16 maggio, esterno notte. In un campo da qualche parte alla periferia della capitale San Salvador, cinquemila tra poliziotti e soldati salvadoregni se ne stanno sugli attenti, i mitra ben stretti nelle mani mentre un ufficiale li arringa impettito. A Nueva Concepción, settanta chilometri a nord, un agente è morto in una sparatoria coi pandilleros, i banditi che da decenni taglieggiano il piccolo Paese del Centroamerica: è il primo caduto in servizio in quasi un anno. Il governo di Nayib Bukele, da mesi impegnato in una guerra senza esclusione di colpi contro il crimine organizzato, intende mandare un messaggio chiaro. Gli ordini sono di isolare la cittadina e rastrellarla strada per strada, casa per casa, fino a che i responsabili dell’efferato omicidio non saranno stati catturati; poi li aspettano l’interrogatorio, solo se serve — meglio di no: l’uso della tortura è un segreto aperto — un processo sommario e infine le mura del nuovo mega-penitenziario di Tecoluca, il più grande dell’intera regione coi suoi quarantamila posti.
Non è forse un caso che l’operazione — riuscita, per inciso — ricordi da vicino quelle di Cesare Mori, il “prefetto di ferro” del primissimo Ventennio a cui Mussolini in persona volle affidarsi perché disarticolasse le cosche siciliane. Il metodo è lo stesso: atmosfera militare, numeri sempre nettamente a favore e potenza di fuoco soverchiante, il tutto condito da tanta, tanta eco mediatica. Quanto all’etica, si è detto che di scrupoli ce ne si fa pochi, prima, durante e dopo; insomma, la sovrapposizione tra l’una e l’altra circostanza risulta naturale e pressoché perfetta. Eppure, un’analoga identità tra i loro rispettivi protagonisti non è altrettanto scontata. Complice una certa immagine residuale del regime fascista, quasi al limite della caricatura nella sua marzialità pomposa ed esagerata, e così quella sempre un po’ kitsch dei suoi numerosi emuli latinoamericani, proprio non riusciamo ad intravedere in Bukele un possibile Duce tropicale e neanche, più banalmente, l’ennesimo caudillo.
Quarantaduenne millennial, atteggiamento cool ed estetica hipster, all’uniforme preferisce la giacca rigorosamente senza cravatta, al giornalismo militante l’imprenditoria (la prima società l’ha fondata a diciotto anni); con M. condivide, questo sì, la cacciata dal partito d’appartenenza, il Frente Farabundo Martì, non per deviazionismo irredentista ma per aver dato della strega ad un’onorevole collega. Comunque, ciò non ha ostacolato la sua folgorante carriera politica: in meno di un decennio è passato da sindaco di una modesta cittadina a Capo dello Stato, carica da lui assunta all’inizio del 2019. Da allora Bukele lo si ricorda soprattutto — diremmo soltanto — per aver fatto di El Salvador la prima nazione al mondo in cui i BitCoin hanno corso legale al pari della moneta fisica; un’iniziativa dal successo opinabile, bastata però a consolidare in patria e all’estero la percezione di El Presidente come un’innocua macchietta, interessata al più a vivere le sue fantasie da libertarian in attesa di un sostituto.
Di certo lo vedevano così anche le gang, abituate a fare il bello ed il cattivo tempo con una classe dirigente passiva e collusa. E in effetti, secondo il Dipartimento del Tesoro statunitense anche Bukele avrebbe concluso un accordo coi delinquenti: pace nelle strade — altrimenti teatro del maggior numero di omicidi per centomila abitanti nell’intero emisfero occidentale — in cambio di denaro ed un trattamento di favore per i membri incarcerati. Lui nega; in ogni caso, la tregua è saltata. Da marzo dello scorso anno vige ad El Salvador lo stato di emergenza, in virtù del quale il governo, coadiuvato da un apposito Gabinetto di Sicurezza, ha finora supervisionato oltre sessantacinquemila arresti, perlopiù eseguiti senza mandato e in deroga all’habeas corpus. Abusi, sovraffollamento e scarsità di risorse sarebbero endemici, con almeno una novantina di morti sospette registrate sul finire del 2022, mentre il resto della popolazione del Paese, quasi sei milioni e mezzo di persone, è sottoposto ad una sorveglianza digitale costante. Innumerevoli le critiche da parte delle organizzazioni umanitarie, che denunciano l’erosione dello Stato di diritto e paventano la svolta autoritaria. Per conto suo, Bukele si guarda bene dall’inquadrare la sua battaglia legalitaria in un progetto politico-ideologico complessivo, promuovendo invece una narrazione che, se da un lato la esalta come una vera e propria crociata, dall’altro pare volerla ridurre a semplice buonsenso a mano armata. Funziona: nonostante le perplessità degli osservatori esteri e delle opposizioni, i sondaggi riportano percentuali di approvazione con punte sopra il 90%. Oltre l’efficace strategia comunicativa, l’esecutivo può d’altronde vantare risultasti concreti: il tasso di violenza è crollato di più della metà e le maras sono state sistematicamente disarticolate dalle forze dell’ordine. Perfino la ferocissima MS13, arrivata dagli Stati Uniti (dove è tutt’ora attiva) negli Anni ‘80 al grido di <<uccidi, stupra, ruba e controlla>>, si è vista costretta a ridimensionare in maniera drastica la propria presenza sul territorio.
