Oggi resta forse solo un ricordo sfocato di Sergio Quinzio (1927-1996) a mio parere non solo un teologo ed esegeta biblico tra i più originali del secolo scorso, ma anche e soprattutto un uomo di fede, che prese tremendamente sul serio la propria, fino a porsi le domande più terribili e angosciose che nessuno aveva osato fare. Il suo cattolicesimo è quindi nel solco di coloro che non posseggono la gioia di questo mondo, la cui sofferenza grida verso la cupola del Paradiso. Una fede che è percorso personale. Sono difatti le esperienze di morte (prima durante la guerra, raccogliendo cadaveri per conto dei tedeschi, poi la malattia della moglie, che continua a straziarlo senza tregua) a forgiare il suo pensiero così originale, trasformando l’uomo in una specie di profeta.
Rispettato da pensatori come Cacciari, Vattimo e Ceronetti, ex guardia di finanza che pone la divisa per l’esilio all’alba della morte di Stefania, la giovane moglie, per buttarsi a capofitto in un commento alla Bibbia che lo vedrà impegnato per cinque anni. In tutti i suoi scritti, da Diario profetico (Guanda, 1958) all’ultimo, Mysterium iniquitatis (Adelphi, 1995), l’attesa mai appagata e tanto promessa da Dio al suo popolo. L’escatologico atto della fine di ogni pena, di ogni orrore, con la beatitudine e la resurrezione dei morti. Il suo essere, ancora e nonostante tutto, segno del permanere nel tempo, del suo irrinunciabile senso escatologico e della sua ineliminabile destinazione messianica.
Nel mondo moderno, tanto cambiato dagli ultimi strascichi del Novecento, e soprattutto alla luce degli ultimi fatti mondiali, la domanda di Quinzio sembra continuamente acquisire senso. Richiamo a quella promessa mai avvenuta (o forse già avvenuta, come sostiene in un libro intervista, La tenerezza di Dio, edito da Castelvecchi) eppure sostenuta da una fede mai abbandonata, da una speranza mai riposta, da una incredibile tenacia cattolica. Come ammetteva, “Mi resta solo un brandello di fede, che rende tutto più difficile!”.
Dialogando anche con la figlia, Pia Quinzio, autrice di un bellissimo ritratto degli anni vissuti accanto al padre (Mio padre e io, Armando Editore, 2016) sono emersi alcuni dettagli privati, ricordi; la visione di un pensiero che non dovrebbe spegnersi mai.
Perché io comunque continuo a domandarmi quanto quella visione escatologica potrebbe ancora fornirci spunti per non arrenderci davanti al continuo orrore del quotidiano. Così mi rivela Pia Quinzio:
“…quando siamo venuti qui a Isola del Piano avevo sette anni, e la mia principale preoccupazione era di stare il più possibile fuori casa a giocare; venivo da una grande città e forse può lontanamente immaginare la gioia di vivere in un luogo nel quale potevo andare e venire a mio piacimento (tolto il rispetto rigoroso degli orari) e in cui – dati i tempi – non occorreva prendere appuntamenti perché i bambini si trovassero fra loro a scorrazzare per i vicoli del paese. Mio padre era sempre disponibile e attento alle richieste e alle provocazioni di ciascuno, ma tra me e lui il dialogo è sempre stato difficile. Solo negli ultimi anni, in un paio di occasioni nelle quali è venuto a trovarmi fermandosi per una notte a casa mia abbiamo parlato un po’. È stato in una di quelle occasioni, se ben ricordo, che è tornato a promettermi che nel libro che voleva sempre scrivere a proposito del Grande Inquisitore ci sarebbe stata una dedica per me: Dostoevskij era una passione comune, io lo avevo scoperto prestissimo in occasione di un soggiorno fiorentino a casa di Sergio Givone rimanendone ovviamente folgorata!”.
Ma Sergio Quinzio non ha solo scritto e pubblicato (quasi tutto su Adelphi, e oggi con la morte di Calasso, speriamo comunque in una qualche ristampa di titoli ormai fuori catalogo come La fede sepolta e La croce e il nulla) saggi profetici ma è anche stato giornalista, opinionista e studioso di ebraismo.
