OGGETTO: Il caso Matzneff
DATA: 17 Giugno 2021
SEZIONE: inEvidenza
Pedocriminale o vittima della gogna del politicamente corretto? Il libro di Gabriel Matzneff arriva in Italia. In Francia gli amici che lo incensavano ora gli voltano le spalle
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In Italia esiste ancora il contraddittorio. In una discussione pubblica – nel caso di specie svoltasi a colpi di fioretto letterario – è consentito a due persone di sostenere opinioni antitetiche, contrariamente, a quanto pare, di quanto avviene oltralpe. Perché se all’inizio del 2020, in Francia, è stato dato alle stampe Il consenso di Vanessa Springora (tradotto in Italia da La Nave di Teseo), un libello autobiografico in cui l’autrice narra la sua verità in merito alla relazione intercorsa fra lei e lo scrittore Gabriel Matzneff più di trent’anni prima – all’epoca dei fatti avevano rispettivamente quattordici e cinquant’anni –, non ha incontrato la stessa disponibilità la sua controparte a cui, al contrario, è stata negata la possibilità di deporre, per mezzo di una propria memoria difensiva, al cospetto del tribunale della pubblica opinione.

A tutela della libertà di contraddittorio, è intervenuta la casa editrice Liberilibri di Macerata – da sempre animata da uno spirito liberale e libertario – unica in Europa ad aver fornito al letterato francese, ormai ottantaquattrenne, la possibilità di raccontare la propria verità, per mezzo del libro Vanessavirus (traduzione di Giuliano Ferrara), fresco di stampa. Ad arbitrare la lite letteraria può essere solo il lettore, che oggi, grazie alla produzione del libro, può disporre di entrambe le versioni dei fatti. Bisogna però specificare, per completezza, che la suddetta liaison era già stata descritta negli anni Novanta in uno dei diari di Matzneff, edito in Francia come il resto della sua produzione letteraria. E nessuno, nei circoli bobo della Ville Lumière, aveva gridato allo scandalo.

Lontani dall’emettere in tal sede alcuna sentenza d’ordine morale in merito alle opere dell’autore francese o all’affaire in cui figura oggi come antagonista, ciò che desta meraviglia è la retroattiva condanna sociale inflitta ai danni dello stesso, dopo l’uscita de Il consenso – con annesso ritiro dei suoi scritti da librerie e biblioteche – da parte del medesimo ambiente intellettuale parigino che solo qualche decennio prima gli aveva riservato una calorosa accoglienza.

“Il diario, per come lo concepisco, è il grado zero della scrittura, la vita bevuta a collo, la verità annotata giorno per giorno, l’istante fugace fissato sulla carta minuto per minuto”, scrive Matzneff in Vanessavirus, i cui contenuti dei propri carnets noir degli anni Settanta e Ottanta paiono divenuti discutibili unicamente a posteriori, avendo ormai gli ex sessantottini di Lutezia dismesso gli abiti di propugnatori della liberazione dei costumi, per vestire quelli ben più comodi di ostentatori di una intransigente pruderie da salotto.

Ma se la vendetta è un piatto che va servito freddo, quella della Springora arriva solidificata come un blocco di ghiaccio, pronta per essere decongelata ai tempi del depensiero del pol. corr. che reprime ogni forma di libertà di espressione nel marcescente mondo occidentale, con un racconto che invoca moralità decontestualizzata, a più di trent’anni dai fatti avvenuti.

Se la Springora ha infatti tenuti celati i propri pensieri per oltre trent’anni, Gabriel Matzneff non ha mai fatto mistero della sua vie de bohème, di quella vita dissoluta per la quale viene oggi ostracizzato ma le cui confessioni – assieme a quello dell’amour fou per Vanessa – sono state pubblicate in diari e romanzi stampati dai medesimi editori che li hanno oggi ritirati dagli scaffali, oltre ad aver negato il proprio benestare alla pubblicazione di Vanessavirus. Libro, quest’ultimo, che l’autore stesso, ormai anziano e malato, descrive come il suo canto del cigno, cento pagine pubblicate a sue spese, nella forma di un samizdat, che hanno visto la luce sugli scogli deserti della costa ligure, a Bordighera.

Con un passaggio di Vanessavirus, Matzneff sembra rispondere direttamente alla domanda “Che cos’è una vibrazione?” rivolta dal Jep Gambardella de La grande bellezza alla performer da lui intervistata. “La scrittura è vibrazione. Lo stile è essere sé stesso in modo innocente”, afferma oggi l’autore francese, in un tempo in cui anche lo stile letterario deve fare i conti con l’assolutismo politicalcorrettista. Ma in letteratura, e più ampiamente nell’arte, non c’è spazio per la morale, lo sottolineava già a suo tempo Vladimir Nabokov, che in tempi postmoderni avrebbe ricevuto un secco rifiuto editoriale, privando le nostre librerie della sua opera più nota, Lolita, pubblicato in prima edizione, nel 1955, proprio nella Parigi che oggi grida allo scandalo per il recente “affaire Matzneff”. Ed insieme alla storia del professor Humbert Humbert e della ninfetta Lolita, avremmo dovuto privarci della lettura di Un amore di Dino Buzzati o rinunciare alla visione di American Beauty di Sam Mendes, dove una conturbante e adolescente Mena Suvari fa perdere la testa a un padre di famiglia di mezza età interpretato da Kevin Spacey. E così via per molte altre opere in cui a far da protagonista è una storia di «ninfolessia», per citare un termine utilizzato da Roberto Calasso nel suo saggio La follia che viene dalle Ninfe. In cui ancora scrive il patron di Adelphi:

