Il 28 giugno del 1914, due colpi esplosi da una FN Modèle 1910, Browning, uccidono a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe, e la consorte Sofia Chotek, duchessa di Hohenberg. La Bosnia è influenzata dal movimentismo eversivo serbo, come pure dalle posizioni, decisamente slavofile, dell’ambasciatore russo Nikolaj Hartwig. Centodieci anni fa il Vecchio Continente, dopo un mese d’indagini poliziesche a cosmetico delle necessità geostrategiche d’ogni impero e Stato, avrebbe fatto i conti con la Prima guerra mondiale. Gavrilo Princip, il giovane attentatore bosniaco, appartiene all’associazione di stampo nazionalista “Giovane Bosnia” e colpisce quasi per caso i due coniugi. Alle dieci del mattino, come da programma, Francesco Ferdinando e la moglie attraversano la città quando un’automobile della scorta viene colpita da bomba lanciata maldestramente. Poco dopo, l’arciduca decide di recarsi in nosocomio per far visita all’unico ufficiale ferito dall’esplosivo, percorrendo una strada che non rientra nei piani. A quel punto i due incontrano il proprio destino.
La notizia non scuote l’Europa e nemmeno Vienna, Francesco Giuseppe interrompe le vacanze per quanto accaduto e rientra nella capitale; tuttavia, non è dispiaciuto del fatto che al trono ora gli sarebbe succeduto Carlo Francesco Giuseppe, arciduca, suo pronipote e nipote di Francesco Ferdinando. È importante ricordare che, oltre a non esser una figura di primo piano nella politica internazionale – nonostante fosse erede al trono – l’Europa s’era abituata, nell’ultimo ventennio almeno, agli attentati verso regnanti e uomini politici. Il fatto passò come caso di cronaca e nulla più. La ventiquattrenne Agatha Christie annotò sul proprio diario: «Quando nella lontana Serbia venne assassinato un arciduca, sembrava un fatto lontano; in quei Paesi la gente è stata sempre assassinata». Per quanto concerne invece la disponibilità verso una guerra generale delle potenze europee, pare significativa la sintesi di Astuto: «In generale, i governanti, i diplomatici e i monarchi vogliono evitare la guerra per le conseguenze politiche e sociali incalcolabili. Francia, Gran Bretagna e Russia, in possesso di grandi imperi extraeuropei, sono interessate a mantenere lo status quo. Solo la Germania presenta una situazione inconciliabile con i suoi interessi a lungo termine. Potenza giovane e ambiziosa, deve scegliere tra la sua ascesa e la sua emarginazione. Da ciò deriva la sua disponibilità a correre il rischio di una guerra qualora questa si riveli necessaria».
Pur vero che per quanto l’Impero tedesco fosse disposto a correre il rischio d’un conflitto armato fra potenze secondo ciò che la sua geopolitica gli imponeva – lo dimostra il piano Schlieffen preparato già nel 1905 che prevedeva, con dovizia di dettagli, tutte le cifre e tutte le manovre militari volte a condurre una guerra su due fronti: Orientale (Impero russo) e Occidentale (Francia) – furono alcuni protagonisti della vita politico-istituzionale austroungarica ad accelerare e far precipitare la situazione. Il piano Schlieffen s’articolava grossomodo così: conquistare Parigi in trentanove giorni e in quarantadue soggiogare i francesi tutti, passando dal neutrale Belgio e mettendo gli inglesi dinanzi il fatto compiuto; per poi successivamente concentrare le forze sul fronte orientale. Delle settantadue divisioni disponibili, dieci sarebbero andate al fronte orientale e sessantadue a quello occidentale. Di quest’ultime, cinquantaquattro all’“ala destra” (Aquisgrana-Metz); otto divisioni a quella “sinistra” (Lorena e Alsazia). Dare la “prima, e vincente, spallata”, era azione vitale per Berlino che doveva necessariamente accelerare per non trovarsi impegnata su due fronti.
