Incontriamo il presidente De Rita in una giornata di un gennaio dal sapore asciutto e plumbeo, sorvegliati da nuvole meste ed esauste che costeggiano le architetture di Piazza di Novella. La palazzina del Censis, si presenta come una roccaforte della riflessione e dell’analisi, che ci ricorda scenari hessiani, tanto che sembra costruita appositamente per sviluppare il pensiero e l’analisi. La sede del Centro Studi Investimenti Sociali è, infatti, lo studio principale del presidente Giuseppe De Rita, uomo affabile e attentissimo, cordiale e schietto, che lì passa le sue giornate consultando carte, schede e rapporti, meditando con scrupolo sui principali cambiamenti che stanno investendo la società italiana, come un “osservatore impegnato” perennemente focalizzato sul carnevale italiano. Di cui sa cogliere maschere, cerimonie, parate, guizzi e vanità. Se si vogliono conoscere le vere sismografie e fibrillazioni della società italiana, non si può, del resto, non leggere e non guardare all’opera e all’attività di Giuseppe De Rita, tra i maggiori civil servant, sociologi e rabdomanti del nostro paese.
Grande esponente di quella silenziocrazia italiana (ben studiata da Luigi Tivelli nel suo splendido “I segreti del Potere. Le voci del silenzio” di cui De Rita è uno dei migliori protagonisti) e ricercatore sociale tra i più acuti, capace di auscultare le mutazioni e fibrillazioni delle tante oligarchie italiane: De Rita è il maggior conoscitore della fenomenologia delle fisiologie e patologie della società italiana. Un maestro di pensiero e metodo che nella sua attività di fondatore e presidente del Censis (oltre che di presidente del CNEL dal 1989 al 2000) ha raccontato e mostrato come nessun altro il nostro Paese tramite le considerazioni generali dei suoi rapporti Censis oltre che tramite testi straordinari (da ultimo “Oligarca per caso” edito Solferino, scritto con Lorenzo Salvia). Formatosi nella Svimez di Saraceno e Sebregondi, De Rita è cresciuto nello studio della cultura cattolica, del miglior meridionalismo, del cristianesimo sociale. Svolgendo un ruolo cruciale nell’analizzare le tante evoluzioni della società italiana a cui ha saputo dare nomi e chiavi epocali riassunte in formidabili e definitivi neologismi. Nonostante però il suo straordinario lavoro De Rita è rimasto però un uomo con il senso delle cose e dell’uomo, un maestro saggio e lucido che si è accostato alla realtà con umiltà, lucidità e acume.
Dotato di asciutta sobrietà, non ha mai dimenticato la sua formazione “plebea”, anche se mai nessuno come lui ha saputo essere, per tatto, educazione e intelligenza, un vero oligarca. Un cultore dell’orizzontalità, delle distinzioni, della complessità. Mentre lo incontriamo riflettiamo sulle sue opere più acute in cui ha indagato il presentismo e l’economia sommersa, la mediocrazia e la società dei comportamenti e non possiamo non concludere di trovarci di fronte a un grande testimone del secolo e del paese, che ci ha aiutato a capire e a capirci. Indagando la vita sociale italiana attraverso i criteri dell’orizzontalità e delle logiche bottom up, “dappertutto e rasoterra”.
-Che cos’è un oligarchia e quale è il significato delle oligarchie?
