Per gli Houellebecq lovers il conto alla rovescia è iniziato. Il 7 gennaio, in sincronia con l’Italia, uscirà in Francia il suo nuovo romanzo, circa settecento pagine di pulsante materiale umano, dal titolo ancora ignoto. La casa editrice Flammarion, per l’occasione, ha dato alle stampe le sue opere precedenti e l’autore stesso – generalmente restio a comparire in pubblico – ha recentemente portato in scena lo spettacolo “Existence à basse altitude” – definito come un incontro accidentale fra notte e poesia – nel buio fumoso d’un locale parigino, il Rex club, come racconta Le Figaro, durante il quale lo scrittore ha declamato parte dei suoi versi, insieme ad un ristretto nucleo di amici.
Il titolo dell’esibizione, “Esistenza a bassa quota”, accende infatti negli animi di chi ha amoreggiato con Michel fin dalla prima ora una piccola vampata di calore, un venereo sussulto, un epidermico fremito.
“Esistenza a bassa quota,
Movimenti lenti di un bulldozer;
Ho vissuto un breve interludio
Nel caffè ad un tratto deserto”
Sono alcuni versi tratti da Mezzogiorno, una delle poesie composte da MH nei primi anni Novanta (in italiano raccolte da Bompiani ne La vita è rara. Tutte le poesie) e la cui lettura segue i tempi d’un lento déshabiller, alla fine del quale ci si ritrova nudi, come vermi, miseri e abietti, ma vivi.
Michel Houellebecq è infatti uno scrittore poligrafo, un esploratore letterario che ha flirtato negli anni con diversi generi – poesia, romanzo, saggio – ma senza mai abbandonare, anche nella prosa, la vena rigonfia di quella poesia priva di formalismo, composta da versi regolari e lapidari, affilati, di cui si serve per raccontare l’agonia dell’uomo contemporaneo, che fluttua in uno spazio desolato e freddo come un parcheggio di periferia in piena notte.
Esordisce infatti in veste di poeta e noi, suoi addicted, inebriati dalle parole di questo vecchio francese tabagista e scarmigliato, dalle carni ormai avvizzite, che frammischia come in un sapiente gioco di seduzione capitalismo e amore, liberalismo ed edonismo, reale ed ideale, sesso e depressione, riconosciamo in lui il cantore delle nostre bassezze, ci avvinghiamo alle sue imperfezioni stilistiche per lenire le nostre piaghe in suppurazione, la nostra carne sanguinante come i suoi versi.
“Un poeta morto non scrive più. Di qui l’importanza di essere vivi. Detto ciò, sopravvivere è estremamente difficile. Si potrà pensare ad adottare una strategia alla Pessoa: trovare un piccolo impiego, non pubblicare nulla, attendere tranquillamente la morte. […] Sarà difficile evitare l’alcool. Alla fine l’amarezza e l’acrimonia faranno la loro comparsa, presto seguite dall’apatia e dalla sterilità creatrice completa. Invece, il soggiorno prolungato in un ospedale psichiatrico è da evitare: troppo distruttore. Lo si utilizzerà soltanto come ultima risorsa, come alternativa alla trasformazione in barbone”
Asserisce lui, mentre noi aneliamo – soprattutto in vista del suo nuovo romanzo – al ritorno dello Houellebecq poeta, allo stesso modo in cui si attende il ritorno d’un antico amante, d’un corpo di cui si conosce ogni geografia.
Ma la poesia di monsieur Houellebecq non ha quasi nulla di “poetico”, è composta da percorsi urbani e deprimenti, costellati dalla presenza degli esseri umani che si incrociano durante i giorni lividi e tumefatti delle grandi città – le cosce delle segretarie, il riso dei burocrati, i cafoni in tiro che vagano fra i grossi congelatori degli ipermercati – l’umanità vuota e interscambiabile che colonizza strade e mezzi pubblici, scivolando di fallimento in fallimento come da una fermata all’altra del metrò, visioni che trasudano alienazione sessuale, serate di sudore e pentimento, disprezzo di sé, antagonismo fra piacere e desiderio, sesso bruciante, profumi femminili, orgasmici scambi e infine amore, come unica soluzione alla necrosi dell’esistenza moderna.
Il lettore medio di Houellebecq è infatti un animale urbanizzato, tendenzialmente individualista, che ama la dispersiva solitudine metropolitana, ripudia gli eccessi del sistema liberale e sguazza nelle dinamiche del capitalismo come un maiale nella melma. Ama mentire a se stesso, si professa amante di profonde immersioni nei recessi della natura – e per tale intende i giardini della tenuta di campagna a due ore di autostrada da casa – ma in realtà trova detestabile trascorrere più di un lungo weekend in un luogo in cui non passano i taxi, dove “sovrumani silenzi e profondissima quiete” assordano in tutta la loro brutalità e gli insetti spadroneggiano nell’aria. L’urbanizzato è infatti – come Houellebecq stesso, che ne smorza le ipocrisie – un individuo ammalato di realismo, sa perfettamente che il contatto con la natura non libera dall’angoscia se non per brevi momenti, ha un animo leopardiano e coglie perfettamente la crudele indifferenza della natura nei confronti della sofferenza dell’essere umano e sa che questa, se può, rincara anche sgradevolmente la dose di inquietudine.
