OGGETTO: Il costo della mediazione
DATA: 09 Settembre 2025
SEZIONE: Geopolitica
AREA: Asia
L’8 agosto del 2025 segna un punto di svolta nelle relazioni fra Azerbaijan ed Armenia. L’intesa raggiunta fra i due Stati sembra porre finalmente fine al conflitto del Nagorno Karabakh, che incessantemente dal 1988 ha tenuto i due in aperta ostilità. A mediare le richieste e le pretese è Donald Trump, o meglio: gli Stati Uniti. Il prezzo della mediazione è caro per tutta la regione: è in atto una trasformazione che modificherà radicalmente gli assetti geopolitici del Caucaso meridionale.
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L’azione di uno Stato quando si rivolge all’esterno assume dei connotati neutri. Ogni sfumatura politica e ideologica interna perde di consistenza quando questo si ritrova a comunicare con ciò che c’è al di fuori di esso. Gli Stati Uniti innegabilmente hanno giocato un ruolo fondamentale per appianare tensioni e tragedie fra due Stati vicini e nemici. 

Il trattato fra Armenia ed Azerbaijan risulta un successo in termini di pace, tanto da far maturare nel presidente azero Aliyev e quello armeno Pashinyan la convinzione che Donald Trump sia l’uomo della provvidenza e che come tale debba essere insignito del premio Nobel per la pace. L’orrendo conflitto che ha investito la regione per il controllo del Nagorno Karabakh sembra ormai avviarsi verso la sua conclusione, segnando l’inizio di un nuovo corso, o, per meglio dire, di un nuovo corridoio. 

Nei fatti, gli Usa si sono comportati nell’attività di mediazione come soggetto agente, portatore di interessi personali funzionali al controllo della regione, introducendo il “corridoio TRIPP” (Trump Route for International Peace and Prosperity). Per il ruolo svolto gli Stati Uniti ottengono infatti la gestione diretta del corridoio di Zangezur (ribattezzato appunto TRIPP) per 99 anni, con possibilità di controllo sulle operazioni di transito (strade, ferrovie, energia e telecomunicazioni). Il corridoio ha una lunghezza di 43 chilometri ma appare come gioiello strategico all’interno della regione: attraversa il sud dell’Armenia, collegando il territorio principale dell’Azerbaijan alla sua exclave di Nakhchivan. Pur rimanendo formalmente sotto sovranità armena, il passaggio diventa un’arteria strategica per commercio e connessioni regionali, correndo vicino al confine con l’Iran e ridisegnando equilibri geopolitici nella regione. 

La presenza americana all’interno di questo lembo di terra rappresenta un unicum nella regione, un nuovo ospite capace di sgretolare o riequilibrare i rapporti fra i vari Stati presenti nel Caucaso. L’obiettivo della strategia è alquanto lineare: diminuire l’influenza russa e iraniana nella zona. Il corridoio poi assicura una presenza stabile americana sul confine limitrofo all’Iran. La mediazione americana si deve considerare una vittoria in termini di credibilità internazionale, gli Stati Uniti sono riusciti a scansare l’egemonia diplomatica Russa, ponendo le basi per una nuova relazione dei rapporti fra i due stati belligeranti. In altri termini Washington ‘soffia’ a Mosca un ruolo di primaria importanza nella regione, lasciando sguarnito l’alleato storico: l’Iran.

L’approccio scelto dall’amministrazione Trump è tanto sottile quanto efficace, si potrebbe riassumere dicendo ‘minimo sforzo massima resa’. Dall’insediamento dell’esecutivo infatti questa ha lavorato capillarmente per porre fine ad una serie di conflitti sparsi per il mondo, proponendo non solo una pace formale, ma soluzioni pratiche che potessero accontentare i vari soggetti coinvolti. La forma mentis è quella imprenditoriale applicata al mondo della politica, la decisione non deve essere iniqua, o almeno, non in maniera sproporzionata, ma capace di appianare le controversie tramite vantaggi tangibili nel breve e medio periodo. Gli Stati coinvolti vedono negli Stati Uniti oltre ad un capace mediatore, un punto di riferimento, un avamposto necessario per relazionarsi con il mondo occidentale, per fare affari con questo ed ambire ad una protezione più o meno pervasiva da parte di Washington. La diplomazia americana sta riscrivendo le modalità con cui le superpotenze si approcciano ai conflitti del mondo, non è più redditizio e tanto meno efficace prendere posizione, supportare una delle parti tramite dichiarazioni o fatti concludenti. Ciò che conta davvero è la consapevolezza che ogni parte in causa sta perseguendo interessi legittimi e che gli Stati Uniti, forti della loro posizione di potenza globale e terzi rispetto al conflitto, possano farsi mediatori capaci di trovare una soluzione che soddisfi tutti, inclusi loro stessi.