Oggi parlare del ruolo delle “oligarchie” e del termine “oligarca” è molto più pericoloso rispetto al passato. Anche perché tale termine viene oggi associato oggi al dominio dei più ricchi e alle figure chiave dell’amministrazione Trump. C’è, infatti, un’ondata di opinione giornalistica e televisiva che tende a demonizzare e colpevolizzare le oligarchie, considerandole in maniera ostile. Io credo che una società complessa abbia, invece, bisogno di oligarchi e di oligarchie per gestire e pensare l’esistente nell’interesse comune. Anche se ho una visione diversa del ruolo e del significato delle oligarchie ben diversa. Non quindi fondato sul privilegio, sulla verticalità della ricchezza, bensì sulla orizzontalità, sulla fiducia, su alcuni valori comuni. Anche se oggi parlare di ciò è diventato profondamente complicato. Qui bisogna intendersi. Oggi, se dici oligarca, pensi subito a Musk o ai russi. Invece l’oligarca può avere un ruolo positivo, anzi fondamentale in una società disordinata e frammentata come quella moderna. L’oligarca ha un tessuto di potere che non dipende da un mandato verticale che cala dall’alto: quello è il gerarca, il cui potere finisce quando cade il suo dante causa. Il potere dell’oligarca sta nella capacità di tessere rapporti in linea orizzontale con quelle cento-duecento persone che in un sistema complesso possono sì regolare singole materie ma hanno sempre il bisogno di confrontarsi con gli altri. È uno schema con una lunga storia alle spalle e che ancora oggi ha la sua validità.
-Quale è l’ambiente familiare in cui è cresciuto e che aspirazioni avevano per lei?
Il mio ambiente voleva avviarmi verso una vita semplice, tranquilla, facendo di me un impiegato pubblico. Pensate che quando andai in Svimez mia madre pianse per due notti perché rinunciavo ad andare a lavorare al Comune di Roma di cui avevo vinto il concorso.
-Non la presero molto bene…
Ricordo che mi fecero chiamare da un funzionario per farmi cambiare idea e lui, tentando di convincermi, mi disse: “ ma guarda che tu a 55 anni, con questi inizi, potresti diventare vicecapo di dipartimento”. Una frase che mi fece capire ancora una volta che quella non era la mia strada.
-Che famiglia erano i De Rita?
Mia madre Maria era venuta a Roma da Pontecorvo, in provincia di Frosinone, dopo aver vinto nel 1929 il concorso del Governatorato come maestra elementare. Mio padre Raffaele la raggiunse poco dopo e trovò lavoro come cassiere al Banco di Santo Spirito. Io sono nato nel 1932, mio fratello Massimo due anni più tardi. Ai miei genitori ho voluto naturalmente un gran bene ma devo riconoscere che la nostra era un’estrazione piccolo borghese, da ceto medio senza troppe ambizioni. Avevamo una propensione a volare basso che ho mantenuto nella prima fase della mia vita.
-E come era il giovane De Rita tra i 15 e i 19 anni?
Non avevo alcuna vocazione intellettuale o professionale, non sapevo cosa fare da grande. La mia famiglia era di buona estrazione sociale ma la verità è che nei fatti, nei comportamenti, ero legato al mondo delle mie amicizie giovanili dell’Alberata. Poi con Sermoneta tutto cambiò.
-Come eravate lei ed i ragazzi dell’Alberata che frequentava?
Eravamo plebe.
-E cosa le ha lasciato questa adolescenza “plebea”?
Fu la mia scuola caratteriale. Il mondo dell’Alberata mi formò tanto sul carattere, anche se dopo i 19 anni la mia vita cambiò. Di quell’esperienza, tuttavia, mi sono rimaste due cose utili. La prima è una certa vocazione a saper essere plebei quando serve, a «mettere una cianghetta» quando il gioco si fa duro. La seconda, più importante, è la consapevolezza che ci si può menare quanto si vuole ma non si deve mai rompere in modo definitivo la relazione con gli altri. All’Alberata abbiamo fatto delle scazzottate spaventose ma il gruppo non è mai stato messo in discussione. Forse era anche l’atmosfera del dopoguerra, si aveva voglia di costruire più che di sfasciare.
-Che differenza c’è tra le plebi di ieri e quelle digitali di oggi?
Una delle cose peggiori del plebeismo di oggi è hanno cancellato in modo definitivo il valore della relazione. Noi eravamo plebi fisiche temprate dall’interazione, dall’istinto, da rapporti veri, quotidiani e costanti. Oggi il plebeo digitale è invece isolato, seppur interconnesso, e spesso gli manca proprio quella fisicità che è la vera scuola del carattere.
