Tutti i libri animati da un’idea precisa e coerente – non sono molti – si lasciano serenamente giudicare dalla copertina. In questi pochi casi fortunati, nome dell’autore, titolo e immagini si dispongono sul piatto anteriore a formare un rebus in cui è già contenuto il messaggio che le restanti pagine si limitano ad approfondire. L’arguzia spigliata del coup d’œil arriva così a decifrare immediatamente il dispaccio crittografato nella copertina, mentre la gravosa pratica della lettura integrale ancora si arrovella sull’interpretazione delle comunicazioni propagandate dal volume. La destrezza nel ricavare informazioni da pochi elementi superficiali – arte che vanta fra i propri nomi quello di intelligence – si può applicare in modo spensierato all’ultima opera di Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto. Il nome proprio dell’autore riuscirebbe a incuriosire perfino la spia più impigrita, dato che custodisce il segreto di tutto il libro: “Geminello” è un nome parlante il cui etimo rimanda al gemellaggio e di riflesso alla doppiezza e all’ambiguità, che oltre a costituire le qualità imprescindibili per un informatore sono pure i temi centrali del volume. Teologia politica e diritto è infatti un dossier confidenziale sull’affinità misteriosa tra le due istanze sottintese dal titolo – i cieli stellati della religione e del culto, ovvero la teologia, e la cupa terra del potere e delle istituzioni, ovvero la politica e il diritto. Indizi di questa complicità fra due piani diversi si rintracciano anche nei due disegni speculari che compongono l’artwork in copertina – uno, luminoso e aureolato, sembra additare l’entusiasmo della fede e l’altro, sobrio e affusolato, mostra forse la fermezza della razionalità.
Il binomio fra trascendenza e immanenza si rende inoltre se non manifesto almeno intuibile in una zona di soglia collocata a metà fra la copertina e il corpo del testo. La dedica del libro è infatti rivolta a due maestri dell’autore: Remo Bodei, raffinato filosofo campione di speculazione, pare ispirare le riflessioni più alate del volume, mentre Stefano Rodotà, pragmatico giurista difensore dei diritti, assurge quasi a garante della concretezza delle analisi prospettate. La sovrapposizione di elementi eterei e tellurici riscontrabile fin dalla copertina affiora dunque nella dedica e non manca di contraddistinguere anche lo stile ibrido dell’opera, la quale riunisce in sé la vivacità del pamphlet e la ponderosità del trattato.
Il presupposto da cui Teologia politica e diritto prende le mosse è lo stravolgimento culturale apportato dalla modernità, intesa come momento dello spirito cominciato nel Seicento e volto alla dissoluzione di ogni fondamento naturale. A partire dal XVII secolo, i filosofi ritengono inaccessibile o addirittura inconsistente la nozione di sostanza e il nichilismo si insinua nella Grundfrage “perché l’essere invece del nulla?”; lo stesso Amleto non riesce a decidersi fra to be e not to be e i drammi barocchi sono colmi di allegorie che deformano la simbologia comunemente attribuita agli oggetti fisici; in pittura il trompe-l’œil si prende gioco della spontaneità della percezione e in fisica il cannocchiale rivela i limiti dell’occhio nudo sprovvisto di supporto tecnico. Fra tutti i cedimenti del naturalismo, Preterossi è interessato a quelli dal carattere più propriamente politico: nel Seicento la monarchia britannica perde la propria legittimazione tradizionale e il corpo del sovrano cessa di essere intangibile con la decapitazione di Carlo I d’Inghilterra; nello stesso periodo si diffonde il contrattualismo secondo cui lo stato di natura è superabile grazie a una fictio iuris e si afferma il principio per il quale la fonte della legge non è la salda verità oggettiva ma il volubile arbitrio dell’autorità. Tormentata dal genio maligno che mette in dubbio le certezze del canone giuspubblicistico, la politica moderna si ritrova così a non poggiare più su alcun fondamento.