Un esempio di ciò, può essere fornito da due altri accordi raggiunti dall’amministrazione americana: la pace raggiunta fra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo e l’accordo commerciale stipulato con il Pakistan dopo il breve conflitto con l’India. Il primo di questi mette fine ad una guerra trentennale fra i due Stati africani, dando allo stesso tempo agli Stati Uniti la possibilità di inserirsi in una sfida commerciale con la Cina per il controllo delle risorse minerarie nei due Stati, tra i massimi produttori di coltan, litio, cobalto e rame, indispensabili per la produzione di batterie elettriche. 

Per quanto riguarda il secondo qui la situazione si fa più sfumata, attraverso la mediazione Washington è riuscita a porre fine al breve conflitto esploso nell’aprile del 2025 dichiarando di ‘aumentare significativamente gli accordi commerciali’ con i due Stati, definendole ‘due grandi nazioni. Quest’ultima azione diplomatico è tesa a stringere rapporti sempre più intrecciati con Islamabad, tentando di sottrarre alla Cina un alleato che, fino a poco tempo fa, aveva il dragone rosso come unico partner commerciale per l’acquisto di armi e di tecnologia avanzata. Nella delicata strategia diplomatica del do ut des, si vede poi come Washington attraverso la creazione di intese commerciali cerchi di attrarre anche Stati legati alla Casa Bianca da rapporti ambigui. 

Attraverso lo sfruttamento del corridoio TRIPP si punta a rendere partecipe la Turchia che non ha mai nascosto nella sua politica estera una chiara duttilità nel scegliere i propri alleati, che questi fossero gli Stati Uniti o la Russia. La Turchia ha difatti inaugurato i lavori per una linea ferroviaria da Kars a Dilucu, 224 chilometri che collegheranno l’est del paese all’enclave azera di Nakhivan. Ciò permette agli Stati Uniti di rafforzare il proprio legame con la Turchia, di avere un partner operativo e logistico sul terreno, riducendo la necessità di un impegno diretto e permanente. Permettere ad Ankara di essere parte del corridoio serve anche a limitare la penetrazione di Mosca e Teheran nella regione. La Turchia può fungere da ‘scudo regionale’ a protezione degli interessi occidentali, mentre mantiene il suo ruolo di attore indipendente. Gli Usa così rafforzano il legame con la Turchia, dopo anni di rapporti turbolenti, il coinvolgimento nel TRIPP offre agli Usa un punto di contatto strategico e simbolico con Ankara, utile per negoziazioni future su Siria, Mediterraneo e alleanza NATO.

Negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno mostrato una capacità di mediazione che va oltre la semplice pace tra due contendenti: attraverso i trattati plasmano equilibri regionali e globali, influenzando non solo le parti direttamente coinvolte, ma anche gli Stati vicini e le potenze esterne. Ogni accordo diventa uno strumento di potere discreto, un modo per allargare la propria sfera di influenza senza conflitti aperti, trasformando la diplomazia in un’arma strategica capace di modellare interi scenari geopolitici. Lentamente si sta cercando di definire un nuovo ordine politico a colpi di trattati. Dal Caucaso, all’africa centro-orientale, al Medio Oriente fino al sud est asiatico Washington riesce a consolidare la propria influenza, conquistando aree strategiche senza sparare un colpo, trasformando accordi diplomatici in strumenti concreti di potere e posizionandosi come arbitro imprescindibile nelle crisi che ridisegnano il mondo.

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