-A proposito dell’esperienza di Sermoneta, che ricordo ha di quella esperienza e che significato ebbe per lei?
La mia nuova vita cominciò proprio in quel 1951 con un misterioso «Corso di educazione civica» organizzato a Sermoneta da un altrettanto misterioso Movimento di collaborazione civica, Mcc. Allora non sapevo nemmeno cosa significasse quella sigla ma avrei imparato presto che era nata subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, come movimento di opinione a opera di un gruppo di antifascisti, prevalentemente di radice azionista.
-Come entrò in quel progetto?
Avevo diciannove anni, e Sermoneta fu la mia prima grande scuola. Io ero stato “reclutato” dal mio professore di storia del Tasso. Quelli del Movimento di collaborazione civica erano in contatto con i docenti di storia e filosofia delle migliori scuole di Roma. Ma il vero motore di tutto era Cecrope Barilli, educatore, poeta, animatore sociale. Cecrope come suo nonno e come il primo re di Atene. Una persona straordinaria. Verso di lui porto ancora oggi una enorme riconoscenza per avermi insegnato a vivere e (se mi si lascia passare un po’ di enfasi) a essere. Oggi posso dire con sicurezza che senza Cecrope la mia vita sarebbe stata diversa, forse più povera, sicuramente più triste. Fu il passaggio dal mondo dell’Alberata, della comitiva, della mia esperienza familiare con le sue modeste aspirazioni e l’entrata in una nuova vita. Lì nacque il mio imprinting oligarchico, la mia educazione oligarchica e soprattutto lì conobbi mia moglie.
-Quello di Sermoneta fu uno dei primi tentativi oligarchici per l’Italia dopo la guerra?
Si, anche perché quel convivio fu creato con l’intento di costruire una classe intellettuale e oligarchica per l’Italia antifascista. Per capire meglio lo spirito di queste regole e la visione del mondo che c’era dietro, è utile ricordare le varie anime che convivevano nel Movimento di collaborazione civica.
-Ovvero?
L’atto costitutivo venne firmato da un gruppo di persone messe insieme da Leopoldo Piccardi, già presidente del Consiglio di Stato, poi ministro del governo Badoglio; uomo di grande o presunta potenza massonica. Su tredici fondatori ben otto erano donne e già questo fa capire quanto fossero avanti rispetto ai tempi. Erano tutte persone di cultura alta ma con un’estrazione variegata. Oltre alla principessa Margherita Caetani, la proprietaria del castello di Sermoneta, c’era ad esempio il cattocomunista Franco Rodano, ascoltato consigliere di Palmiro Togliatti, Maria Luisa Valier Paronetto, moglie del grande Sergio Paronetto, che in seguito sarebbe stata a lungo direttrice dell’Unesco a Roma, Guido Gonella, che già allora stava scrivendo il programma politico della Dc. E ancora intellettuali laici come Ada Gobetti, Giulio Macchi. La composizione del Movimento e lo spirito dei loro corsi fanno capire come si trattasse di un’operazione para-azionista, se vogliamo usare termini italiani. Di un’operazione oligarchica, se invece vogliamo usare termini anglosassoni.
-Fu un ottimo tentativo di creare una nuova classe dirigente. Qualcosa di estremamente attuale…
Certamente. Quei gruppi che nacquero a ridosso della fine della guerra, come quello di Sermoneta, avevano obiettivi squisitamente e sanamente oligarchici. Da una parte decisero di defascistizzare la cultura italiana, creando un gruppo di intellettuali e scrittori di stampo liberaldemocratico. Dall’altra si proposero di formare i giovani italiani alla democrazia e alla partecipazione sociale, per far crescere una nuova classe dirigente. Insomma, quella classe dirigente la cui mancanza ancora oggi è il mio pallino.
