Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione. Come dare torto a Leo Longanesi? Siamo un popolo di santi, poeti e taglianastri. Solo così si spiegano 66 esecutivi in 75 anni di storia repubblicana. Questo feticismo per le inaugurazioni, per i nuovi inizi, per i debutti e le première è una tara antropologica tutta italiana, o semplicemente un bias cognitivo che ci porta a vedere nella novità la salvezza. Politicamente, l’inaugurazione – di un nuovo governo, di una nuova coalizione, di una riconfigurazione della maggioranza – si rivela sempre una strategia efficacissima in situazioni di crisi per mandare a monte la partita senza che nessuno venga messo dietro al banco degli imputati, prendendosi così le proprie responsabilità. Siamo un Paese che se ama i processi è solo per amore del gossip, mentre invece detesta i verdetti – perché gli italiani sanno che un verdetto non pende sulla loro testa solo per una questione di fortuna, e poi perché ogni sentenza è una decisione incondizionata, imperativa, e gli italiani preferiscono sempre l’uso del condizionale. In pratica, non sopportiamo il potere, l’esistenza stessa del potere. Governarci non è difficile, diceva Mussolini, ma inutile. L’unico modo per governare l’Italia, dunque, è sempre stato quello di non governarla. Ecco il motivo per cui non abbiamo mai fatto la rivoluzione. In questo Paese dove nulla è stabile fuorché il provvisorio, è il potere ad essere rivoluzionario, a rimpastarsi, mascherarsi, travestirsi, inaugurandosi sempre sotto una forma nuova. Non c’è il tempo materiale per scendere in piazza che già sì è votata la fiducia a un nuovo esecutivo. In questa discontinuità, in questo stato di rivoluzione permanente si nasconde la vera continuità del potere.
Un tema, questo, su cui il Gattopardo aveva già detto tutto, ma su cui qualche giorno fa si è espresso anche Giuliano Ferrara, dalle colonne del «Foglio», valutando l’ipotesi Draghi. Ferrara loda la transumanza politica dei partiti verso un centro guidato dall’ex Presidente della Bce come una forma di trasformismo buono, necessario, superlativo addirittura, confermando la tesi secondo cui, appunto, l’unico modo per garantire la stabilità del Paese è l’instabilità, non solo consentita ma anche caldeggiata da una Costituzione capace di flettere il sistema repubblicano senza mai romperlo. Ed in effetti è proprio ciò che accade, è il motivo per cui molti membri della nostra classe dirigente, malgrado gli errori, le incapacità e le incompetenze dimostrate, riescono sempre ad avere seconde, terze e quarte vite all’interno delle istituzioni o negli apparati limitrofi. Nessun principio di responsabilità viene mai fatto valere per giudicare il loro operato. Perché? Perché oltre ad avere indetto un gioco dei quattro cantoni con quattro sedie a disposizione, dove tutti trovano posto a sedere malgrado giri e rigiri, i nostri politici non hanno mai davvero operato – se non con delle riforme a metà, dei decreti zoppi, delle leggi mutilate, delle nomine abborracciate in vista di non scontentare tutte quelle migliaia di centrali di potere presenti sul suolo nazionale e internazionale che esercitano costantemente un’influenza politica pur non essendo mai riconducibili direttamente alla politica. In Italia, infatti, chiunque venga investito del comando si sbriga nell’affermare di non detenerlo, dà prova immediata di non avere alcun margine decisionale, confessa subito la sua estraneità alle funzioni che pure il suo ufficio ricopre – con la formula “non è di mia competenza”, altra bandiera nazionale – e si dichiara ostaggio di un diverso e imprecisato potere collaterale, limitandosi a svolgere un ruolo di opposizione anche quando ha la maggioranza o il potere effettivo. Il decisionismo, in senso schmittiano, è una filosofia politica sconosciuta in Italia, se non addirittura criminale in un Paese che non ammette sentenze definitive, e che si è visto costretto, persino in un innocuo gioco da