Si chiama Jack Teixeira, ha ventuno anni, e fino a qualche giorno fa era l’uomo più ricercato d’America. Secondo l’FBI ci sarebbe lui all’origine della fuga di notizie che, all’inizio del mese, ha portato alla diffusione via Internet di oltre cento pagine di documenti top secret del Pentagono; un corposo potpourri di cifre, analisi e scenari inerenti la campagna in Ucraina, insieme a materiale d’intelligence che getta luce su diverse attività spionistiche statunitensi condotte (anche) nei confronti di Paesi amici. Mentre le autorità federali cercano di capire cosa abbia spinto il giovane riservista della Massachusetts Air National Guard a scatenare quello che un portavoce del Dipartimento della Difesa ha definito «il più grave leak degli ultimi dieci anni», il web e i media si chiedono perplessi come sia stato possibile, per un militare di truppa all’inizio della carriera, mettere le mani su informazioni tanto sensibili.
Eppure, al netto della sorpresa iniziale – condita da una sana dose di assurdo: dapprima confinati al canale Discord privato di Teixeira, i file sono circolati a macchia d’olio dopo essere giunti sui server del popolarissimo videogioco Minecraft – e dei toni sensazionalistici dei giornali, le rivelazioni della talpa sono tutt’altro che dirompenti. Il quadro che emerge dall’intera vicenda rappresenta piuttosto la conferma di una serie di fatti raccolti nel corso della guerra, o di speculazioni non di rado corroborate in via diretta da testimoni sul campo; quasi nulla di quanto si legge nel carteggio è in sé e per sé una novità. Da un punto di vista militare, l’elemento più significativo è senza dubbio lo scetticismo dei vertici delle forze armate di Washington rispetto all’eventuale successo dell’attesa offensiva di primavera ucraina (che rischia di venire posticipata, se non addirittura annullata): nonostante i mesi di preparazione e l’ingente accumulo di uomini e mezzi, i generali USA si aspettano risultati assai modesti.
Ad incidere sulla valutazione è innanzitutto la cronica scarsità di munizioni d’artiglieria, ormai divenuta un’insopportabile spina nel fianco della coalizione occidentale. Con le tempistiche della produzione dilatatisi aldilà delle peggiori previsioni – ad oggi il completamento di un normale ordine di granate da 155 millimetri richiede oltre due anni – ed il macchinoso programma di supporto europeo già arenato sulle obiezioni della Francia, ai soldati in prima linea non resta che razionare il poco che hanno a disposizione. Ne consegue una pesantissima riduzione del volume di fuoco: una tabella logistica riporta un consumo di poco più di mille colpi nell’arco di ventiquattr’ore, contro una media giornaliera stimata per i russi in circa ventimila (!). Anche tenuto conto delle accennate misure di contingentamento, il flusso di materiale da Ovest è assolutamente inadeguato a soddisfare il fabbisogno del fronte, dove questo mostruoso divario si riflette in negativo sulle operazioni terrestri presenti e future.
Altrettanto critica la situazione dei sistemi a lunga gittata e per la difesa aerea. Le celebri batterie HIMARS, fondamentali per la fase preliminare del prospettato contrattacco, sono pressoché ridotte al silenzio; le scorte di intercettori antimissile S-300 e BUK dovrebbero esaurirsi entro la metà di maggio, lasciando i cieli coperti soltanto da armamenti a medio e corto raggio. Si palesa dunque la minaccia dell’aviazione del Cremlino, giudicata «intatta» nei documenti e che durante le ultime settimane ha effettuato un numero senza precedenti di sortite, a riprova del sensibile deterioramento delle capacità di risposta avversarie. Trova poi riscontro la notizia, divulgata dal New York Times la scorsa estate, della presenza di commandos americani nella zona di conflitto: li accompagnerebbe un’ottantina di colleghi NATO, ben cinquanta dei quali britannici, presumibilmente impegnati in azioni di ricognizione avanzata e acquisizione obiettivi di concerto con gli assetti dell’Alleanza – droni, velivoli e satelliti – assegnati al teatro.
