Esiste, da qualche anno a questa parte, nelle stanze di Bruxelles e Strasburgo, una sottile inquietudine, uno spaesamento latente eppure percepibile che può essere riassunto in una domanda esistenziale e, in un certo senso, drammatica. Una domanda che già dal palco del Meeting di Rimini suonava, tra le righe, ossessiva (a pronunciarla tra gli altri Raffaele Fitto, Enzo Moavero Milanesi e la vicepresidente del Parlamento Europeo) ovvero: cos’è l’Unione Europea? A cui seguiva una risposta che pareva come minimo un lamento disperato, la reminiscenza di qualcosa che possa essere una volontà politica, incapace però di consapevolezza e forza necessarie ad andare oltre il limbo di un: dobbiamo decidere cosa l’Unione Europea voglia essere, che cosa voglia diventare. Andare oltre a fantomatici valori comuni che nessuno in 20 anni di storia dell’Unione ha saputo rendere effettivi, concreti, in ultima parola politici.
Questa crisi di identità, se da una parte porta a saldarsi pienamente al concetto di Occidente, come si è visto, dall’altra sfocia in una bulimia espansiva che cerca di trascendere l’attuale stagnante stato spirituale, morale, di valori, (oltre che economico), del Continente. Cadendo però nel grottesco, come in occasione della proposta, ad un paese in guerra come l’Ucraina, di pacchetti di riforme e Recovery Fund annesso, o contraddicendo ogni ferreo principio in materia di ammissione (criteri di Copenhagen et similia) conducendo negoziati di adesione con Moldavia, Georgia, Bosnia… paesi non certo in linea con standard democratici di “trasparenza” o addirittura controllati parzialmente da forze separatiste.
Tutto ciò in una certa maniera è coerente all’appello di farsi Stato che qualche giorno fa Mario Draghi ha pronunciato nella Chiesa di Sant’Ignazio a Roma in occasione della presentazione del libro di Aldo Cazzullo Quando eravamo padroni del mondo, che parla, paradossalmente, di Impero. Al contrario dell’Impero però, che mantiene storicamente una dimensione qualitativa e spirituale, il farsi Stato è strettamente collegato, nella visione di Draghi (e così non potrebbe che essere) a fattori di crescita economica e dimensioni del mercato o alla modifica di qualche norma interna, seppur importante. Come se possa darsi uno Stato, e dunque una politica estera e di difesa realmente unificata, solamente a colpi di riforme o con l’istituzione di qualche fondo europeo. Il problema non è quantitativo ne normativo, giacchè poi anche l’ex premier prova ad inerpicarsi sul sentiero, invero battutissimo, di un sentimento europeo che possa fare da collante alla struttura.
Il problema è lo stesso quando si leggono, affisse come lapidi, le pubblicità di You are EU in giro per tutta Italia. Scarne, di una essenzialità che ne mostra la concavità: Libertà, pace, indipendenza energetica, dove l’ultimo termine svuota di ogni senso i primi due, riducendoli ad appelli disperati o riconducendoli invece alla realtà, alla loro infondatezza, alla loro volontà di im-potenza che sussiste perchè questi termini tengono in fondo in sè tutta l’umanità, in-determinazione massima. Con-tengono l’orizzonte immanente massimo dell’intera umanità ricondotta alla pace universale. Una pienezza che può essere raggiunta solo nella sua universalità, e dunque nel suo presentarsi come unica alternativa, unica Via. In tutto ciò non c’è spazio per il Politico, che d’altra parte segnala sempre una divisione dell’umano, una scissione come la definì Gramsci, una cesura, la possibilità concreta di un nemico (pubblico) secondo Schmitt.
L’orizzonte della pace universale, e dunque della morte della politica, non può essere pensato se non in termini socio-economici come anche il pensiero funzionalista di uno dei padri dell’Unione Europea, Jean Monnet, evidenzia bene. Nondimeno il “reggente” del Continente è una moneta, non si può definire l’Europa senza citare l’Euro e il suo spazio economico.
Da questo punto di vista perciò l’Unione Europea ha già in sé “l’umanità”, la misura massima dell’immanenza e dei meccanismi tecno-economici che la fanno sussistere e che non possono fare altro che trapassarla, portarla al di là dei suoi confini, nello spazio indeterminato del globo. L’Unione ha già in sé la misura dell’Universale. In questo senso il katéchon, la figura catecontica dell’Unione potrebbe essere definita, seguendo Massimo Cacciari, come pienamente apocalittica. “L’Anticristo” di questo non-luogo non è l’Anarca, come era nella teologia-politica statale, ma la Decisione. L’unica tragica lotta dell’Unione Europea è quella per evitare che si decida ancora, per frazionare e dividere dunque l’Universale. Per evitare che sia rappresentabile un Tempo diverso dall’eterno presente della techne politike continentale, che perciò si palesi un alternativa alla sua stessa immanenza.