Attingendo ancora dal gergo cartesiano, si potrebbe dire che secondo Preterossi “l’assenza di fondamento” (p. 18) della modernità rappresenta il punto zero all’origine dell’asse orizzontale della politica e di quello verticale della teologia. Dopo la rivoluzione “anti-essenzialista” (p. 196) del Seicento il deficit di legittimazione che intacca la politica esige infatti di essere compensato dal surplus di senso offerto dalla teologia. Per non sprofondare in una crisi valoriale, la prassi politica si affida a “sistemi di credenze” (p. 30) di matrice teologica; il diritto pubblico eccede il semplice proceduralismo tecnico-amministrativo solo grazie alle ideologie religiose in grado di animare la gelida macchina dello Stato. Lungi dall’essere autosufficiente e anzi condannata a “farsi spuria” (p. 45), la logica katechontica delle istituzioni mondane trae necessariamente “energia spirituale” (p. 138) dal carisma della fede. Questa “razionalistica irrazionalità” (p. 47) impronta la duplicità della teologia politica, la quale da un lato deve rivendicare la coerenza intrinseca a ogni ordinamento giuridico ma dall’altro non può rinunciare alla “costruzione ideologica di una fides” (p. 175) trascendente. Come insegna Hobbes, che in compagnia dei suoi commentatori Hegel e Schmitt rientra senza dubbio fra i tre filosofi più citati nel libro, la coesione tra i corpi che istituiscono il Leviatano è data dalla condivisione di un articolo basilare del Credo – Jesus is the Christ: politica e teologia si intersecano perché la vita del dio mortale dipende dalla fede nel dio cristiano.
Un altro pensatore evocato con assiduità nel corso del volume è Gramsci, che soprattutto in ambito internazionale sta godendo di una renaissance ma il cui contributo alla teologia politica resta largamente inesplorato. Non senza originalità l’autore riconduce al paradigma teologico-politico la dialettica gramsciana fra egemonia culturale e bisogni materiali: miti popolari, sovrastrutture e grandi narrazioni ereditano dalla teologia il compito di informare forze produttive, strutture e relazioni di potere appannaggio della politica. Nell’ottica di Gramsci la macchina mitologica è utile a suscitare nell’animo delle masse le passioni rivoluzionarie che possono trasformare la realtà sociale. Questa “saldatura tra […] orizzonte simbolico e piano materiale” (p. 176) è per Preterossi la “via stretta” (p. 65) che partendo dalle forme spirituali giunge a una concreta emancipazione. L’intero programma di Teologia politica e diritto si ritrova condensato in una nota a pagina 187, nella quale si ribadisce l’urgenza di fornire una “chiave efficace di mobilitazione” ai “ceti popolari”. Il libro si propone quindi di promuovere “la spinta agonistica forte” (p. 190) non estranea al populismo al fine di ottenere un rafforzamento del Welfare State e della socialdemocrazia keynesiana.
Eppure, secondo l’autore la vasta portata metafisico-religiosa di questa ambiziosa visione di rinnovamento risulta completamente hors catégorie rispetto alle modeste capacità della politica contemporanea. La facoltà immaginativa che nella modernità ancora riusciva a produrre ideali utopici verrebbe ora del tutto neutralizzata dal realismo capitalista della postmodernità: la colonna portante del “vecchio tempio” (p. 45) delle costruzioni di pensiero sarebbe ormai crollata e rimarrebbero solo le macerie del neoliberismo privo di alternative. Nell’interpretazione di Preterossi lo sgretolamento della progettualità trascendente a favore dell’“immanentizzazione integrale del senso” (p. 98) è agevolato dalla “critica ‘illuminista’” (p. 175) a cui la filosofia della seconda metà del Novecento sottopone tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato. In particolare l’autore si sofferma sui vantaggi che l’economicismo refrattario al primato della politica trae dalla decostruzione della nozione di sovranità, il cui residuo teologico-politico diventa inaccettabile per una forma mentis pienamente secolarizzata. L’afflato libertario “dell’ideologia del ‘post’ (-sovrano, -nazionale, -statale, -moderno, -politico)” (p. 188) sarebbe così complice della “demolizione neoliberale delle istanze collettive” (p. 209). Diversi sono gli obiettivi polemici del discorso di Preterossi: il modello governamentale di Foucault, lo “spontaneismo anarcoide” (p. 192) di Negri – al quale sono rivolte le accuse più puntute del libro – e il “comunismo cognitivo” (p. 192) ascrivibile forse a Vattimo sono ritenuti colpevoli di fiancheggiare i Chicago boys nel disfacimento della sovranità statale. Teologia politica e diritto si pone dunque in contrapposizione alle dottrine dell’epoca della spoliticizzazione – l’interregno apertosi con la deposizione della legittima autorità sovrana e proseguito sotto l’amministrazione delle potestates indirectae del finanzcapitalismo.