Oggi l’Italia, infatti, non ha un vero tessuto oligarchico: non ve ne sono tracce nel sindacato, nel governo, nello Stato. Cioè manca proprio quella fascia medio-alta che, per molti versi, era stata costruita o dalla grande industria o dalla burocrazia romana. Oggi non c’è più nessuna delle due cose e se ne vedono le conseguenze…
-Che ruolo ebbe nella sua vita la figura di Sebregondi?
Ho scritto molto su di lui e grande è il mio debito nei suoi confronti. Lui mi ha assunto in SVIMEZ e successivamente mi ha fatto partecipe di una cultura oligarchica vera, quella di Saraceno, Giordani e nata con Beneduce. Da lui ho imparato soprattutto la mia concezione del primato della società sullo stato e la natura autopropulsiva delle società moderne. Sebregondi forse non era un oligarca, ma era un grande intellettuale e tutto quello che so l’ho appreso da lui.
-Nel suo libro “Oligarca per caso” dice che oggi non riprenderebbe quell’entusiasmo sui diritti individuali che permeavano i primi rapporti Censis. Perché?
Non sono mai stato un sessantottino o un pannelliano, ma lo ammetto: a quei tempi il tema dei diritti individuali mi entusiasmava. Si sentiva la necessità di raccontare la tensione che vivevamo, si cercava di ampliare la dimensione individuale. Questo ci fece accusare di essere rivoluzionari ma non lo eravamo affatto. Specie io. Tanto che mi definirono “autonomo bianco”… Figuratevi. Eravamo tutt’altro. In realtà eravamo dei fenomenologi non degli ideologi. Per rispondere alla domanda, credo che oggi lo riprenderei in maniera critica anche perché, alla lunga, insistere su quel tasto ha portato allo svilimento delle norme, a una tendenza per cui tutto è dovuto; non ci preoccupiamo di niente e tutto va bene così. Ho ritrovato qualche tempo fa questa frase di Giacomo Leopardi: «Sì, la vera legge naturale è che ciascun uomo vivente faccia tutto per sé, il più forte sovrasti il più debole e si goda quel di costui». Altri tempi, certo. Ma questo soggettivismo a oltranza ci ha portato all’eccesso, al fatto che gruppi più o meno ristretti possano avere più diritti ed essere più potenti dell’intera collettività. Oggi scriverei un rapporto ben diverso…
-Rileggendo le considerazioni generali ci si trova di fronte ad un grande saggio sull’Italia e sulle sue fibrillazioni e evoluzioni sociali. Che Italia era quella delle saghe dell’economia sommersa e della cetomedizzazione?
Un’Italia estremamente vitale.
-Come la conobbe e raccontò?
Subito dopo la prima fase sull’enfasi individuale, quasi una forma di autocoscienza collettiva, arrivò l’epopea dell’economia sommersa e del localismo, con i Rapporti che vanno dal 1969 al 1972. A quel punto lasciammo la dimensione individualistica della vitalità e andammo verso la dimensione locale e collettiva; in parte perché eravamo agganciati al Cnel e quindi di una dimensione collettiva dovevamo dar conto, ma anche perché la dimensione individuale non sembrava più sufficiente per spiegare tutto. Visto adesso, il passaggio sembra scontato, ma non fu per niente facile spostarsi dalla liberazione delle energie individuali alla vitalità del localismo pratese, fabrianese o sassolese. Significava cambiare punto di vista, passare da una logica che poteva sembrare gruppettara a un approccio quasi da economia aziendale.
-Come ebbe inizio questa fase?