Almeno Berchtold e Conrad, ma pure Francesco Ferdinando poi ucciso, da anni si mostravano intransigenti verso tutti i vicini – assoggettati in particolare, ma pure avversari e addirittura alleati – esasperando quel fanatismo di “divinismo”, già abbondante negli spiriti Asburgo. A ciò s’aggiungano altri due elementi: per Conrad la guerra agli slavi serbi e agli italiani andava fatta al fine d’eliminare per sempre anche solo l’ipotesi d’indipendenza; e perché no riconquistare territori perduti e reinstaurare una dimensione degna del nome Asburgo.
«Durante il terremoto di Messina del 1908 e durante la guerra di Libia del 1911, Conrad non esitò a sostenere apertamente, davanti a Francesco Giuseppe e contro il ministro degli Esteri, Aerenthal, la necessità di una tale guerra preventiva: cosa che fece inorridite il vecchio sovrano gentiluomo ed esasperare il suo ministro, e che gli valse l’allontanamento, il 20 novembre 1911. Ma Francesco Ferdinando, per ripicca, volle, subito dopo, anche la testa di Aerenthal; e lo stesso Francesco Giuseppe, appena un anno dopo, richiamò Conrad nel suo precedente incarico, a causa dell’aggravarsi della crisi internazionale».
Per Berchtold, invece, valse quasi di più la motivazione personale, carrieristica: «Uomo di mondo, elegantissimo, superficiale, leggero, incerto, conserva nell’intimo la ferita del personale insuccesso subito l’anno precedente, quando gli stati balcanici hanno fatto il loro piacere, malgrado l’inutile mobilitazione austriaca, che i militari non gli hanno perdonato. Ambizioso, vuole, per l’onore del nome e per conservare la carica, una riparazione; l’assassinio di Sarajevo gli offre il destro per la rivincita; bisogna non perdere l’occasione; chissà se un’altra si presenterà ancora. La fortuna di un ministro può sfumare da un giorno all’altro».
Si può quindi asserire che Berlino pianificò una guerra generale sin dall’inizio del secolo, ma sotto un calcolo che seppur estremo e senz’altro molto pericoloso, era tuttavia razionale; Vienna si mostrò, come in occasioni precedenti, intransigente e bizzosa e nel luglio del 1914, con arroganza e presunzione eccessive, non considerò minimamente la conflagrazione europea e poi mondiale, per i possedimenti coloniali di molte potenze, che sarebbe conseguita. Di contro è altrettanto vero che spesso gli eventi della Storia del genere umano avvengono fortuitamente o, nel caso specifico, se l’Austria-Ungheria avesse ceduto alle richieste d’ogni entità politica, avrebbe probabilmente evitato d’innescare la Prima guerra mondiale, ma certamente si sarebbe disgregata. Lo stesso dicasi per l’Impero tedesco che vedeva in Vienna, correttamente, l’unico reale alleato e la disgrazia di quest’ultima una seria minaccia per sé stesso.
Nonostante la pallina sul piano inclinato che scatta il 28 giugno, apparentemente i governi europei non mostrano segni pugnaci; le diplomazie lavorano, anche se timidamente e talvolta maldestramente, alla riparazione pacifica. «Francesco Giuseppe non sembra propenso a punire la Serbia, prevedendo l’intervento della Russia e l’esplosione dei movimenti irredentisti all’interno del suo impero. Tuttavia, non può lasciare impunita l’arroganza del regno serbo, che si propone di cancellare l’egemonia asburgica nei Balcani». Di diverso avviso, come s’è accennato, Berchtold e Conrad, rispettivamente ministro degli Esteri e Capo di Stato Maggiore austroungarici. Malgrado tema che la situazione precipiti a causa dell’alleanza fra l’Impero zarista e la Serbia, che di riflesso trascinerebbe nello scontro pure la Francia, Berchtold si convince che con l’appoggio di Berlino, Vienna possa metter il mondo di fronte al fatto compiuto, senz’altre derive. Conrad a sua volta non aspetta che l’autorizzazione dal governo per eliminare una volta per tutte il movimentismo serbo.