La liquidazione della teologia non è però una leggenda? La cultura occidentale è davvero laica? Accanto al riduzionismo nichilista, alla reificazione disillusa e alla carenza di valori convivono nel presente il fideismo integralista, l’incantamento mitologico e la superfetazione di significati. La dialettica dei lumi impone che il dispiegamento del razionalismo coincida con “la più grande idolatria” (p. 137). Preterossi stesso ammette che la postmodernità non è esente dalla “sacralizzazione teologico-economica della tecnocrazia” (p. 209). L’immaginario contemporaneo del resto trabocca di feticci mercificati, idoli mediatici e icone pop; della società dello spettacolo si può affermare ciò che Eraclito disse della propria casa – “anche qui ci sono dèi”. Il capitalismo è inoltre una religione con il suo clero – gli economisti –, il suo peccato originale – il debito – e il suo culto – il consumo. La spiritualità del neoliberismo è talmente accentuata che l’accumulazione di capitale non si limita a fungere da semplice mezzo utile al soddisfacimento di esigenze tangibili ma viene elevata a pratica ascetico-devozionale che racchiude in sé la propria “auto-finalità” (p. 205): il profitto viene tesaurizzato in nome del profitto esattamente come l’asceta non ha altro scopo che plasmare se stesso. In questa prospettiva la condizione postmoderna appare ancora caratterizzata in modo irrimediabile dalla teologia e alquanto estranea alle vicende della secolarizzazione.
Preterossi non nega di certo le implicazioni religiose dell’economia odierna, ma la dimensione sacrale della contemporaneità tout court è probabilmente sottovalutata in Teologia politica e diritto. Nel volume si compiange infatti la mancanza di una “ideologia che esprima una visione del mondo coerente” (p. 203), ma il globalismo postmoderno non è altro che una credenza perfettamente capace di concepire una Weltanschauung; l’autore ricerca una fede in grado di “mobilitare masse frammentate e disperse sui territori” (p. 180), ma l’occidentalizzazione in atto è già la diffusione di una religione che omologa e unifica i popoli su scala planetaria. Due esempi, che fra l’altro compaiono nell’apertura e nella chiusa del libro, aiutano a mostrare che la macchina teologico-politica non “si è inceppata” (p. 12) nel passaggio dalla modernità al presente e che anzi continua a girare ancora oggi a pieno motore: l’egemonia dell’impero statunitense – menzionata di sfuggita nella seconda pagina – segnala la sopravvivenza delle mire espansionistiche della große Politik; la persistenza della sovranità a disposizione degli attori statali si evince anche dalla gestione della pandemia da COVID-19, il cui “uso politico” (p. 256) è stigmatizzato nell’ultima nota dell’opera. Almeno in certi Stati o in certi frangenti, la potenza mitica dell’attuale politica non svanisce ma al contrario si intensifica. Sorge quindi il dubbio che i problemi denunciati da Preterossi non siano “sintomi di qualcosa che non ha funzionato” (p. 119) nel paradigma teologico-politico ma siano piuttosto sintomi di qualcosa che ha funzionato fin troppo bene. Bisogna ancora una volta stare attenti a ciò che si desidera perché lo si potrebbe ottenere.
La questione posta da Teologia politica e diritto riguarda in fondo l’estensione temporale della modernità: le categorie dell’âge classique sono definitivamente tramontate o non hanno perso pregnanza? La postmodernità sferra un “attacco […] feroce alla teologia politica” (p. 257) o ne riprende il progetto generale? Il sospetto è che siamo sempre stati moderni e che non abbiamo mai abbandonato la teologia politica. Sotto questa luce l’evo moderno e la nostra epoca, il volontarismo teologico-politico e il formalismo tecnocratico appaiono affini o – per meglio dire – gemelli.