Intervista

«Il Partito Democratico non potrà essere riformato in quanto è così plasmato dal "governismo" che non ha margine di miglioramento». La sentenza di Fausto Bertinotti

Fausto Bertinotti, storico leader della sinistra italiana, ne ripercorre i passi per comprendere come sia stato possibile passare dal PCI al PD.
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La sinistra è come le Figlie di Pelia: si fa la pezzi nell’illusione di ringiovanirsi e rinascere. Divisioni, scissioni, dissidi, fronde, fughe, eresie e non sfiducie, sono ormai routine che accompagnano lo scenario del campo progressista nella sua dialettica politica, vivendo una situazione di stallo che gli impedisce ogni risveglio. Una situazione di stallo che segna una crisi totale che viene amplificate dalle lotte intestine del PD e dalla avanzata del M5S. Il sorpasso del Movimento 5 stelle alla vigilia dell’imminente congresso del Partito Democratico, infatti, segna un momento storico per quel periodo eterno di crisi che ha colpito le forze del centro sinistra, ormai divise in tante formazioni tra loro contrastanti. La leadership di Conte, fiancheggiata dall’ala più massimalista del PD, come nuovo capo della sinistra mette in luce l’evidenza di una debolezza sempre più conclamata del partito governista per antonomasia, ormai diviso irrimediabilmente su quale delle proprie tante anime incarnare, se quella filorenziana o quella cattocomunista, quella grillina e sociale di Bettini o quella radicalchic e terzomondista di Elly Schlein. Che immagine uscirà del campo progressista dopo il congresso? Quella anticapitalista e veterocomunista, quella liberal e renziana, oppure il PD si sgretolerà e scinderà in tante piccole formazioni politiche come una decadente Democrazia Cristiana? Per meglio comprendere cosa è accaduto alla sinistra italiana abbiamo intervistato Fausto Bertinotti, leader storico della sinistra italiana, che dal PCI a Sinistra Arcobaleno, passando per l’attività sindacale, ha incarnato questa tradizione diventandone il massimo esponente per oltre vent’anni. 

-Politico, sindacalista, presidente della Camera. Come si definirebbe?

Un vecchio militante. Una definizione che ritengo fondamentale perché per me essere rimasto un militante vuol dire aver mantenuto inalterata la mia passione per la politica ed in particolare per quella idea di politica che ha pensato di potesse cambiare il mondo costruendo una scelta socialista ed è per tale motivazione che ancora mi definisco tale.

-Cosa vuol dire per lei essere comunista e che significato ha oggi questa accezione?

Credo che voglia dire due cose contemporaneamente a mio avviso. Vuol in primo luogo dire avere l’orgoglio di esser appartenuto ad una grande storia, la storia del movimento operaio nel novecento che aveva pensato possibile la scalata al cielo. in secondo luogo che malgrado la sconfitta storica del comunismo, le ragioni e le premesse culturali per cui esso è nato vengono confermate e rese valide tuttora specialmente in una epoca in cui il capitalismo globale è sempre più incompatibile con la democrazia e con la pace.

-Una volta hanno detto che l’unico vero capo della sinistra in Italia è papa Francesco, che ne pensa?

Ogni operazione di trasposizione di un grande leader religioso nel campo della politica è arbitraria. Naturalmente conosco il tema della secolarizzazione della fede, ma non penso possa riguardare al papa.

-Conte è un Melenchon italiano, oggi il futuro di una sinistra egualitaristica e pauperistica è affidato al Movimento 5stelle?

Siccome non fa la posa a Melenchon non gli si può attribuire questa somiglianza. Però è indubbio che abbia basato la sua campagna elettorale e comunicativa sui temi sociali.

-Cosa succederà con il congresso del PD, trionferà la linea di Bettini, quella di Elly schlein o quella filo terzopolo di Bonaccini? 

Temo niente. Perché ci sono dei soggetti che costituendosi materialmente con la loro storia diventano irriformabili ed insalvabili ed il Partito Democratico non potrà essere modificato o riformato in quanto è così plasmato dal “governismo” che non ha margine di miglioramento e di cambiamento.

-In quanto nuovo partito dell’establishment italiano possiamo definire il PD la nuova Democrazia Cristiana?

No no, assolutamente, non scherziamo. La DC è stata una potente presenza della società italiana cambiandone nel bene e nel male la storia.

-Dalla bolognina ad oggi crede che il centrosinistra e il polo progressista si sia trasformato più che in un partito laburista italiano operaio e popolare, in “un partito radicale di massa” dell’industria e dell’alta borghesia?

Conosco la definizione di un grande filosofo come Augusto Del Noce, però credo che non sia riuscito ad essere nemmeno questo, poiché suicidandosi politicamente il centrosinistra non è riuscito a diventare né radicale né laburista né tantomeno di massa.

-Cos’è diventato?

È diventato un partito di governo.

-Lei ha detto in una intervista che per lei una cultura di sinistra si doveva fondare su una critica del capitalismo finanziario globale, vede riscontri nel panorama italiano? 

No io penso che la sinistra politica italiana, malgrado qualche tentativo generoso, sia sostanzialmente morta e che sarebbe il tempo di ricominciare da capo.