Il 5 luglio del 1914, Francesco Giuseppe recapita una lettera a Guglielmo II, nella quale domanda sostegno per «la questione serba». L’ambasciatore austroungarico a Berlino, Ladislav von Szogyény, consegna la richiesta all’imperatore germanico in persona recandosi al Neue Palais di Postdam. Guglielmo II si mostra inizialmente dubbioso: comprensibile un’azione energica contro la Serbia, ma eventuali umiliazioni sarebbero state da scongiurare per evitare una guerra generale. A differenza dei due precedenti tentativi d’ultimatum austroungarici alla Serbia, nel 1909 e nel 1913, il Kaiser, dopo un’attenta riflessione consegna la «cambiale in bianco» all’ambasciatore che nel frattempo attende con nervosismo febbrile. Il giorno successivo Guglielmo II s’imbarca per una crociera sui fiordi norvegesi della durata di tre settimane. Berlino lascia all’oscuro il Generale Helmut Johann von Moltke, Capo di Stato Maggiore, a riposo alle terme di Baden e Alfred Peter Friedrich von Tirpitz, Segretario di Stato alla Marina imperiale, impegnato a “passar le acque” a Tarasp.
Eric von Falkenhayn, ministro della Guerra, è informato, ma ritiene che la situazione non richieda particolari attenzioni e s’appresta anch’egli ad andare in vacanza. L’unico effettivo a Berlino è il cancelliere Theobald von Bethmann Hollweg che reputa improbabile l’effetto a catena poiché le divergenze all’interno dell’Intesa sarebbero molte. Il ritorno dell’adesione tedesca a Vienna vincola l’azione austroungarica; Francesco Giuseppe si esprime così: «Adesso non possiamo più tornare indietro». L’ultimatum da spedire al governo serbo si decide debba avere condizioni talmente pretenziose da esser rifiutato quasi certamente; in maniera tale da preparare il casus belli.
Nei giorni successivi a Vienna si continua a discutere sul testo del documento da spedire in Serbia, ma le notizie dall’ambasciata a Berlino irrobustiscono sempre più la posizione dei Berchtold, Conrad, Ludwig Alexander Georg von Hoyos zu Stichsenstein ed Heinrich Leonhard von Tschirschky und Bögendorff, uomini influenti nella politica estera austroungarica. Il testo definitivo viene recapitato a Belgrado al ministro di Vienna Giesl; ordine di consegna: 23 luglio alle 17, in maniera tale da metter fuori gioco Poincaré, Presidente francese, che nei giorni dal 20 al 23 luglio del 1914 è in visita a Pietroburgo. Da tutte queste più o meno complicate macchinazioni politico-diplomatiche, l’Italia viene intenzionalmente lasciata fuori dai ministri austroungarici. Berchtold in persona in quei giorni tiene San Giuliano all’oscuro di tutto. Il ministro degli Esteri tedesco von Jagow, si raccomanda a von Flotow, ambasciatore a Roma, di non proferire parola con il marchese siciliano. Il timore tedesco, ma certamente austroungarico, è relativo all’ipotesi che Roma si metta di traverso ad un’azione bellica contro la Serbia. Il Trattato della Triplice Alleanza è esplicitamente «difensivo» e l’Italia nutre sentimenti serbofili, almeno per contrastare eventuali espansioni austroungariche.
Il 15 luglio del 1914, San Giuliano incontra l’ambasciatore tedesco a Roma che perlomeno lo informa delle richieste fatte alla Serbia dalla Duplice: misure severe contro la propaganda panserba ed uso della forza qualora Belgrado non collaborasse con Vienna. Promessa (all’Italia) d’alcuna annessione territoriale da parte austroungarica. San Giuliano è chiaro e fermo sull’interesse nazionale italiano e sull’essenza liberale del Regno d’Italia. Roma è contraria all’ingrandimento territoriale dell’Austria-Ungheria nei Balcani, come a misure coercitive che violino il diritto di nazionalità, postura filosofica di stampo risorgimentale. Il 22 luglio ci prova Vienna incaricando Kajetán Mérey, ambasciatore nella Capitale italiana, a mettere al corrente il marchese siciliano del coinvolgimento del governo serbo negli attentati. Il diplomatico tiene San Giuliano all’oscuro dell’ultimatum, ma il ministro degli Esteri “mangia la foglia” e avvisa i propri rappresentanti a Vienna e Berlino di manifestare lealtà alla Triplice, ma di restare “in campana”.