La lotta è quella contro la rappresentazione di qualsiasi Evo (cristianamente inteso) ed Epoca (che nella sua accezione veramente imperiale mantiene una dialettica con l’Evo cristiano). Il katéchon europeo è apocalittico proprio perchè esso non può trattenere niente, essendo un qui ed ora continuo. Nell’Universale in-determinato esso si auto-trascende, cercando la propria eterna conservazione.
Ma l’Universale, non potendo per sua natura ordinarsi (e dunque dividersi, scindersi), si ribalta inevitabilmente in anarchia e nichilismo. L’Unione Europea, più che essere specchio del mondo futuro, è riflesso del suo chaos e delle sue divisioni, come si sta notando anche per quello che riguarda la guerra tra Hamas e Israele. Paradossalmente l’Europa come espressione geografica e il suo essere spazio liscio e de-territorializzato convivono come l’unico spazio in cui termini come “umanità” e “pace universale” possono valere, se non concretamente, almeno come maschere, come disse già a suo tempo Proudhon (“chi dice umanità vuole ingannarti”).
Invero nella prassi tecno-amministrativa dell’Unione il Politico non muore, giacchè esso può morire solo universalmente, così come non si spengono i conflitti. Essi vengono solo celati con termini e strumenti giuridici di un ordine socio-economico già compreso nella sua universalità, come si è visto nel caso ucraino, che per essere più o meno effettivo (poiché esclude in linea di principio il Politico) deve appoggiarsi alla morale (diritto e morale sono invero indistinguibili).
Al di là del problema in sé del diritto internazionale, già parzialmente analizzato, si può effettuare una ulteriore considerazione.
Frenando il Politico si annulla anche, sopratutto, la capacità di pre-vedere (“pre-vedo nella misura in cui penso di avere l’energia per realizzare il mio pro-getto“, Massimo Cacciari, Il potere che frena), ovvero di informare lo spazio di un ordine concreto, non solamente morale od economico. Privandosi di qualsiasi forma di “preveggenza” (che è poi quella di una idea politica solida) pace e anarchia universale sono esattamente equiparabili. I termini si confondono e sovrappongono per dare vita a una situazione di crisi permanenti che le forme politiche non possono fare altro che subire, e risolvere in una successione casuale e infinita. In quest’ottica si può meglio distinguere la prassi amministrativa e tecnica che è propria dello Stato nel suo ordine interno quale ordine politico completamente pacificato. È nello Stato che viene raggiunta la vera pace universale, circoscritta però, dunque determinata dalla presenza di altre sovranità particolari e sopratutto da altri Spazi “liberi”.
Invero lo Stato, europeo per definizione, nasce con le Americhe, e con l’orizzonte globale (e scientifico) che questa scoperta schiude. Da Hobbes in poi la dialettica, propria del razionalismo politico, ordine-conflitto non può che appoggiarsi a quella tra artificio-natura.
L’ordine politico ovvero come artificio (necessario ad eliminare la violenza interna che ai tempi di Hobbes si accompagnava facilmente alle guerre civili religiose) che sussisteva fintantochè si stagliava di fronte ad uno stato di natura che non era solo possibilità insita nell’ordine stesso ma che era realtà storico-concreta, tanto è vero che Hobbes stesso identificava lo stato di natura con le Americhe. Dunque non solo possibilità della guerra civile, ma la possibilità di mantenere la guerra in forma statale (dunque con diritti e obblighi) grazie al suo contrario, come avveniva nella lotta sregolata per le colonie e gli “spazi liberi” americani ed africani nei quali l’anarchia, agli occhi europei, era incarnata.
Già nella natura artificiale dell’ordine politico, dunque autonoma da qualsiasi auctoritas imperiale e papale e da qualsiasi concetto di Giustizia, si intravede però l’estrema de-qualificazione e indifferenziazione spaziale di cui è portatore lo Stato. Lo spazio moderno non può che essere compreso universalmente, e nello specifico nell’ “universale particolare” statale. Lo Stato non è infatti portatore di alcuna qualità intrinseca, se non un livello di organizzazione burocratico-amministrativa interna che già Schmitt tentò di legare ad un dato spirituale e morale di un determinato popolo od etnia (tentativo che segnalava semmai l’immanentizzazione del “Dio mondano” hegeliano e la fine delle cateogorie interno-esterno e particolare-universale).
