Douglas P. (Surrey, aprile 1956) è fondatore e membro unico dei Death in June, la formazione ritual-musicale che più di ogni altra ha gettato le basi per una nuova tipologia di ascolto e fruizione (non solo musicale) basata sull’aspetto ritual-esoterico del suono, delle parole, dei simboli. Le maschere, le rune, le divise delle SS, il Totenkopf, la mano con la frusta, le mimetiche. Tutto può condurre l’ascoltatore medio e distratto ad una band filonazista corredata del solito vocabolario. Death in June non è niente di tutto questo. Non solo l’utilizzo di tali simboli, di tali aspetti è una grossa provocazione così fagocitata da essere volutamente confusa per altro, ma è anche un modo per veicolare il messaggio chiave di tutta la loro produzione musicale.
Dalle ceneri della più grande tragedia che ci riguarda (la Seconda guerra mondiale) siamo ancora sovrastati da quelle rovine fumanti. Le parole, i testi, la prosa dei Death in June raccontano la decadenza (sotto forma di sogni, incubi, giochi di parole, suggestioni e visioni) dell’impero occidentale stravolto e sepolto. La caduta di tutti i valori divorati e sputati dall’individualismo sfrenato e dal capitalismo assoluto. Fu uno dei primi, difatti, per rimanere in ambito musicale, a giudicare davvero insignificante e dannoso uno spettacolo come quello del Live Aid (ambiguo modo di catalizzare l’attenzione sui problemi del terzo mondo, naturalmente irrisolvibili con un concertone) cartellone di buoni propositi e grosso spazio pubblicitario per i suoi artisti in cartellone.
Nel corso di quarant’anni di carriera, Douglas P. (quasi sempre accompagnato da un manipolo di musicisti) ha realizzato opere difficile, scure, dal forte impatto emotivo inventandosi a suo modo un genere e ciclicamente rinnovandone il sound partendo da una base tipicamente new wave (i primi dischi tra batterie elettroniche, synth e chitarre acustiche di album come Nada! o The World that summer) fino ad arrivare ad un folk originale ed oscuro (Brown Book, Rose clouds of Holocaust) al muro industrial-esoterico (Take care and Control) fino al minimalismo in musica degli ultimi decenni (il disco per solo piano e voce Peaceful snow). Nelle liriche; magiche, magnetiche, ricche di allusioni e spiazzanti, troviamo scampoli di sogni, riferimenti letterari (su tutti Mishima e Jenet) universo gay (dichiaratamente da sempre omosessuale) si nascondono i nostri vizi, la nostra decadenza, l’estetica da rinnovare, l’amicizia disinteressata da coltivare. Un esistenzialismo musicale senza precedenti. Miraggio di cenere in un deserto sporco. Parole che divorano l’incomprensibile, la carne, il nulla. La sodomizzazione del sacro.
Così canta in Runes and men:
“…Con i tuoi capelli di rose fiammeggianti
Il tuo bacio – Il tocco di Medusa
Trasformami in una colonna di sale
Poi la mia solitudine si chiude
Morire ora sarebbe la perfezione
Quindi, bevo un vino tedesco
E vado alla deriva nei sogni di altre vite…”
Oppure, in Little blu Butterfly:
“…Sole nero che muore
Sole nero che sorge
È impuro
È impuro?
Ombra di locusta
Questa è la bestia
Ombra di locusta
Questo è la lenta discesa
dell’autunno…”
E ancora, in Luther’s Army:
“…Come l’esercito di Lutero
E il fratello di Abele
Mi sono svegliato per trovare
Solo soffocamento
Un angelo grasso
alla festa di Satana
Dove la falsità, l’infanzia
E la solitudine svanisce…”
Parole raffinate e misteriose. Come cristalli di neve che diventano tempesta, come carta che taglia la gola del leone, le liriche di Death in June vogliono portarci nel limbo oscuro della nostra anima, per riadattarla e rimetterla a posto, assicurarsi di essere meno malvagi, provare il brivido della vera libertà in un mondo ricolmo di grasse e false speranze. Per chi è rimasto colpito, come me, dalla musica e dalla poetica decadente di Douglas P. rimane in bocca la sensazione del sangue non sputato (e ancora da sputare) l’orrore di sconfitta e decadenza di tutta la società occidentale ma anche, e soprattutto, il gusto per un’estetica ed un rigore in grado, forse, di tenere alti i cuori di ciascuno di noi.