Come spesso è accaduto San Giuliano fa il possibile: una dura reazione sul piano diplomatico non sortirebbe alcun effetto, «dal momento che l’Austria non ha chiesto [sin qui, o almeno esplicitamente] in anticipo alcun parere all’Italia sulle decisioni prese dopo l’attentato a Sarajevo». Data poi la fragilità del Regio Esercito, sarebbe al momento impossibile anche soltanto pensare una mobilitazione e poi una guerra contro l’Austria-Ungheria. Infine, San Giuliano dialoga con Belgrado sobriamente, consigliando i serbi d’impegnarsi il più possibile nella riconciliazione con Vienna e ammonendoli di non fidarsi eccessivamente del sostegno russo e di non contare su d’un aiuto italiano oltre i metodi diplomatici. «Possiamo aiutare entro certi limiti, ma non faremo certo la guerra all’Austria per salvarla [riferendosi alla Serbia]».
Ad ogni modo, «orientato a far correre gli eventi senza ostacolarli, aspetta lo svolgimento di una politica [austroungarica] che definisce “il trionfo dell’imbecillità”». Il 23 luglio 1914, Vienna informa l’Italia dell’ultimatum, successivamente, come s’è visto, esser certa dell’appoggio tedesco, ma soprattutto della partenza per il ritorno in patria di Poincaré da Pietroburgo. Il ministro degli Esteri è in cura per la gotta a Fiuggi, fa chiamare Salandra per leggere insieme il contenuto del documento, con la presenza dell’ambasciatore Flotow anch’egli in condizioni cagionevoli di salute. I punti dell’ultimatum sono cinque: «1. Commissione d’inchiesta mista che dovrebbe agire in territorio serbo; 2. Scioglimento e soppressione di tutte le società panserbe; 3. Richiesta licenziamento e punizione degli ufficiali e dei funzionari serbi riconosciuti colpevoli dell’istruttoria di Sarajevo; 4. Misure per sopprimere nei libri e nelle istruzioni impartite in Serbia tutto ciò che possa fomentare idee panserbe e spingere all’odio e all’irredentismo nella Monarchia; 5. Condanna ufficiale del movimento panserbo».
Salandra e San Giuliano impallidiscono, ma pure von Flotow commenta, in francese, «Vraiment, c’est un peu fort». A tutto ciò s’aggiunga il tempo a disposizione concesso a Belgrado per la riflessione e la risposta: 48 ore. Antonino San Giuliano è l’unico in Europa a comprender istantaneamente la gravità della situazione. Ovviamente non si adopera alla pace per “irenismo”, ma sa che una guerra di portata potenzialmente europea sarebbe una catastrofe per le facoltà militari italiane e una Serbia robusta farebbe da contrappeso alla Duplice Monarchia nei Balcani. Dopo la metà di luglio, il ministro degli Esteri italiano ci prova nuovamente, triangolando con Vienna e Belgrado. Alla prima comunica che potrebbe non bastare, come da essa asserito, l’unione della Triplice per dissuadere Pietroburgo, mentre alla seconda consiglia di non aspettarsi troppo dall’Impero zarista poiché non disposto a far la guerra su scala, perlomeno, europea. Inoltre, aggiunge di sciogliere le associazioni panserbe in modo da spiazzare l’Austria-Ungheria, perder sul piano diplomatico, ma rimanere integra territorialmente e corroder nel tempo l’istituzione asburgica. Nel frattempo, San Giuliano spera che Pietroburgo comunichi a Vienna la volontà propria di scongiurare una guerra grande, anche se questo potrebbe generare l’effetto opposto, per quanto concerne l’idea austroungarica. Risposte negative su tutti i fronti, Vienna è convinta che l’appoggio tedesco sia sufficiente e che i russi siano impreparati; Belgrado crede fermamente nella sorella maggiore zarista.
