una via d’uscita, l’unica, dal vuoto di una prigione. Le parole di Silvia Romano, riportate sul Corriere della Sera, rappresentano forse un calco, tragicamente più reale, della vicenda del Dr. B.:
Stavo sempre in una stanza da sola, dormivo per terra su alcuni teli. Non mi hanno picchiata e non ho mai subito violenza.
Mentre lo dice Silvia non sa che fuori dalla caserma c’è chi dice che l’abbiano fatta sposare con uno dei carcerieri, addirittura che sia incinta. Non lo sa ma le sue parole bastano:
«Non sono stata costretta a fare nulla. Mi davano da mangiare e quando entravano nella stanza i sequestratori avevano sempre il viso coperto. Parlavano in una lingua che non conosco, credo in dialetto.
Lei chiede di poter leggere.
Uno di loro, solo uno, parlava un po’ di inglese. Gli ho chiesto dei libri e poi ho chiesto di avere anche il Corano.
È in questo momento che inizia, probabilmente, il suo percorso di conversione.
Sono sempre stata chiusa nelle stanze. Leggevo e scrivevo. Ero certamente nei villaggi, più volte al giorno sentivo il muezzin che richiamava i fedeli per la preghiera.
Non giudichiamo, allora, tutte quelle scelte che vanno al di là delle nostre comode percezioni e del nostro modo prettamente materialista di intendere la vita e le decisioni umane. Forse, disabituati a doverci aggrappare con tutti noi stessi ad una piccola speranza quando il Nulla regna sovrano, abbiamo disimparato la profonda connessione tra l’adesione ad una qualsiasi forma di religiosità e il sentirsi, realmente e disperatamente, umani.