“La bigotteria e l’incapacità di capire di che cosa è fatta la letteratura sono quantità che non decrescono mai, anzi tendono a un graduale, subdolo incremento. C’è anche un modo per misurarlo, questo incremento: dal proliferare di quella sinistra specie di persone che non sanno distinguere fra rappresentazione e ingiunzione – e di conseguenza leggerebbero Delitto e castigo come un manuale di istruzioni per assassinare donne vecchie e sole. A questo punto viene spontanea una domanda: anche se Lolita ormai si legge nelle scuole, è proprio sicuro che in questi quarant’anni si sia finalmente accertato di che cosa parla il libro? Molti sono i dubbi”.

E oggi, rileggere un’opera con parametri culturali totalmente diversi da quelli di ieri e pretenderne la censura risulta oltremodo patetico, come dimostra il caso Matzneff. Quello di democratizzare la letteratura – per presunto razzismo, omofobia, misoginia o altro ancora – è nient’altro che un pietoso tentativo di condanna artistica, laddove l’arte invoca disperatamente autonomia.

L’arte è infatti “politicamente scorretta” per sua intrinseca natura, è come una jam session di tormento, estasi, turbamento, epifania, riprovazione e indulgenza, altrimenti si riduce a un monocorde impegno sociale.

“L’arte è un bastian contrario che spira sempre dal lato sbagliato; è ambivalente, dà ragione a chi ha torto e torto a chi ha ragione. […]L’arte non può non avere a che fare con la vita, né può esimersi dalla responsabilità del bene e del male che provoca, non può godere di alcun salvacondotto”.

Così scrive Walter Siti nel suo recente pamphlet, Contro l’impegno, critica severa ed acuta della deriva in cui è stata trascinata la letteratura contemporanea – stucchevolmente éngagee – ridotta a “farmacia letteraria” dai nuovi censori (di credo progressista) che agiscono con finalità pedagogica per evitare che la letteratura stessa abbia un harmful impact, un impatto dannoso, sulle menti dei lettori.

Il caso Matzeff non è ovviamente un unicum. Basti pensare allo stigma sociale abbattutosi oltreoceano sulla testa di Woody Allen per la sua relazione con Soon-Yi Previn – che all’epoca del loro primo approccio aveva diciannove anni, trentacinque in meno del regista newyorkese – a cui l’efferato mondo liberal hollywoodiano ha stroncato la carriera e la reputazione, rendendo off-limits i suoi film alla grande distribuzione statunitense. Allen come Matzneff si è altresì scontrato con una dura viltà editoriale, quando nel 2020 la publisher Hachette ha cancellato all’ultimo momento la pubblicazione della sua autobiografia, Apropos of nothing, pubblicato in Italia con il titolo A proposito di niente (da La nave di Teseo).

Ancora un caso in un cui il pol. corr. si è dimostrato corrosivo della libertà artistica, sviscerando quell’ottusità che non consente di guardare oltre la punta del proprio naso, quella singolare povertà di vedute che non permette di differenziare l’autore dalla sua opera, di godere della visione di Manhattan o Io e Annie senza gli occhi del giudicante morale della vita del cineasta.

La tragicomicità postmoderna di tali situazioni si sostanzia soprattutto nelle modalità con cui vengono affrontate. La “correttezza” invocata viene infatti intimata con dimostrazioni violente – vedasi nel caso Matzneff le minacce di morte o le manifestazioni sotto il suo domicilio – in cui la lucidità del pensiero evapora e i trasmettitori del buonsenso vanno in tilt. E se la rappresentazione (artistica) è ben lontana dall’ingiunzione, il pol. corr. va invece a braccetto con l’indottrinamento più feroce, non privo di una patina di ridicolo, come ben compreso dagli ideatori della dissacrante serie televisiva animata statunitense Southpark, che già nel 2015 – nella patria del politically correct – introducevano la figura di PC, preside della scuola elementare, che per insegnare agli studenti ad essere più corretti politicamente, ricorre a misure violente e punitive.

Ma in campo letterario, visto che, a seconda dei periodi storici, tutto può irritare ed indignare, per riprendere le parole di Siti,

“Ancora una volta, che fare? Dar ragione a Platone ed escludere gli scrittori dalla Repubblica?”.

Quante strade deve quindi percorrere, oggi, un autore, prima che la sua opera venga letta per ciò che è, pura rappresentazione e non mera ingiunzione?

The answer is blowin’ in the wind.

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