“Non invidio quegli enfatici imbecilli
Che vanno in estasi davanti alla tana di un coniglio
Poiché la natura è brutta, noiosa e ostile;
Non ha alcun messaggio da trasmettere agli uomini”.
La natura, per MH, non trova spazio nell’era postmoderna, se non fra le rive dell’infanzia, non ancora intorbidate dalla fanghiglia dell’età adulta. “Si può essere felici al di là dei tredici anni?” si chiede. Probabilmente no, non è possibile.
Leggere Houellebecq poeta significa esattamente volare a bassa quota, non puntare in alto, ad astruse e ambiziose ricerche di conoscenza, verità o celata bellezza ma restare ancorati a una realtà rozza e rassicurante nella sua laidezza, con la sua barbarie, mettere il dito nella piaga della società e premere forte, comprendere il senso della lotta, in attesa di una morte dolce e profonda, andare in fondo all’abisso, uscirne perdenti ma restare vivi.
Michel Houellebecq è l’ultimo dei romantici – le sue opere ne sono la piena evidenza – si muove contemporaneamente in un altrove e nello spazio presente, fra sordido ed etereo, lirismo e carnalità, la sua poetica è viscosa, rifugge la liquidità dell’era moderna, vive di dissociazioni nitidamente reali. “Il corpo è dissociato. Si compone di organi. / Il mondo è dissociato. Si compone di individui. / Tutto è dissociato. Tutto sanguina”.
Non è uno scrittore fluido e pertanto è inviso ai moderni in quanto poeta – emblema della virilità – che non fugge pavidamente l’esistenza contemporanea ma ricerca nella stessa, con sprezzante ironia, attimi di postmoderna evasione, come assaporare il piacere di piccole epifanie passeggiando fra le corsie di un supermercato.
“Giovani ragazze borghesi girano fra gli scaffali del Monoprix, eleganti e affamate di sesso come oche. Ci sono probabilmente anche degli uomini; la cosa non mi tocca più di tanto. È facile non immaginare più possibili parole fra sé e il resto dell’umanità, la vagina resta un’apertura. Salgo i piani, con il mio litro di rhum stretto in una busta di plastica. Mi distruggo, lo sento chiaramente; i miei denti crollano. Perché, poi, il mio sguardo fa fuggire le donne? Lo giudicano implorante, fanatico, collerico o perverso? Non lo so, non lo saprò probabilmente mai; ma questa è l’infelicità della mia vita”.
Quello per i supermercati è infatti un vero e proprio feticismo houellebecquiano – li definisce “quanto di più vicino al paradiso abbia costruito l’uomo” – presente fin dai tempi in cui, giovanissimo frequentatore dell’Agro, la facoltà per ingegneri agrari, trascorreva ore di vagabondaggio tra le forme di camembert dell’Auchan di Grignon. Come ricorda il suo vecchio compagno, Pierre Lamalattie: «La modernità per lui era principalmente incarnata dal nuovissimo centro commerciale Auchan. Gli piaceva molto andare a girovagarci. Credo che non comperasse granché, ma che ne apprezzasse l’atmosfera. Canticchiava talvolta degli slogan pubblicitari come “Auchan: la vita vera”».
Per il Baudelaire degli ipermercati, “la vita consiste – essenzialmente – nel grattarsi”, come fosse un continuo, urticante prurito, provocato principalmente dal desiderio, più o meno vivo, ma sempre presente, in costante lotta con quel “grosso cane affettuoso” chiamato ragione, un desiderio che l’uomo moderno ha trasformato sempre più in ingannevoli spazi di libertà, pretendendo di conquistare diritti a suon di ridicoli piagnistei. Ed è proprio in quello spazio di troppa libertà, nell’improvvisa intuizione di una libertà senza conseguenze, che la parabola del desiderio impazzisce, lasciando esondare tutte le sue contraddizioni, soprattutto, secondo Houellebecq, nell’uomo maturo, individuo non più desiderabile, che non ha più diritto di desiderare e vive principalmente di frustrazione sessuale.
“Molti problemi di questa fine millennio derivano da un rispetto esagerato della libertà individuale che comporta un’incapacità di prendere una qualsiasi posizione morale. E non posso attribuire alla parola libertà un senso che non sia negativo, nella misura in cui non faccio chiara differenza tra libertà e licenza”.
Così dichiara durante un’intervista, alla fine degli anni Novanta, lo scrittore che ad un vizio snobisticamente ostentato ha sempre preferito l’onestà di una trasgressione, della vertigine che nell’era contemporanea potrebbe anche essere rappresentata da quell’amore che esiste, in mezzo al tempo, come la possibilità di un’isola.