Si è detto delle motivazioni di Leopold von Berchtold a proposito d’un intervento severo contro la Serbia, tuttavia, non fu l’unico in Europa ad avere il “dente avvelenato” per qualche antefatto, come di ragioni carrieristiche nello scegliere una via piuttosto d’un’altra. Sergio Dimietrievic Sazonof, «viso affilato, barbetta a punta, di carattere debole, esitante, soffre che militari e panslavisti lo giudichino pavido e si sforza di assumere atteggiamenti di uomo fermo e deciso, temendo che altre accuse di debolezza siano fatali per la permanenza nella carica di ministro degli esteri», si mostrava energico e risoluto verso l’Austria-Ungheria poiché Poincaré, nel gennaio del 1914, gli aveva comunicato esplicitamente che la Francia avrebbe seguito Pietroburgo «fin dove la Russia lo avesse desiderato». A ciò s’aggiungeva l’influenza su di sé della postura profondamente vendicativa di Alexander Isvolosky, ambasciatore a Parigi, che da ministro degli Esteri nel 1908 s’era visto sottrarre la Bosnia- Erzegovina per mano austroungarica; più precisamente: per mano di Berchtold.
Venendo invece a Raymond Poincaré, il presidente francese fu un moderato, ma nel profondo nutriva un deciso senso di révanche nei confronti dell’Impero tedesco perché di Natale lorenese. «Il suo cuore di lorenese, votato al culto della “révanche” si accende facilmente al calore della fiamma guerriera, che la sua presenza fa avvampare nei cortigiani, nella nobiltà splendente per le uniformi ed i gioielli. Al Palazzo d’Inverno, abbagliato dallo splendore dell’ambiente e del cerimoniale, ricevendo il corpo diplomatico, perde il senso della misura e, con assoluta mancanza di tatto, ricorda all’ambasciatore austriaco Szapary due “affari” disgraziati per la Ballplatz [all’epoca Ministero degli Affari Esteri, oggi sede della Cancelleria federale austriaca.] e lo ammonisce: «La Serbia conta amici caldissimi nel popolo russo. E la Russia ha un’alleata, la Francia. Quante complicazioni da temere!».
Il 28 luglio del 1914 l’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia dando il via alla Grande Guerra, mentre l’Italia si dichiara neutrale per una ragione politico-diplomatica, nella sostanza tattico-strategica, oltre a quella dell’impreparazione militare. La «dichiarazione Mancini», che ancora valeva, con la quale l’Italia evitava la guerra contro l’Impero britannico, era di fondamentale importanza per il ministro degli Esteri, in quanto si supponeva che con i suoi ottomila chilometri di costa, la Penisola avrebbe dovuto fronteggiare gran parte di conflitto armato per mare, contro le flotte inglesi e francesi. Roma sarebbe entrata nella Prima guerra mondiale nel maggio dell’anno successivo contro Vienna e nel giugno del 1916, contro l’Impero guglielmino.
Oggi il mondo si presenta radicalmente diverso nelle relazioni internazionali rispetto ad allora, malgrado la guerra sull’Europa orientale e la controguerriglia israeliana verso i procuratori iraniani abbiano portato alla ribalta il dibattito bellico. Tuttavia, nonostante ciò, similmente magmatico si presenta il mondo negli spiriti e nelle volontà di molti popoli e governi: il desiderio di tornare grandi e vendicare l’onta della sconfitta politico-militare nel caso della Russia; quello di giocare un ruolo da protagonista nelle vie principali delle azioni collettive umane, si pensi alla Cina, e ancora l’eterno ritorno dell’afflato imperiale ottomano, dopo un secolo di digiuno.