Il Mediterraneo è zona di caldere, per loro stessa natura violente, di furie improvvise, devastanti. Guardando a quell’azzurrità resa ancora più ampia da un fisheye abbagliato dal biancore delle chiese e dall’azzurro delle cupole rubato al mare e rituffato nelle onde, sembra impossibile che sotto quell’acqua possa ribollire un inferno di lava e gas e pomici che, pure, ha già rimodellato violentemente mare e terra in un tempo che, per quanto remoto, nell’immaginario delle genti ha conservato terrori ancora vivi. Ma questa è una caldera che non può certo essere controllata; se esploderà per una seconda volta lo farà senza avvisare, seguendo regole forse intuibili ma certo non governabili. L’altra caldera è poco più a est, ed erutterà ancora la sua lava, i suoi gas e le sue pomici a lungo, sospinta verso il cielo dalla violenza di idee ed interessi che rifiutano per loro stessa natura alcun tipo di controllo o ragione. Lo vedremo: ideologie, radicalismi, trascendenze mistiche, pulsioni umane, troppo umane, odii inestinguibili.
Sulle sponde mediorientali si giocano le sorti di terre antiche, di popoli che, guardando alla storia, possono dire, contro ogni logica, di essere ancora qui. Difficile da comprendere in un momento di convinzioni relativistiche, ma è così. All’ombra di cessate il fuoco che fanno della labilità la loro ragion d’essere, ai prigionieri palestinesi rilasciati in esecuzione degli accordi connessi alla liberazione degli ostaggi israeliani, sono stati donati bracciali che, in arabo, riportavano un passo tratto dal Libro dei Salmi: la nazione eterna non dimentica; inseguirò i miei nemici e li raggiungerò. Benvenuti nella caldera del Medio Oriente, potenziale eden, concreto inferno, dove il fisheye da Santorini amplia indefiniti orizzonti dall’azzurro delle onde all’ocra di una terra mai in pace.
Il fine della strategia bellica di Tel Aviv è sempre stato indirizzato a massimizzare i colpi di maglio come compensazione per un’impossibile resistenza prolungata, tuttavia le tattiche a contrasto del terrorismo hanno costretto ad accantonare questo assunto; la guerra è ora a un bivio, ed il fallimento localizzato del 7 ottobre se da un lato porta alla necessità strategica della concentrazione su Hezbollah e Hamas, con zone cuscinetto e asimmetrie sì prolungate nel tempo da fiaccare Israele, dall’altro conduce al primo conflitto difensivo anti asse sciita che deve condurre a nuove capacità in grado di sostenere la prossima fase bellica. È in quest’ottica che l’accordo per il rilascio degli ostaggi è visto dalla destra politica come una sconfitta foriera di immensi rischi conseguenti alla liberazione dei terroristi detenuti. Il dibattito guarda ai valori, e pone il dilemma se sia più giusto salvare vite o guardare alla sicurezza nazionale prossima ventura. L’attacco di Hamas, forza islamista rivoluzionaria, ha evidenziato che la guerra per la Terra di Israele, non è finita, con i palestinesi passati da una dimensione nazionalista ad una religiosa e radicale, e con l’Iran contro cui non era pronta una strategia precisa, cosa che ha sconvolto di fatto il pensiero strategico di Tel Aviv, ingannato da efficienze tattiche e raggirato dalla neanche troppo silente creazione di non eradicabili formazioni antagoniste libere di muoversi in teatro; il ritiro israeliano dai territori ha di fatto intensificato il terrorismo quale persistente minaccia esistenziale, assolutamente non sopita, a cui rispondere con un’espansione territoriale necessaria, ora, per proiettare forza da oltre il limes confinario, dopo la debacle del 7 ottobre.
Il problema strategico è adesso nella dicotomia tra il contrasto al terrorismo e la preparazione ad un conflitto con Teheran. Il prolungamento delle operazioni a Gaza e le difficoltà nella distruzione del sistema di tunnel sotterranei, ha condotto ad una guerra di logoramento in cui il reclutamento di Hamas ha compensato le perdite subite, tenuto conto che si tratta di un’organizzazione ascesa violentemente al potere nel 2007, in contrasto con l’ANP di Abu Mazen, forse l’unico ed incerto ago della bilancia, e che ha combattuto quattro conflitti contro Tel Aviv. Ma quale può essere un regime alternativo a Gaza, data la prevalenza conferita da Hamas agli obiettivi politici radicali che presuppongono l’accerchiamento di Israele dalla Cisgiordania, a fronte delle più immediate necessità gazawi?
