All’apparenza quella di Omar Hassan Al-Bashir, leader del Sudan dal 1989 al 2019, è la classica parabola del dittatore post-coloniale tipo: il colpo di Stato militare, la carriera da despota sanguinario, poi una guerra civile apocalittica e infine la deposizione, ironia della sorte, per mano di un gruppetto di subalterni scontenti. In buona sostanza una sequela di delitti ed atrocità che quasi risulta banale, tant’è comune nella Storia di quel periodo. Rispetto ad altri tiranni Al-Bashir può però vantare la dubbia distinzione di essere il primo capo di Stato a venir fatto oggetto — per due volte! — di un mandato di cattura della Corte Penale Internazionale: merito, si fa per dire, del ruolo apicale da lui ricoperto nella spietata repressione del movimento per l’indipendenza della regione occidentale del Darfur, a margine del citato conflitto intestino che per quasi un ventennio ha dilaniato il Sudan. L’accusa formulata dalla Procura Generale della Corte — creata nel 1998 a L’Aia, nei Paesi Bassi, con lo scopo di perseguire i responsabili delle più gravi violazioni dei diritti umani — è addirittura di genocidio; eppure, Al-Bashir rimane un uomo libero.
Trascorsi quattordici anni dall’incriminazione di Al-Bashir, la tragica vicenda del Darfur (dove, per la cronaca, le violenze proseguono nonostante il collasso del regime sudanese) ed il relativo strascico giudiziario, entrambi finora relegati alle note dei manuali specialistici, tornano inaspettatamente attuali. È di questi giorni la notizia dell’indictment di Vladimir Putin e del commissario presidenziale per i diritti dell’infanzia della Federazione Russa, Maria Lvova-Belova. Ai due vengono contestati i reati di deportazione illegale e trasferimento illegale di persone: stando ad un recentissimo rapporto ONU, circa sedicimila minori sarebbero stati prelevati dalle aree occupate a ridosso del fronte ucraino per essere condotti con la forza in territorio russo e venire offerti in adozione a famiglie locali. Bisogna precisare che, in contrasto con una credenza alquanto diffusa, simili atti non configurano da sé la fattispecie del genocidio — la quale si riscontra solo in presenza di un indubbio elemento di intenzionalità — ma rientrano piuttosto nella categoria dei crimini di guerra; comunque, il foro olandese dispone della piena competenza in materia.
Le smentite in proposito arrivate da diverse personalità di spicco del regime di Mosca sono da considerarsi quantomeno imprecise. Sebbene sia corretto affermare, come ha fatto tra gli altri il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov, che la Russia non è formalmente soggetta all’autorità della Corte (il Paese ha ritirato la firma in precedenza apposta sullo Statuto istitutivo), nella situazione in esame ciò non ha alcun rilievo; l’articolo 5 del medesimo Statuto stabilisce che la giurisdizione della CPI per quel che concerne i crimini di guerra è assoluta, e prescinde pertanto dal suo riconoscimento ad opera di una data nazione. Inoltre, l’articolo 12 consente agli Stati che non abbiano ratificato il documento di conferire alla CPI la facoltà di punire le infrazioni delle norme internazionali verificatesi sul proprio territorio, in deroga alla prassi ordinaria: è il caso dell’Ucraina, che nel 2012 ha siglato con l’organismo un accordo a questo scopo, poi rinnovato nel 2015 e ancora in vigore. Risulta inesatta anche la comune obiezione secondo cui Putin godrebbe dell’immunità diplomatica; in forza dell’articolo 26, tutti i privilegi derivanti dalla funzione pubblica decadono in sede di giudizio.
Insomma, il capo di Stato russo è ufficialmente ricercato: ne consegue l’obbligo per le entità parte dello Statuto (e la possibilità, per quanti non vi aderiscono) di procedere al suo arresto e alla successiva estradizione, qualora questi dovesse trovarsi all’interno dei loro confini. Esultano Zelensky — il numero uno di Kiev ha definito «storico» il provvedimento — e la coalizione occidentale, risollevati da un successo che arriva nel bel mezzo del momento di maggior difficoltà dall’inizio dell’invasione. Gli entusiasmi del blocco filo-ucraino sembrano però destinati ad avere vita breve. Stante il vincolo legale derivante dalla decisione della Corte, quest’ultima non dispone infatti né dei meccanismi giuridici, né del potere coercitivo necessari ad assicurarne il rispetto; in altre parole, l’effettiva esecuzione delle disposizioni della CPI dipende per intero dalla discrezionalità dei singoli attori statali, per natura propensi a sottrarsi ove possibile a quei doveri che, pur assunti di libera iniziativa, risultino divergere dai propri interessi particolari.