L’improbabile presidente sembra dunque essere riuscito a riportare una parvenza di normalità a El Salvador: almeno per il momento, Nayib Bukele ha vinto. Ed è una vittoria, la sua, alla quale si guarda con interesse da molto lontano. Tramontati i fasti della Brexit e di Trump, gli scontenti delle democrazie liberal intravedono nell’esperimento salvadoregno una storia di insperato successo, e in Bukele un nuovo punto di riferimento. L’andamento positivo della repressione, dicono, sbugiarda i fautori della linea morbida e soprattutto dimostra quanto superflui siano la politica istituzionale e le burocrazie che la promuovono; torna dirompente il fascino dell’uomo solo al comando, da sempre endemico nelle ex colonie spagnole d’oltreoceano. Bukele come Napoleone III: ma può la febbre del neo-cesarismo attraversare le acque e raggiungere altri lidi? Esiste, alla pari del trumpismo, un bukelismo che possa fare da veicolo a questa ennesima sfumatura dell’ideologia, apparentemente inestinguibile, del vox populi, vox dei?
Di certo l’approccio impudentemente securitario del numero uno di El Salvador è destinato a trovare una sponda nell’immediato circondario del Paese. Il crimine organizzato, ed in particolare il narcotraffico internazionale che lo alimenta, rappresentano una vera e propria piaga per buona parte del Centro- e Sud-America: soltanto in Messico si contano ad oggi circa trecentomila morti legate all’attività dei cartelli della droga e ai tentativi, perlopiù fallimentari, di contrastarla, ed è simile la situazione degli altri Stati interessati dal commercio di stupefacenti. I decenni di sostanziale impotenza delle autorità locali potrebbero allora fungere da catalizzatore di consenso per quanti volessero replicare la policy di tolleranza zero di Bukele; appaiono particolarmente vulnerabili i governi di sinistra come quello del Brasile e dello stesso Messico, il cui presidente Andrés Manuel Lopez-Obrador si è imposto come un fermo oppositore della war on drugs sul modello USA che aveva caratterizzato il mandato dei suoi predecessori.
Che il bukelismo sia in grado di travalicare i confini dell’area geografica che l’ha generato non è altrettanto plausibile; El Salvador resta un Paese piccolo e dallo scarso peso diplomatico, e l’eccentrico personalismo del suo presidente rischia di rendere infruttuosa qualsiasi apertura verso l’esterno. Tuttavia, il sempre più vistoso deterioramento dell’ordine pubblico in diverse nazioni occidentali, a cominciare dagli States, rappresenta in tal senso un’incognita da non sottovalutare. Ormai oltre centomila americani muoiono ogni anno per overdose; le grandi città di entrambe le coste sono invase da numeri crescenti di senzatetto (il record spetta a Los Angeles, con cinquantamila homeless), tossicodipendenti e sbandati di ogni sorta, mentre in Europa cresce — e a volte esplode, come aldilà delle Alpi— la tensione tra gli autoctoni e le vaste masse di immigrati arrivati a partire dal 2015. Quasi ovunque nel mondo sviluppato aumenta la percezione di insicurezza, tutto in un contesto di declino generalizzato. Tra i segnali più significativi di questo clima spicca la recente elezione ad amministratore distrettuale di un esponente dell’AfD tedesca, partito-paria da tempo in odore di estremismo, ma che nondimeno è giunto ad imporsi nei sondaggi come seconda forza politica della Germania. Si tratta di una situazione potenzialmente esplosiva, e lo scioglimento preventivo dell’AfD ipotizzato dalle autorità teutoniche non potrebbe che esacerbarla, forse addirittura su una scala continentale. Eppure, nessun sistema democratico sembra al momento capace di (o disposto a) gettare acqua sul fuoco; la risposta ad episodi quali le rivolte che in questi giorni stanno sconvolgendo la Francia, o la crisi degli oppiacei che attanaglia l’America, denotano anzi un’apatia al limite della complicità. Così la pensano tanti elettori esasperati, una minoranza che sempre di più si percepisce maggioranza. E che alla fine potrebbe reagire cercando un suo Bukele. Perché in ogni epoca e Paese, da ultimo i Bukele non sono che questo: una reazione.