-Il ’68 secondo lei, è stato applaudito come rivoluzione contro il capitale, ed invece si è avverato come rivoluzione contro i capitalisti per un nuovo capitalismo globale e finanziario?

No francamente non credo a questa tesi. C’è il caso italiano,  ampiamente studiato ed osservato, che è nato come il frutto di una combinazione sia del ’68 sia del ’69, generando nella storia italiana un nuovo biennio rosso. In quell’incontro tra contestazione studentesca e contestazione operaia si realizza compiutamente il ’68 che è stato il fautore dei principali cambiamenti della società italiana.

-Quale momento la ha più colpita nella sua attività politica?

Non riuscirei a trovare un momento esatto in un percorso formatosi in oltre mezzo secolo di vita ed esperienze, soprattutto perché nella mia attività politica ci sono stati momenti che mi hanno molto entusiasmato e incoraggiato a proseguire la mia militanza politica ed altri che invece mi hanno deluso lasciandomi dure sconfitte. Esperienze a cui mi sono sempre relazionato seguendo l’insegnamento di Mao Zedong, e che prima fu di Rosa Luxembourg, ovvero che ci sono delle sconfitte che insegnano molto di più di tanti comitati centrali

-E quale è stata la sconfitta che la ha più segnata?

Senza dubbio la vicenda della Fiat e le proteste dei 35 giorni. Questa esperienza mi ha insegnato che intanto per essere sconfitti bisogna provarci, sennò non si è sconfitti si è vinti.

-Prima ha descritto la sinistra e le forze progressiste come delle componenti politiche morte, necrotiche, agonizzanti. Secondo lei il movimento sindacale, intaccato dalle proposte sul patto sociale, gode della stessa splendida salute?

No non gode della stessa salute, ma sicuramente è in grande difficoltà. Ma a differenza delle forze politiche gode di un legame, di un insediamento nel mondo dei lavoratori che non lo potranno dare mai per vinto. Oggi il sindacato dovrebbe ripartire dal conflitto sociale dalla lotta per i temi e i diritti del lavoro. 

-Invece la sinistra da dove dovrebbe ripartire?

Dalla lotta per la liberazione del e dal lavoro salariato, diminuendo l’orario di lavoro e cercando di aumentare i salari. Riuscendo a compiere quel rovesciamento del rovesciamento del conflitto distributivo, iniziato, come scrisse il Professor Luciano Gallino (forse uno dei massimi sociologi italiani), negli anni ’80 dove il conflitto di classe tra lavoratori che richiedevano i loro diritti ai datori di lavoro si è irrimediabilmente invertito a vantaggio dei capitalisti. 

-Luciano Gallino diceva che dopo gli anni 80 si erano invertiti i rapporto del conflitto distributivo, passando dai lavoratori che richiedevano i propri diritti ai datori di lavoro, ai “padroni” che ora vogliono ampliare i loro privilegi a discapito dei lavoratori. Cosa pensa di questa tesi?

Devo sicuramente sottolineare che Luciano Gallino è stato uno dei massimi sociologi italiani ed una figura immensa a cui tutti dobbiamo moltissimo. Io penso che la cosa si sia inverata a partire dall’80 rovesciando per sempre il paradigma del conflitto distributivo.

-Dal primo governo Ciampi a Draghi, l’Italia insegue il sentiero della tecnocrazia?

Non è solo un problema dell’Italia. In Europa c’è la tendenza prevalente alla costruzione di governi di matrice tecnico-oligarchici, con la duplice tendenza, da una parte la crisi della democrazia rappresentativa, dall’altra il primato dell’economia e dei meccanismi di accumulazione capitalista finanziario sulla politica, in termini marxiani “sussume a se” la politica, divorandola completamente.

-Oggi l’Europa è ancora capace di fare politica di frontiera?

L’Europa di Maastricht, l’Europa reale, ha sostanzialmente tradito la speranza comune di essere un ponte tra le diverse civiltà, come ha dimostrato durante la prima fase della guerra in Ucraina. Penso che ci sarebbe bisogno di una cultura e di un movimento universale per la pace, qualche segnale si manifesta, ma siamo ancora lontani dalle esigenze necessarie per una svolta pacifista.

-Per cosa vorrebbe essere ricordato, come figura politica e sindacale?

Le rispondo con un aneddoto che mi ha molto colpito in gioventù. Andai al congresso della CGIL di Bologna ed un grande sindacalista, Fernando Santi, leader socialista del sindacato vicino a Giuseppe Di Vittorio, dava il suo addio e si preparava ad uscire di scena per andare in pensione. Fece un discorso bellissimo e commovente e concluse pressappoco così: “io sono un uomo di grandi ambizioni. Ed il mio sogno è che un giorno in cui non ci fossi più un operaio del nord e un bracciante del sud pensando a me dicessero ‘Fernando, era uno dei nostri, era uno di noi‘”. Questa è la mia più grande ambizione. Ma non spetta a me sapere se verrà realizzata. Solo una lavoratrice del Nord ed un lavoratore del Sud potrebbero rispondermi.

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