Cominciò nel ‘68 con una ricerca che andammo a fare a Prato, dove il direttore dell’Associazione industriali era Alberto Parenti, mio amico dei tempi di Sermoneta, che per un po’ aveva lavorato anche con noi al Censis. Lì scoprimmo – analizzando sul campo il sistema Prato – che non c’era solo una crisi congiunturale del tessile, ma l’esplosione di una vitalità di una società che voleva arricchirsi con metodi diversi e spregiudicati anche. Un fenomeno che non era solo di Prato, ma che caratterizzava buona parte dell’economia nazionale. Una dimensione autonoma e spontanea che riguardava evasioni, doppi lavori, elusioni fiscali, inquinamento ambientale, nuovi metodi di impresa che sfuggivano alle statistiche e analisi ufficiali. Una realtà nuova che andava esplorata e capìta, anche perché nei momenti di crisi l’Italia ricorre spesso all’economia sommersa. Pochi se ne resero conto in quel momento (tra cui Craxi) ma l’epopea dell’economia sommersa avviò gradualmente un ritorno all’individualismo, perché la piccola impresa ha le sue radici in una dimensione individuale. Dopo un lungo processo di cetomedizzazione della società italiana, con il depotenziamento dei livelli alti e l’innalzamento di quelli bassi, i Rapporti degli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta danno proprio il senso di questa dimensione, di una logica, di una vera e propria cultura individuale. Faccio riferimento all’esplosione del soggettivismo che ci portò, all’inizio degli anni Ottanta, a quella che definimmo «la società dei comportamenti»: un modello in cui le appartenenze, le strutture e le istituzioni venivano messe in grave crisi dalla forza dei comportamenti individuali e collettivi. Nasceva una sorta di individualismo protetto (o di autonomia nella sicurezza) che da una parte rivendicava la più ampia libertà nei comportamenti individuali e collettivi, mentre dall’altra chiedeva una totale protezione pubblica. Un qualcosa del tipo: “Voglio il secondo e il terzo lavoro in nero, ma comunque sotto l’ombrello della cassa integrazione e della non licenziabilità”.
È stata proprio la “società dei comportamenti” a mettere le basi per un fenomeno che forse solo ora vediamo in tutta la sua potenza: il forte Potere di condizionamento da parte delle ondate di opinione.
-Federico Fubini dice che la circolazione orizzontale è la cifra della sua ricerca.
Fubini ha capito quello che è il significato della mia indagine sul Paese e sulla società italiana. Ovvero la comprensione dell’orizzontalità.
-E quale è la conseguenza di questo approccio?
Che non si capisce il sistema sociale italiano studiando solo un settore, in quanto l’Italia – che è un sistema complesso – non può essere compresa verticalmente ma solo orizzontalmente. Una visione di sistema che considera la realtà come un insieme di diversi livelli orizzontali. Su tale consapevolezza passa il nodo principale per comprendere la complessità del sistema italiano.
-Quali sono i veri nodi della borghesia italiana e come li affrontò nei rapporti Censis?
Negli anni ‘60-’70 capimmo con il fenomeno della cetomedizzazione che la libertà individuale portava ad una tendenza a farsi ceto medio e non borghesia. L’operaio si faceva ceto medio, ma da questa mutazione non nasceva una vera nuova borghesia. Di quel primato del ceto medio tipico di quegli anni è figlia la nostra classe politica, non composta da borghesi, ma da membri di un ceto medio che però negli anni si è completamente impoverito sia economicamente che culturalmente. Negli anni ‘70, infatti, facemmo un comune lavoro sul ceto medio e sulla cetomedizzazione con Paolo Sylos Labini, e da quello spunto lui in quel periodo scrisse il suo “Saggio sulle classi sociali” (sulla fine delle classi, ripubblicato nel 2015 da Laterza), mentre noi ne facemmo oggetto dei nostri rapporti Censis. Però ci fu una persona che ci criticò entrambi: Pier Paolo Pasolini.
-Perché?