tavola come la tombola, a inventare il tombolino e la tombolaccia per accontentare il maggior numero possibile di giocatori. Se tolleriamo questo sistema è perché abbiamo una fobia atavica e pregiudiziale verso il potere, a cui preferiamo, pur di non sentirci governati, il vuoto politico, o quella sterminata galassia di piccoli poteri, che sono appunto la negazione stessa del potere e che rappresentano l’inferno in terra. Ma per noi italiani, come diceva Flaiano, l’inferno è quel posto in cui «con i diavoli ci si può sempre mettere d’accordo». E quando succede che un’inaugurazione venga legittimata dall’arrivo di un qualche uomo della Provvidenza, un salvatore della Patria estratto a sorte, ci ripromettiamo di farci governare solo per sconfessare nuovamente questa possibilità. Infatti, non appena i più audaci, e quindi i più ingenui, si fanno prendere dall’estasi del potere e cominciano ad esercitarlo, vengono deposti. I più astuti, invece, quelli che capiscono il complesso meccanismo di rivoluzione e stabilizzazione del potere, si decidono a governare il meno possibile, e cominciano a muoversi all’ombra del potere “nominale”, limitandosi a praticare i giochi di Palazzo per mantenere il più a lungo possibile una carica, non importa quale, nelle istituzioni. Pur non potendo o meglio non volendo, per istinto di sopravvivenza, esercitare le facoltà attinenti al loro incarico, da lì esercitano poteri “effettivi” secondari, di influenza, di raccomandazione, di spostamento degli assi politici, di favoreggiamento e di dissimulazione: tutte attività per le quali non verranno mai giudicati politicamente. Tra gli scenari possibili allora, al di là di quelli ipotizzati dagli ottimisti e dai catastrofisti, il più plausibile è quello immaginato da Cacciari, che come un orologio fermo azzecca l’ora giusta almeno due volte al giorno (peccato però che guardi l’orologio sempre troppo tardi), secondo cui Draghi, alla pari dei suoi predecessori, non riuscirà a fare nessuna delle cose di cui il Paese ha realmente bisogno. E proprio per questo motivo anche Ferrara ha la sua parte di ragione: Draghi sarà un colpo di spazzola, una tregua istituzionale che consentirà il riassestamento del sistema dopo lo scossone populista, suggellando la definitiva sconfitta dei tentativi – legittimi, sacrosanti, totalmente inadeguati – di rivoluzionare un Parlamento che già da tempo aveva fatto della rivoluzione il suo habitat prediletto, il suo brodo primordiale.
Ad ogni modo questi pronostici continuano a guardare il dito senza mettere a fuoco la luna, ossia il fatto che in un Paese dove il potere nominale non coincide con il potere effettivo, frammentato in mille centri che se lo spartiscono nel dietro le quinte della politica, e dove la strategia del trasformismo del primo viene applicata solo per garantire la continuità nell’esercizio del secondo, sarà sempre più difficile elaborare una visione del Paese sul lungo periodo, specie adesso che il Recovery Fund ci impone di adottarne una. Inoltre, un trasformismo che non preveda anche il riciclo della sua classe dirigente, e quindi un trasformismo che si limiti a travestitismo, senza però modificare veramente gli assetti e ampliare i margini di decisione della politica, né stabilire dei meccanismi efficaci di cooptazione di nuovi e più preparati soggetti nell’esercizio di quel poco di potere che è possibile maneggiare, genera un’asfissia in seno alla classe dirigente stessa. Insomma anche il trasformismo incensato da Ferrara non prevede dei reali processi di rinnovamento. Perciò, se vogliamo che questo Paese cambi (ma in fin dei conti nessuno lo vuole davvero) dobbiamo fare in modo che il potere abbia davvero il potere, e sia responsabile di ogni sua azione. Se non possiamo chiamarla democrazia, che almeno si possa avere un’élite come si deve, pronta a rispondere delle sue decisioni, che almeno si abbia un re, affinché, qualora fosse necessario, gli si possa tagliare la testa.