Dall’epistolario durato trent’anni tra Sergio Quinzio e Guido Ceronetti emerge la continua collaborazione con riviste specializzate e importanti quotidiani nazionali. Un’attività parallela a quella principale di saggista e scrittore. La figlia Pia è riuscita a scovare e a inviarmi qualche articolo. Uno di questi mi ha particolarmente colpito visto che Sergio Quinzio, dotato di una forte ed inedita ironia, discuteva di una celebre “pandemia” targata anni ’80, l’Aids, pur mantenendo sempre fede alle tematiche dei suoi scritti:
“…A mio modo di vedere non si può negare che l’esplosione dell’Aids, insieme ad altri fatti, come il disastro di Cernobyl o il dissesto ecologico, getta una pesante cappa di sospetto e di dubbio sul moderno ottimismo della libertà e del progresso. Anzi mi pare inutile attardarsi a puntellare una concezione del mondo e della storia che troppe cose ormai contraddicono…”.
Una raccolta di articoli usciti in questo caso per La Stampa sono racchiusi in una raccolta dal titolo Incertezze e Provocazioni. Pia Quinzio continua il racconto: “…delle collaborazioni di mio padre con i giornali, o meglio della loro genesi, ricordo poco. Sicuramente quando iniziò quella con Il Giornale ero piccola, da quella arrivò tutto il resto… Da dove venne la chiamata di Montanelli (o chi per lui) non saprei, posso solo dirle che mio padre aveva numerose conoscenze nel panorama degli intellettuali dell’epoca e che aveva collaborato con Tempo Presente. Per La Stampa i contatti erano con Lorenzo Mondo, ricordo che si sentivano spesso e fu a quel tempo che sentii parlare per la prima volta di anoressia, la terribile e misteriosa malattia che aveva colpito la figlia del redattore di Tuttolibri. Gli argomenti degli articoli erano vari, legati all’attualità politica e non. Per quanto mi riguarda io ho apprezzato il lavoro di mio padre come giornalista ben prima di scoprirlo come scrittore!”.
Personalmente ho ritrovato le lucidissime interviste (alcune raccolte nel sito di Radio Radicale) dove Quinzio, sempre con suo personalissimo savoir-faire elegante e distaccato, interviene in merito a questioni differenti: il processo Mambro e Fioravanti per Bologna; la cultura Cattolica contro quella Laica al meeting di Rimini, i cattolici e l’editoria che cambia, l’etica senza fede, ecc…
Sviscerando la sua opera, si arriva alla raccolta di testi inediti, L’esilio e la gloria in cui Quinzio scrive:
“Sono in lotta con il tempo, ne è rimasto poco con il quale è ancora possibile che si compia il miracolo, pochissimo, temo. Forse so di dover morire nella disperazione che anche questo tempo è finito. Una disperazione senza più amore, senza più rimpianti, senza più nulla solo disperazione secca come le ossa. Ma se il Signore vuole, anche in questo punto griderò che le ossa secche risuscitino”.
La cosa che colpisce di più è quel Ma. Perché penso che sia proprio in questo accenno di speranza che si accumula la tensione di tutto il suo pensiero, il timbro della sua testimonianza di fede. Quanto davvero la sua speranza così inestirpabile è riuscito a legarlo all’eterno ritorno, alla remota possibilità della resurrezione dei morti e soprattutto, come lui spesso ne ha fatto cenno, al ritorno dell’amata moglie?
Quinzio aveva comunque capito che la tensione escatologica via via è stata secolarizzata (cioè razionalizzata) ovvero l’ideale escatologico che era basato soltanto sulla speranza del miracolo di Dio che avrebbe creato nuovi cieli e nuova terra viene così interpretato come una possibilità di continuità ascendente nella storia. Conclude la figlia Pia:
“…oggi la sua voce rimane ancora accesa. Anche se si tratta di una voce per pochi. Ma alcuni studenti mi contattano per sapere di lui e del suo percorso per finalizzare alcune tesi di Laurea che direttamente o indirettamente hanno a che vedere con mio padre. Ecco, questo è nutrire ancora speranza per un rilancio di un pensiero rimasto originale e che ancora oggi può servire per slegarci dall’impaccio del contemporaneo”.
Possiamo aggrapparci ancora a qualche barlume di speranza riproponendo le stesse domande che hanno sconvolto e accompagnato la sua vita restando in attesa (con o senza fede) di quella antica promessa mai risolta.