La fine della dialettica tra artificio-natura propria dello Stato si accompagna perciò alla sua universalizzazione, che si determina nella fusione tra techne politike e natura. Ovvero nella simbiosi tra prassi tecno-amministrativa dell’ordine statale interno e quella liberal-democratica, nella quale l’ordine stesso è posto al di fuori di quello politico, nell’immanenza naturale dell’individuo e del mercato. Il Politico è così semplicemente al “servizio”, lo Stato anzi è un efficace fornitore di servizi tecnici e risolutore di problemi.
In quest’ottica, se appare del tutto naturale (nella teoria) parlare di state building, non si può, sempre nella teoria, constatare un suo effettivo fallimento, come numerosi Stati africani dimostrano. Il confine non presuppone il riconoscimento di altre sovranità, o di spazi altri-da-sè, ma segnala l’impossibilità di decidere su di esso. Paradossalmente tanto più esso è poroso e attraversato da flussi economici e umani, tanto più esso apparirà nel diritto internazionale rigido, quasi che la sua esistenza discenda dalla Natura, ad una origine immutabile e “sacra” del diritto e dei popoli.
Ciò che viene meno dunque è il senso stesso della mediazione (con un ipotetico stato di natura) dello Stato. E perciò il senso della rappresentanza da cui il Politico trae la sua legittimità. La forma politica non mantiene una apertura alla trascendenza, di sé e del suo spazio (che è possibile invero solo nella differenza che scaturisce dalla decisione politica, così come per Hegel solo nell’immanenza è possibile cogliere la trascendenza), essa è semplice espressione di una riserva morale che risiede nel potere costituente del popolo. Suddetto potere è anch’esso artificio politico, poiché il popolo unitariamente inteso (oltre, nella postmodernità, ad essere formato atomisticamente da istanze individuali) non è mai riconoscibile in una forma politica o in uno spazio, ma di esse può disporre liberamente poiché fonte eterna ed immutabile.
L’immanenza, non potendosi definirsi come “scissione”, non può essere perciò politica, parte parziale, ma bensì trae la sua legittimità universale dal definirsi come Natura, come si è cercato di fare con la teorizzazione dello Stato-Nazione. In ogni caso lo spazio concreto è cancellato in favore di uno spazio morale e socio-economico (artificiale ed utopico) che per essere preservato deve rompere ogni limitazione politica, (le due guerre mondiali insegnano qualcosa in questo senso) che nella modernità non può che essere razionale e geometrica . Invero anche la Natura così concepita è artificiale tanto quanto il termine Nazione, che è e rimane uno strumento politico.
Come spuntare il conflitto dall’ordine politico se lo stesso conflitto non è identificabile al di fuori dell’ordine? Nel momento in cui non è più distinguibile l’artificio dallo stato di natura? Rimane solo la possibilità della guerra civile su scala internazionale, o meglio il mascheramento del conflitto con strumenti e termini dell’ordine interno.
Di fronte a ciò la spoliticizzazione dello Stato (e di uno Stato che si definisca nazionale) è logica conseguenza del ruolo catecontico prima descritto. Come si è visto nel caso francese il katéchon è ogni Stato membro dell’Unione, impossibilitato ad espandersi e a produrre un senso che lo trascenda, esso subisce (e si diluisce) in teologie politiche altrui o viene travolto da moti “rivoluzionari” interni (che puntano ad una ri-politicizzazione della cosa pubblica) come il fenomeno populista mostra bene. Per non parlare poi dei potenziali effetti disgregativi (Catalogna), giacché il principio di autodeterminazione, lungi dal corrispondere a criteri naturali oggettivi, è un artificio politico adatto ad ogni latitudine e grandezza.
Il katéchon proprio degli Stati membri è dunque quello dell’Unione Europea, cosa che rende quantomeno irreale parlare di una federazione europea, anche perché ancora una volta non si può ridurre il problema a una mera questione quantitativa. Ovvero riguarda l’essenza stessa di una idea politica europea.
Può bastare nello scenario attuale l’Europa definita da Borrell come “la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale”? Così come è, essa non fa altro che ricondurre il mondo al suo Universale, condannandosi all’apolicità e dunque alla sua incapacità di trattenere la decisione ed il conflitto. Non può che essere così, paradossalmente viste le intenzioni, reazionaria nel termine più negativo. Disperatamente legata ad uno status quo e ad uno spirito che in nulla può rispondere a quelle inquietudini e richieste che ancora dopo 20 anni rimangono inascoltate. Che nulla può di fronte all’anomia del mondo e al suo nichilismo, così frammentata in una governance orizzontale e atomistica.
Che nulla può opporre infine alle Potenze della Terra perché essa è in fondo un grande Mercato, un Bazar in cui solo si incrociano i grandi corridoi economici del nostro tempo. Essa è la posta in palio delle forze nelle quali risiede ancora oggi il Politico.