Alla questione penale subentrano dunque considerazioni di eminente carattere politico. Se si può dare per scontato che Bruxelles, Washington (fautrice, va detto, di un sistematico boicottaggio della Corte, le cui attività a carico di propri cittadini si riserva d’interrompere persino tramite l’intervento armato) ed i loro gregari siano più che disposti a dare seguito al mandato emesso dai giudici dell’Aia, lo stesso non vale per una folta compagine di Paesi, inclusi molti firmatari dello Statuto, che intrattengono con la Federazione importanti relazioni diplomatiche e commerciali. Vaste porzioni del Medio e dell’Estremo Oriente, dell’America Latina e dell’Africa costituiscono, de iure o de facto, delle zone franche avulse al volere della CPI, e dove anzi essa ha sovente incontrato una malcelata ostilità; in questo senso spicca appunto il dossier Al-Bashir, bloccato nella sua fase embrionale a causa del rifiuto da parte di una serie di governi del Continente Nero di fermare il presunto genocida, ad oggi latitante e, dal momento che il tribunale non procede in contumacia, non imputabile.
Un ulteriore e probabilmente insormontabile ostacolo alla concreta attuazione di quanto deciso dalla Corte è infine rappresentato dalla minaccia di ritorsioni. L’eventuale arresto di Putin verrebbe considerato alla stregua di una dichiarazione di guerra, e come tale riceverebbe una risposta che non si ha ragione di immaginare proporzionata; la prospettiva, terrificante, è quella di un gioco del pollo tra Mosca ed il resto del mondo, con lo scambio nucleare a farvi da plausibile conclusione. Tuttavia, uno scenario del genere presenterebbe dei livelli di pericolosità sufficienti a giustificare, anche e soprattutto in termini politici, l’attivazione dell’articolo 16 dello Statuto, attraverso cui il Consiglio di Sicurezza ONU può, a salvaguardia della pace, ordinare la sospensione — per un anno, rinnovabile — di specifiche indagini della CPI. Si tratta, beninteso, di un’ipotesi remota, ma non assurda: già in due distinte occasioni il Consiglio ha fatto ricorso, su iniziativa statunitense, alle prerogative di cui all’articolo 16, garantendo così al personale di peacekeeping USA l’immunità rispetto a potenziali inchieste.
Come il lettore può facilmente intuire, la presenza di questi precedenti e della disposizione sulla quale sono basati esemplificano quel complessivo fenomeno di politicizzazione delle organizzazioni internazionali in seno al sistema delle Nazioni Unite da tanti indicato come la radice della dilagante sfiducia nel sistema stesso. La (comprensibile) critica mossa da certi osservatori, ossia che l’utilizzo strumentale delle istituzioni e degli impianti normativi che le regolamentano svuota le une e gli altri di credibilità e legittimità, risente però della tendenza opposta: ai vari rami dell’ordine globale vigente si pretende, per idealismo o per vizio ideologico, di attribuire una terzietà incompatibile con la loro origine pattizia. Enti quali la CPI sono, e non possono non essere, politici, poiché esistono in virtù di una scelta deliberata degli Stati, e agiscono entro i margini di autonomia — non di indipendenza — da essi delineati a partire dalle proprie inclinazioni politiche; è quindi inevitabile che quegli spazi si allarghino e si restringano al cambiare delle suddette inclinazioni.
È questo il dato essenziale assente da parecchie analisi della risoluzione della Corte. Laddove il piano tecnico-giuridico è immutabile nella sua sostanza, il piano politico a cui esso è inestricabilmente legato resta fluido: con l’esito dello scontro russo-ucraino ancora in forse, la sorte di Putin e dei suoi è tutto fuorché segnata. Alla luce di ciò, la parentesi giudiziaria aperta contro di lui ha i connotati di una scommessa; da Eichmann a Miloševič, i grandi criminali del passato sono andati incontro alla giustizia soltanto dopo essere stati sconfitti sul campo, e mai prima. A ciascuno spetta cogliere cosa a suo avviso questo ci dica sul significato della nozione di justum nel diritto internazionale e sul suo rapporto con la nuda capacità di sopraffare. Di sicuro c’è che lo Zar continuerà a battersi. Per sopravvivere, ma altrettanto perché negli ultimi eventi intravede l’opportunità irripetibile di assestare un colpo devastante alle fondamenta di una struttura che è ormai determinato a distruggere.
La vittoria russa, per insperata e parziale che sia, segnerebbe il tramonto dell’architettura normativa su cui poggia la weltanschauung dell’Occidente. Che allora farebbe bene a non crogiolarsi nella sua percepita superiorità: quel che si conquista con la baionetta si difende con la baionetta, non con la penna di un magistrato.