Riproposto in una nuova versione dalla Adelphi, Il nodo di Gordio rappresenta una sintesi del pensiero metafisico, filosofico e geopolitico di due giganti del pensiero tedesco: Ernst Jünger e Carl Schmitt. Tema centrale è la dialettica tra Oriente e Occidente. Tra Terra e Mare. E se da un punto di vista tradizionale tale distinzione non sussiste (come ha più volte ribadito Guénon), Jünger ribadisce che Oriente e Occidente non debbano essere concepiti come “luoghi assoluti”, ma “come metafore di due atteggiamenti umani fondamentali”. Questo atteggiamento è dato dal diverso rapporto nei confronti di Dio e dell’Assoluto. Astratto fino all’infinito, destinato a mutare di forma, a divenire metafora invisibile, a fondersi con la volontà di potenza della tecnica, in Occidente; presenza viva, costante in Oriente. Dio è agli occhi di un Tolstoj o di un Dostoevskij potenza viva e sotto gli occhi di tutti.
Altro elemento significativo è dato dal rispettivo valore attribuito alla libertà. Il dispotismo è cifra dell’Oriente, simmetrico rispetto alla magistratura e alla legge occidentale. Questi elementi si ascrivono all’importanza certo incalcolabile del sovrano, dell’imperatore o dello zar nel funzionamento di uno stato orientale. Da questo punto di vista Jünger mette a confronto la morte di re Gustavo Adolfo di Svezia a Lützen durante la Guerra dei Trent’Anni, dinanzi alla quale gli svedesi restarono comunque padroni del campo e le dispersioni degli eserciti orientali, degli Assiri dopo la morte di Oloferne, dei Persiani a Gaugamela dopo la fuga di Dario III:
«Di qui il paradosso per cui da un lato il re è insostituibile, dall’altro il suo trono non può mai rimanere vacante. È insostituibile come lo è il re in una partita a scacchi. Se cade, deve comparire subito in campo un nuovo re, affinché gli altri pezzi riacquistino la loro importanza e possa avere inizio una nuova partita. Di fronte a questo la legittimità passa in secondo piano.»
Le regole del potere rispondono dunque a principi differenti. Grandi sovrani orientali e occidentali, assurgono all’apoteosi storica su basi radicalmente diverse, tali per cui un califfo come Harun si macchiò di atrocità tali che in Occidente non avrebbe mai potuto fregiarsi del titolo di giusto, attribuitogli nel cosmo orientale. E se il nodo di Gordio rappresenta simbolicamente la rottura di un vincolo, l’apertura dell’Oriente alla conquista di Alessandro Magno, l’occhio ricade quasi automaticamente sulle modalità di tale rottura: un colpo di spada. Così l’Oriente si apre alla conquista, dopo un gesto violento, arbitrario e forse irrazionale. Grecità imposta, che viaggia simbolicamente su binari simili e storicamente affini al processo di europeizzazione che ha gradualmente investito il mondo moderno. Arbitrario come fu Pietro il Grande, anch’egli in grado di trasformare di colpo una Russia profondamente arretrata in una delle grandi potenze europee:
«Con l’ausilio di un piccolo gruppo dirigente è oggi possibile imporre in brevissimo tempo, in un Paese che si trova ancora nel Medioevo o addirittura in un’isola rimasta ferma all’età della pietra, uno stile di lavoro che da noi si è formato nel corso di decenni, anzi di secoli. È uno spettacolo che possiamo osservare ogni giorno.»
La violenza sembra accompagnare la conquista occidentale, sia essa militare o culturale, dell’Oriente. Bastioni difensivi vengono eretti, spiritualmente e geograficamente, ad impedire la conquista totale. Mari e stretti per il primo sono gli invalicabili limiti all’espansione orientale. Taiwan impedisce al Celeste impero di farsi potenza marittima. La Russia agogna ancora i mari caldi. Immense distese si oppongono invece all’Occidente. Luoghi impenetrabili perché dominati dal caos. Così le distese russe che inghiottirono svedesi, francesi e tedeschi. Così anche l’immenso subcontinente indiano, sfiorato con uno sguardo da Alessandro Magno, incapace di convincere il suo esercito di macedoni, di greci, di occidentali a spingersi in quell’infinito barbarico.