Perché ci disse che il consumismo e il ceto medio non avrebbero costruito una nuova borghesia, in quanto l’italiano non sarebbe mai diventato borghese dato che esso è intrinsecamente “piccolo borghese”. Per l’autore degli Scritti Corsari – al contrario di quella militare tedesca, di quella commerciale inglese e di quella amministrativa francese – la borghesia italiana non era una vera borghesia, ma solo una piccola borghesia di reddito medio alto con i suoi egoismi e le sue piccolezze. Secondo Pasolini tali trasformazioni avrebbero soltanto aggravato i veri vizi della nostra società. Con il senno di poi possiamo dire che fu una giusta obiezione… Il ceto medio, infatti, è rimasto tale. Non trasformandosi mai in una nuova borghesia, ma diventando solo un ceto medio con valori piccolo borghesi. La classe politica che è nata tra le elezioni del 2014 e la fine della scorsa legislatura è figlia di questa condizione. Oggi devo dire che un mio rammarico fu proprio il fatto di non aver visto quel ceto medio che avevo analizzato e raccontato arrivare ad essere una vera borghesia. Col tempo, infatti, i pochi borghesi rimasti hanno mollato la presa e si sono fatti borghigiani, lasciando la città e ritirandosi nel borgo (fisico e metaforico). Così facendo hanno finito per anteporre la qualità della vita all’impegno individuale e collettivo.
-Parlando dei rapporti Censis ci dica sinceramente: le manca scrivere le considerazioni generali?
Si, devo ammettere che mi manca. Mi mancano le riunioni di luglio per programmare le analisi sulle nuove fenomenologie dell’anno; gli appunti personali messi insieme d’estate nella mia casa di Courmayeur; la lettura in ottobre dei capitoli settoriali e dei risultati delle analisi programmate in luglio; la selezione dei temi fatta nelle due settimane di novembre in cui le Considerazioni generali prendevano la forma definitiva.
Mi manca, soprattutto, il processo mentale che portava a creare quella formula evocativa che sintetizzava in poche parole il senso di tutto il lavoro fatto. “Addio alla società semplice”, nel 1967, la prima della serie. “Nella fase del cespuglio”, nel 1978, durante gli Anni di piombo. “La società dei comportamenti”, nel 1981, forse la formula più azzeccata di sempre. “La rottura dell’invaso borghese”(1993), con la stagione di Mani pulite “Più borghigiani che borghesi” del 2003. Fino al 2016, con la “Cerniera rotta fra élite e popolo” che racconta non solo la fine dei corpi intermedi ma anche un’età del rancore e della nostalgia che ci accompagna ancora oggi. Per noi la realtà è fatta da una società autopropulsiva che si sviluppa dappertutto e rasoterra, senza essere guidata dall’alto. Alla fine questa è stata la vera costante di tutte le nostre analisi. Ma su questo punto è molto importante intendersi.
Il nostro obiettivo è stato sempre quello di leggere la realtà, interpretarla. Mai di provare a influenzarla. È vero che i Rapporti del Censis facevano opinione ma non abbiamo mai pensato di montare un’ondata d’opinione a nostro vantaggio. Anzi.
-Chi furono i grandi oligarchi italiani?
Un vero politico oligarca è stato sicuramente Ugo La Malfa. Durante il fascismo aveva lavorato alla Treccani per poi essere assunto da Mattioli in quel covo di antifascisti che era la Banca commerciale, dove diventò direttore dell’ufficio studi. Già questo è un indizio della sua cifra oligarchica, visto che Mattioli era il più importante fra i quattro componenti della missione che verso la fine della Seconda guerra mondiale andò negli Stati Uniti per gettare le basi della nuova Italia postfascista. La Malfa alle elezioni non andava oltre il 2-3 per cento ma con quella piccola percentuale doveva sobbarcarsi il compito di tenere la barra dritta sulla linea filo-atlantica dell’Italia. E tutto sommato ci è riuscito. Ha sempre fatto l’oligarca, anche da anziano la politica si rivolgeva a lui proprio perché aveva quella rete che in buona parte era stata di Cesare Merzagora.
-Chi la colpì delle oligarchie comuniste?
Gerardo Chiaromonte, il vero oligarca del Pci, il più intelligente di tutti i comunisti italiani, per la sua capacità di relazione. Dopo quella discussione sull’economia sommersa, che avevamo avuto all’inizio degli anni Settanta, ci conoscemmo meglio, diventammo amici, e capii quanto era importante il ruolo che aveva nel partito.Da Luciano Barca a Sergio Cofferati, tutti quelli che contavano erano amici di Gerardo. Gli altri potevano essere iscritti al Pci, magari deputati, forse gerarchi, ma l’oligarca di Botteghe Oscure era lui. Giorgio Napolitano aveva grandi sospetti su di me fino a quando gli dissi che ero amico di Gerardo. “Amico di Gerardo? Davvero?” A quel punto si aprì totalmente, perché anche Napolitano lo sentiva come un vero riferimento nell’oligarchia italiana.