Intanto in Qatar, il 15 gennaio, con la mediazione di USA in versione bipartisan Blinken-Witkoff, Egitto e Turchia, è stata delineata un’intesa volta a garantire una tregua in tre fasi e secondo un’idea di calma sostenibile, un cessate il fuoco di sei settimane basato sul rilascio parziale di ostaggi israeliani, prigionieri palestinesi e sul progressivo ritiro dell’IDF; beninteso, una tregua favorita anche dal crollo baathista in Siria, dal ridimensionamento libanese di Hezbollah e dall’indebolimento di Teheran, alle prese con problemi interni politico sociali di notevole portata. Siamo tuttavia sempre sul bordo più vicino della caldera mediorientale, e nulla è facile come sembra; di fatto l’architettura delle negoziazioni successive alla prima è talmente aleatoria e fragile da non riuscire a fugare perplessità, peraltro rinforzate dalla rapida evoluzione geopolitica determinata dall’ascesa al potere della nuova Amministrazione americana, quanto mai prossima al governo Netanyahu in insofferente attesa dell’arrivo di ostaggi, incolpevoli vittime di un gioco al massacro immensamente più grande di loro, un gioco tragico che ha visto la leadership di Hamas protesa al successo a qualunque costo pur a fronte del cane pazzo israeliano, evocato a suo tempo in circostanze analogamente drammatiche da Moshe Dayan.
Le analisi, in quanto tali, non possono soggiacere ad alcuna polarizzazione, e per quanto è dato di osservare, questo cessate il fuoco non sembra possedere alcun crisma atto a far supporre che possa giungere ad una conclusione valida. La liberazione di parte degli ostaggi, avvenuta secondo modalità che hanno coreograficamente riportato a tempi drammaticamente non così lontani, con miliziani gazawi usciti apparentemente illesi da bombardamenti e scontri, ha fornito ulteriori elementi di dibattito nell’esecutivo di Tel Aviv, già provato dalla giubilazione del ministro Gallant, e dallo scontro tra le anime più ortodosse, fondamentali per la tenuta del governo e tuttavia oggetto di riforma che vede gli Haredim come arruolabili, e quelle più vicine alla realtà dell’evoluzione politica quotidiana. Già, perché un cessate il fuoco è già in vigore in Libano da novembre, con la successiva elezione del presidente Aoun ed il difficile contenimento di Hezbollah, protagonista dei recenti assalti alle colonne di UNIFIL, operativamente in chiara difficoltà e politicamente emarginata dagli accordi intercorsi nel frattempo tra USA, Francia, Libano e Israele; Hezbollah in chiara sofferenza per le restrizioni imposte con la forza dall’esercito di Beirut anche in virtù della risoluzione 1701 delle NU oggetto di interpretazioni a geometria variabile che comportano un pervasivo e prolungato controllo da parte di Tsahal, mai così attento dopo la catastrofe del 7 ottobre.
Mentre i vertici israeliani si interrogano sull’assunzione delle responsabilità, foriere di dimissioni per taluni sorprendentemente inedite, deve essere chiaro che Hezbollah non mancherà di sfidare Aoun per addebitargli l’incapacità di difendere la sovranità del Paese dei Cedri. Sarà dunque essenziale promuovere due obiettivi strategici, ovvero: eliminare la minaccia di Hezbollah contro Israele e USA nel Libano del sud; rafforzare il governo libanese. Torniamo a Gaza, dove l’IDF ha comunque indebolito la catena di comando di Hamas avendo tuttavia di fronte una condizione umanitaria difficilmente sostenibile, verso la quale ancor di più risaltano negativamente le manifestazioni trionfal-hollywoodyane. In questo contesto si è generata la dinamica politica che ha condotto ad un fragilissimo cessate il fuoco; se Hamas, pur nella sua relativa debolezza, sta tentando di imporre intese multilaterali atte a favorire una sua riorganizzazione, anche se nel lungo periodo, Tel Aviv non può accettare l’imposizione di una tregua sfavorevole, capace solo di mettere in ulteriore difficoltà un governo che guarda ai principali Paesi arabi come elementi di dissuasione verso Hamas dal proseguire il conflitto purché ceda il potere a Gaza. Al di là delle strategie, la tregua non dirime i motivi del conflitto, benché rimanga un passo necessario per un accordo successivo più o meno duraturo pur a fronte delle minacce di abbandono dell’esecutivo da parte di Itamar Ben-Gvir, leader di Potere ebraico e di BezalelSmotrich, responsabile di Sionismo religioso, e delle contestuali offerte di sostegno da parte dell’opposizione di Lapid e Gantz, cui è seguito l’ingresso al governo di Gideon Sa’ar, la vera polizza contro ulteriori possibili alzate di testa da parte di una destra comunque blandita perché non faccia venir meno il sostegno alla riforma giudiziaria, flemmatizzata in seguito al 7 ottobre.