Qui il discorso di Jünger sembra convergere con quello del suo prestigioso interlocutore, Carl Schmitt, che sottolinea l’importanza delle contingenze storiche, uniche ed irripetibili, atte a determinare una certa disposizione geopolitica e spirituale nelle nazioni e nelle culture. Terra e Mare sono i parametri essenziali. Condizioni uniche ed irripetibili di una contrapposizione storica che non ha paragoni. Il mare coincide completamente con la tecnica, la tecnica di una nave e di una flotta: il mare è apparentemente privo di forma, simbolo di un Divenire puro. Di un incedere cieco, che si può dominare solo con l’ingegno e con l’arte. Così la storia consacrò inevitabilmente ad avanguardia del mare e della tecnica l’Inghilterra:
«Un’isola europea si è staccata dal continente europeo, e un nuovo mondo marittimo, di cui quell’isola divenne fautrice, si è contrapposto al mondo della terraferma. Il mondo marittimo ha fatto da contrappeso al mondo terraneo, tenendo in mano, come una bilancia, l’equilibrio della terra, e quindi la pace del mondo. Questo fu il risultato di una risposta concreta alla chiamata degli oceani del mondo che si stavano aprendo. E appunto su questa isola Inghilterra, che aveva risposto all’appello degli oceani che si stavano aprendo, compiendo il passo verso l’esistenza marittima, nacquero all’improvviso le prime macchine.»
La tecnica è dunque un prodotto rispondente a determinate esigenze, che rispecchia un determinato contesto e, come già evidenziato da Jünger, un determinato ethos. L’ethos non è tuttavia esportabile. Si può insegnare la conoscenza dei fenomeni, ma non la realtà che si cela dietro di essi. Le regole del gioco sono imposte dalla tecnica stessa. Il Giappone scelse di sopravvivere imbracciando la modernità ma fu condannato a perire, dalla sopravvalutazione delle sue stesse forze. Se però le onde del mare si infrangono ed erodono in questo modo la stabilità della terra, la terra per riflesso ritorna in forme diverse, nel subconscio collettivo.
In un mondo coinvolto quasi necessariamente nel destino dell’Occidente, talvolta incapaci di percepire i pericoli e i lati oscuri della tecnica, i popoli occidentali e quelli occidentalizzati percepiscono il riemergere di antiche pulsioni. Ciò si manifesta in una guerra globale, descritta da Jünger come una guerra civile globale. Una crisi generale dell’ethos, ovvero una crisi dell’Occidente, della sua percezione. Allentamento della tensione razionale che si accompagna necessariamente all’emergere di nature orientali. Orientali come gli ultimi imperatori romani o simile, nel suo dispotismo arbitrario, a quella di Hitler, sul quale Jünger si dilunga ampiamente, descrivendone l’affinità elettiva con il suo nemico Stalin. Hitler incarna per efferatezza un modello di principe orientale simile più ad un Gengis Khan che ad un Napoleone o ad un Federico II:
«Quel genere di grandezza che Hitler incarnava non era, laggiù, né insolito né scandaloso. Non avrebbe dovuto fare i conti né con un’opinione popolare che paragonasse la sua grandezza a modelli radicati nel profondo, né con l’avversione etica dei capi, che avevano ereditato il potere degli zar.»
Anche in questo caso è una crisi a disvelare l’incubo. La voragine aperta in Europa dal collasso di quei fragili terrapieni rappresentati dalla Prussia e dall’Impero asburgico ha aperto ad una crescente spirale di violenza e al rinnovato e serrato confronto tra Oriente e Occidente. Gli dèi olimpici trionfarono sull’antico mondo titanico, simboleggiando la vittoria di un’etica superiore giunta al potere. Una vittoria non definitiva, al termine di una battaglia che nelle parole di Jünger si svolge costantemente ed interiormente in ogni individuo. Così nello stesso Alessandro Magno, serpeggiano entrambe le componenti, espressione e simbolo di un inconscio che è prima individuale e poi collettivo.
La terra, che è Oriente, diviene dunque oggi marea incontenibile di flussi e riflussi. Di una volontà mai sopita di rivalsa sulla nemesi occidentale. La tecnica è messa al servizio di imperi ambiziosi, desiderosi di sfruttarne il potenziale per colpire con i suoi stessi mezzi i propri rivali. Mezzi che si traducono in intelligenza artificiale, Internet 4.0 ed uso spregiudicato dei social network. Parimenti l’Occidente prova a contrapporre un’ulteriore manifestazione di forza. Lo fa in un crescendo di violenza. La moderazione viene meno, nel lessico e nelle decisioni politiche quotidiane. La guerra, combattuta contro nemici percepiti come insanabilmente lontani dall’Occidente, si deve combattere con mezzi feroci. Nel frattempo la libertà sembra arretrare. Se la Terra si serve della tecnica come puro strumento, cifra e significato dell’Occidente è il rischio di un tramonto del proprio ethos, annebbiato dalle forze che le sue propaggini insulari hanno disvelato:
«Nella nostra epoca l’oppressione è potenziata dall’utilizzo dei metodi dell’ingegneria meccanica e della statistica automatizzata. In tal modo, lo sfruttamento e l’imbavagliamento vengono portati al massimo livello. Di fronte a una simile impotenza il male potrebbe sembrare insanabile, tanto più che minaccia di propagare i suoi sintomi in tutti i Paesi del mondo.»