Il vero tallone d’Achille di Kiev sembra però essere la composizione dei suoi nuovi reparti. Nel dossier sifa riferimento ad un gruppo di dodici brigate, incluse nove equipaggiate per intero dal blocco atlantico con circa duecentocinquanta carri, ottocentocinquanta blindati e centocinquanta cannoni: equamente suddivise, tali attrezzature bastano a malapena per un reggimento o, nel caso degli MBT, un tipico battaglione corazzato. Ancora, cinque delle suddette brigate vengono indicate come aventi un livello di addestramento pari allo 0%; il dato, che risale a marzo, non può non destare seri dubbi sulla reale prontezza delle unità destinate a guidare l’assalto alle roccaforti russe in Crimea, spesso create amalgamando distaccamenti della Difesa Territoriale decimati nei feroci scontri di questi mesi. Stando ad alcune fonti non più di trentacinquemila coscritti sarebbero inquadrati nelle formazioni così costituite, ed è incerta l’entità del bacino di riserve a cui esse potranno attingere per rimpiazzare le inevitabili perdite.
Trascorso oltre un anno dall’inizio delle ostilità, quella dell’effettivo numero di caduti tra le fila ucraine continua ad essere una questione a dir poco contenziosa. Laddove è infatti possibile inferire con apprezzabile precisione quanti russi siano stati finora uccisi nella spetsoperatsija – una recente inchiesta della BBC ne ha identificati circa sedicimila; diversi milbloggers locali ipotizzano che il totale si aggiri intorno a cinquantamila – gli alti comandi delle ZSU mantengono per converso un persistente riserbo, perfino con le controparti estere. Il Pentagono in primis sembra esserne consapevole: una nota a margine di un rapporto dedicato alle casualties avverte che gli esperti di D.C. hanno «scarsa fiducia nei tassi d’attrito […] ucraini, a causa di […] potenziali pregiudizi nelle informazioni condivise […]». Detto altrimenti, è verosimile che il conteggio ufficiale di diciassettemila morti al quale le stesse carte si richiamano sia truccato al ribasso, nell’intento di fornire agli alleati un’immagine favorevole.
Ecco allora che l’affaire assume un’inedita dimensione politica. Aldilà dell’elemento più squisitamente tecnico – i servizi a stelle e strisce hanno maggior contezza della situazione del nemico che di quella dello Stato partner – le considerazioni espresse dagli analisti restituiscono appieno la complessità di un rapporto ben meno scontato di come le narrazioni di comodo di entrambi gli schieramenti vorrebbero dipingerlo. Insieme al leak, episodi quali la manovra diversiva su Kherson, il tentato assassinio del filosofo ultranazionalista russo Aleksandr Dugin (costato la vita alla figlia Daria) e l’esplosione sul ponte di Kerch dimostrano che Kiev conserva un notevole grado di autonomia decisionale, ma nel contempo evidenziano le divergenze e le contraddizioni interne alla compagine filoucraina; pur rimanendo nel contesto di una relazione dal chiaro carattere clientelare, Zelensky e i suoi sono stati spesso in grado di ribaltarne l’equilibrio, agendo in aperto contrasto col volere dei propri sostenitori.
Tocca adesso a questi ultimi cercare, ancora una volta, di conciliare i loro interessi regionali e globali con le istanze dell’imprevedibile socio est-europeo. Non sempre gli uni e le altre combaciano; le ripetute fughe in avanti di cui sopra esemplificano anzi la distanza che a tutt’oggi permane tra il cauto approccio incrementalista del grosso dell’Occidente ed il massimalismo degli ucraini. L’avanzata primaverile avrebbe dovuto in tal senso fungere anche da sintesi delle due distinte strategie; una risposta, per quanto temporanea ed imperfetta, alle perplessità di coloro – e non sono pochi – che si chiedono quale direzione debba prendere la battaglia che gli si sta consumando davanti. Questo sviluppo inatteso rende impossibile sciogliere davvero il quesito, e anzi fa largo all’impressione che le rispettive idiosincrasie siano insuperabili. La guerra di posizione rischia di arrivare nelle stanze dei bottoni, portandosi dietro uno stallo micidiale.
In conclusione, l’unica grande verità che si evince dai documenti è che ci stiamo lasciando illudere. Vale la pena di ribadire che quanto trapelato era in larghissima parte noto a qualunque osservatore attento: chi non ha visto non ha voluto vedere e, ne siamo convinti, continuerà a farlo fino a che i cannoni non avranno taciuto. Che i nostri governi o gli ucraini possano aver mentito è parimenti cosa banale e di poco rilievo, perché siamo comunque noi che gli abbiamo creduto, chi per sincera vicinanza e chi perché così gli conveniva. La coda può muovere il cane, ma solo se il cane glielo consente.