Ma certo, nulla può cancellare le violente emozioni causate dallo show organizzato per la liberazione di ostaggi che, scarni e denutriti, in alcuni casi erano finanche ignari della sorte toccata ai loro cari che pensavano di reincontrare di lì a poco; una condizione che ha ingenerato uno stato emotivo di ira ed angoscia tardivamente inteso dal CICR, perfettamente conscio della mancanza del tempo necessario al salvataggio degli altri ostaggi (forse) ancora in vita. È ipotizzabile che Hamas abbia sottovalutato l’effetto prodotto dalle immagini dei prigionieri rilasciati, lasciando che la teatralità divenisse di fatto controproducente presso chiunque, anche perché se una morte può essere attribuita ad un bombardamento israeliano, la stessa cosa non può certo dirsi per un essere umano stremato. Se è vero che la guerra ci sarebbe stata anche senza copertura mediatica, è altrettanto vero che la determinazione israeliana non sarebbe stata così forte senza quelle scene.
Dopo più di un anno, altre dileggianti riprese stanno producendo lo stesso violento effetto. Se Gaza è stata distrutta dopo le immagini del 7 ottobre, ci si domanda con quali agevolazioni sarà ricostruita dopo i video di febbraio 2025, accompagnati dalla proiezione delle immagini di gallerie ben strutturate dove gli ostaggi sono stati trattenuti. Per il momento, dopo la presa di posizione palestinese circa l’interruzione della consegna dei prigionieri, a tenere banco sono le dichiarazioni del Presidente Trump in appoggio a Tel Aviv, sotto l’osservazione attenta di Arabia Saudita ed EAU, visti gli investimenti intrapresi a beneficio di imprese americane nel campo dell’IA. Nel contesto che vede Potus intenzionato ad acquisire il controllo di Gaza, interviene il Re di Giordania,Abdallah II, che non può certo dimenticare la natura di rentier state del suo regno, legato da un lato alla necessità degli aiuti americani, ma terrorizzato dall’altro dal ricordo di ciò che ha significato per Amman il settembre nero. Sia il Re che il presidente al Sisi sono consci del rischio generato dall’accoglienza di un numero esorbitante di rifugiati che, oltre ad un’instabilità interna, contribuirebbero a presentarli come complici di una nuova naqba. Il tutto, mentre l’operazione israeliana Muro di ferro procede verso la Cisgiordania, prodromo di un ulteriore esodo palestinese verso Amman, con Riyadh che non manca di alzare i toni verso Tel Aviv, nel tentativo di appropriarsi dell’esclusiva della questione palestinese.
Al netto delle trascendenze ideologiche, a Gaza probabilmente in pochi credono davvero di poter fare affidamento sull’Iran, sotto molti aspetti allo stremo, o su Ankara, che ha bisogno di Washington per le sue proiezioni di potenza tra Siria e Iraq, o su paesi sparsi tra Mena e Golfo che, comunque, non disdegnerebbero una convocazione alla Casa Bianca; ecco che Hamas, in stile taqiyya prende tempo per allungare la tregua. Nell’attesa di comprendere se i gazawi possano essere considerati un attore geopolitico, rimane da attendere le decisioni israeliane circa le possibili soluzioni adottabili prima di arrivare ad una cartagenizzazione dell’area che porrebbe a rischio l’eccezionale unicum degli Accordi di Abramo.