-Quali sono le oligarchie pubbliche nel nostro Paese?
Dal punto di vista strettamente oligarchico, ci sono due specifiche categorie di alti funzionari dello Stato che hanno tenuto bene nel corso degli anni. La prima è quella dei direttori generali del Tesoro: penso a Gaetano Stammati, Gastone Miconi, fino a Mario Draghi o anche Alessandro Rivera, che pure è stato criticato e attaccato. Sono stati elementi fondamentali per la tenuta dello Stato, hanno saputo gestire anche in tempi difficili. Meglio ancora hanno fatto i ragionieri generali dello Stato, forse perché hanno un potere più laterale e quindi meno aggredibile dalla politica. Ricordo Carlo Marzano, il padre di Antonio poi ministro e presidente del Cnel, di nuovo Gaetano Stammati, che era già stato direttore generale del Tesoro, Vincenzo Milazzo, Giovanni Ruggeri. Andrea Monorchio soprattutto.
-Che ragioniere generale dello Stato è stato Monorchio che, tra l’altro, abbiamo intervistato in una precedente Confessione?
È stato il migliore di tutti: conosceva i minimi dettagli del bilancio dello Stato e per quel ruolo aveva anche il fisico, alto e slanciato. Parlare con lui (andavo a prendere il caffè nel suo ufficio alle 8:00 del mattino) era meglio che parlare con il governatore della Banca d’Italia. Ma tutti, non solo Monorchio, sono stati buoni oligarchi.
-Oggi ce ne sono di oligarchi prestati alla politica o politici oligarchi?
Purtroppo la politica recente di oligarchi ne ha avuti pochi. Chi governa, ma anche chi è all’opposizione, è orgogliosamente convinto che la politica sia un’arte superiore a tutte le altre. Se sei un politico, capisci tutto e quindi puoi decidere tutto. Hai un’investitura in più. Naturalmente non è vero, perché magari l’investitura ti viene da qualche voto in più raccolto al gazebo che ti porta a guidare un partito e poi a fare sfracelli. Però, come diceva De Mita, la politica dà un’investitura piena e questo rende incapace chi la pratica di accorgersi dei propri limiti. De Mita, ad esempio, aveva grandissimi limiti ma al suo fianco c’era Riccardo Misasi, il capo della segreteria politica, che aveva rapporti con tutti ed era un vero oligarca. Senza di lui, De Mita non sarebbe andato da nessuna parte.
Lo stesso Silvio Berlusconi non è mai stato un oligarca, ma aveva Gianni Letta che forse è il principe degli oligarchi. Mentre Aldo Moro era un grande personaggio ma non è stato un vero oligarca; si confrontava spesso con Vincenzo Milazzo, che pure era stato ragioniere generale dello Stato, ma non era il suo braccio destro oligarchico. Un po’ come Gennaro Acquaviva per Bettino Craxi, non aveva il potere di Misasi e Letta. Era un collaboratore fidato, un grande caposegreteria ma decideva da solo. Prodi certamente fu un ottimo politico oligarca.
-Quale è il nodo della nostra attuale classe politica?
Non amo affrontare questi temi perché mi occupo d’altro però posso darvi una breve osservazione di sintesi. Oggi la politica cerca di governare la società, vuole semplificarla verticalizzandola tramite o logiche di potere come il premierato o tramite semplificazioni e verticalizzazioni elettorali come sono le grandi coalizioni e cartelli elettorali. Cerca di ridurre, quindi, la complessità sociale tramite delle verticalizzazioni. Ma così facendo è sempre più difficile gestire il potere e la società che ragionano in maniera complessa. Ciò porta, tramite forzature verticali, a scollamenti interni che hanno come conseguenza astensionismo, porosità, disinteresse e frammentazioni. Tutti problemi che sono all’ordine del giorno.
Gestire l’orizzontalità è la cifra dei veri oligarchi.
-Tra i temi che più ci hanno colpito del suo libro c’è la sua interpretazione del problema demografico. Quali ne sono i veri nodi e sono dovuti solo a fattori socioeconomici?
Il vero motivo è che in passato c’era un’idea di futuro che oggi non c’è più. Se hai un’idea di futuro senti che la tua responsabilità è quella di trasmettere qualcosa alle generazioni successive, mentre oggi questo senso della trasmissione è scomparso. Ma credo ci sia anche un altro elemento. Non è solo la mancanza di desiderio, di sposarsi, di avere figli, ma anche desiderio come categoria dello spirito di cui parla lo psicanalista Massimo Recalcati. Ma oltre al desiderio manca la fonte del desiderio.
-Cioè?
L’intimità. Il gusto di stare un po’ insieme, di capire l’intimo dell’altro, come sostiene un altro psicanalista, Luigi Zoja. Sant’Agostino diceva “intimior intimo meo”, più intimo a me di me stesso. Noi non abbiamo l’intimior intimo meo perché non abbiamo neppure l’intimior dell’altro. L’intimo di me stesso si costruisce conoscendo l’intimo dell’altro. E invece viviamo in una società che non dà intimità, che non concede intimità e quindi non permette neppure la maturazione degli affetti. Se non c’è intimità ti prendi un cocktail e poi ognuno torna a casa propria. E invece l’intimità potrebbe anche ridurre la profonda paura che oggi l’uomo ha della donna, legata in buona parte proprio al timore di dover fecondare. Oggi avere figli non è più un valore ma solo un intralcio alla vita quotidiana. Un tempo la donna incinta aveva un significato sacrale, un valore storico. Nella Bibbia la fecondità era il valore fondamentale. Oggi, invece, la donna incinta spesso tende a nascondersi. Oggi quindi sulla demografia il vero nodo è che manca l’intimità, che è il presupposto del desiderio, che oggi viene surrogato dal godimento istantaneo. Il desiderio nasce dal mistero e senza mistero non c’è desiderio. E l’unico modo in cui sondiamo il mistero è nel momento dell’intimità. In cui non c’è solo contatto, ma una intima spinta a cercare di capire, di conoscere l’altro. Nella Bibbia conoscere e fare un atto sessuale sono sinonimi mentre oggi spesso questi termini sono agli antipodi. Anche nella sessualità non ci conosciamo più.
-Splendido fu il rapporto che ebbe con sua moglie nonostante le iniziali tensioni familiari. Cosa le manca di lei?
La cosa che più mi manca di mia moglie è la sua continua tensione verso il futuro che ha alimentato nel tempo il nostro legame coniugale. Nella sua vita Maria Luisa ha fatto di tutto: ha lavorato alla radio, alla televisione, poi ha fatto dei giardini meravigliosi nelle nostre case, ha prodotto delle coperte patchwork straordinarie, ha fatto il mimo con Jacques Lecoq. Aveva questo senso dello sperimentare in vari modi, una straordinaria capacità creativa e inventiva. A sessantacinque anni ha cominciato a suonare il violoncello: anche questo significa avere sempre dentro un’idea di futuro. Certamente in questa continua capacità e voglia di reinventarsi c’è un bisogno di affermazione di se stessi.
-Quali sogni ha ancora?
Io ho 93 anni sono diventato bisnonno da qualche mese ho avuto una moglie straordinaria e una bella famiglia. Ho avuto tutto. Forse oggi il mio sogno è creare un archivio storico del sociale in Italia, anche per chiudere un percorso di sintesi, di studio, di vita. Non è un sogno progressivo certamente però è qualcosa che riterrei essenziale nel mio itinerario di vita.
di Francesco Subiaco e Francesco Latilla