È difficile smettere di pensare all’Ungheria come al convitato di pietra dell’Unione Europea. Ormai non sembra possibile scindere Budapest dalle sue politiche illiberali. La Commissione da un po’ di tempo ha cominciato a puntare i riflettori sulle pratiche di gerrymandering, cioè di disintegrazione e creazione di collegi elettorali ad hoc per facilitare il raggiungimento della maggioranza parlamentare di Fidesz, il partito di Viktor Orbán. Così come sulla progressiva perdita d’indipendenza degli organi di stampa e dei media televisivi, ormai in larga parte allineati al governo. L’Ungheria assomiglia molto alla Russia. Per buona parte del Novecento hanno condiviso i medesimi confini, prima che Budapest accendesse il nazionalismo per opporsi al nuovo nemico. L’ideologia nazionalista ha permesso di riavviare la storia quando altri credevano di esserne usciti, il rifiuto dell’allineamento a Washington è solamente venuto da sé. Come Mosca, Budapest sta cercando la propria terza via imperniata sul sentimento di amore di patria, che come tale non può prescindere da un rifiuto del pluralismo, sia politico che informativo.
Pare impossibile tenere due piedi in una scarpa, a meno che non si è Viktor Orbán. Il suo gioco, da molto tempo a questa parte, consiste proprio in questo: finanziare la costruzione del nuovo sistema adoperando i fondi dell’UE. È un gioco molto pericoloso perché il rischio che la corda si spezzi e i rubinetti si chiudano è altissima. E la conseguenza non è un semplice deficit di bilancio, ma l’aggravarsi di una crisi prima di tutto politica che nel migliore dei casi potrebbe concludersi con una sconfitta alle prossime elezioni. Mai come in questi giorni si ha la sensazione che l’Europa voglia giungere a una resa dei conti definitiva con il suo convitato di pietra. Un laboratorio politico da sei milioni di abitanti geopoliticamente vicino alla Russia e alla Cina; industrialmente interdipendente dalla Germania e dunque economicamente legato al rapporto con l’Unione Europea; spiritualmente legato all’asse teocon repubblicano-israeliano.
È un’ambiguità cui Orbán ha abituato. Lui, cresciuto nella Central European University di George Soros. La stessa che deciderà di chiudere con un decreto presidenziale qualche decennio dopo. L’approccio di Orbán riesce a essere contraddistinto da una forte ideologia di fondo, che rimane malleabile e strumentale al perseguimento dei suoi obiettivi strategici: rimanere distante dai suoi partner europei, bloccando per esempio il pacchetto di aiuti verso l’Ucraina, mentre mantiene il cordone attaccato a Bruxelles. Così ecco inquadrata la sfida capitale che il sistema ungherese sta vivendo in queste ultime settimane: i sette miliardi e mezzo di fondi del PNRR che la Commissione sembra intenzionata a bloccare potrebbero decretare l’avvio di una spirale mortale che Orbán difficilmente riuscirebbe a superare coi propri mezzi. L’unico modo per fermarla è apportare una serie di riforme volte a combattere la corruzione interna al Paese, secondo molti osservatori essere intrinseca al sistema e principale leva del potere a disposizione di Orbán.
Dall’altra parte c’è un problema di carattere prettamente geopolitico. Per l’Europa bruciare i ponti con il vertice più luminoso del Gruppo di Visegrad vorrebbe dire allontanare da sé un Paese storicamente “cuscinetto” con l’Oriente più autoritario e dunque ideologicamente distante. Specie in un’epoca in cui il dialogo euroasiatico. Per questo un gruppo di dodici governi europei, fra cui spicca – comprensibilmente – l’Italia di Giorgia Meloni, ma anche la Francia di Emmanuel Macron e la Germania di Olaf Scholz, sta chiedendo alla Commissione di ripensarci e di accettare i primi, timidi, miglioramenti sui temi controversi su cui si chiedeva a Budapest un deciso cambio di marcia. Meloni, Scholz e Macron chiedono sostanzialmente a Bruxelles di passare oltre. Non è questo il momento di regolare i conti con Viktor Orbán. La conseguenza sarà probabilmente che questo primo tentativo nella storia dell’Unione Europea di usare le proprie leve economiche per regolare le politiche di un Paese membro cadrà nel vuoto. Mentre l’Ucraina continuerà a essere la piccola nazione con una mentalità e aspirazioni da grande potenza. Viktor Orbán guadagnerà ancora tempo, ma ha finalmente visto molto da vicino lo scenario peggiore. La questione è solamente rimandata, mentre a livello interno l’opposizione sembra rafforzata dall’iniziativa europea. Le proteste, anche passive sono fomentate da un’inflazione che ha toccato punte del 20% mentre la politica di creazione di un tetto al prezzo della benzina sta dando frutti indesiderati, con alcune multinazionali che lasciano il Paese. Da più parti in tutto il Paese si registrano stazioni di servizio dove o è impossibile prelevare benzina oppure lo si può fare per quantitativi molto bassi, spesso non superiori ai 5 litri.
Quella di Orbán è la partita di poker del giocatore aggressivo, che fa del bluff la sua arma vincente, proprio perché perfettamente conscio del valore delle sue fiches, e quindi del suo potere contrattuale al tavolo dei giocatori. Non può esserci una credibilità internazionale senza una tenuta interna. La realtà è che se si vuole rientrare nella storia bisogna necessariamente farlo a muso duro, creando un sistema tanto forte quanto quello che si vuole combattere. La naturale conseguenza è che un governo forte attiri a sé sfide di egual fattura, le stesse che adesso Orbán sembra seriamente poter perdere. L’uomo che gioca da “apprendista stregone” in Europa mantenendosi in equilibrio fra i fuochi dell’aperta contraddizione, consapevole che non ha possibilità di fare essere “grandioso” nei modi di fare, ma solo gradasso. A capo di una potenza nella teoria, che non può farsi pratica. Anche perché quando arrivano i richiami alla “Grande Ungheria” – si veda la polemica sorta attorno alla sciarpa indossata da Orbán a metà dello scorso novembre – i più forti partner europei ci mettono poco a tarpare le sue velleità imperiali.
La sua internazionale sovranista ha visto in Giorgia Meloni – la donna che poco tempo fa cantava davanti a lui “Avanti ragazzi di Buda” – la speranza e la sconfitta più grande, dovutasi arrendere di fronte alla Realpolitik richiesta per governare un Paese come l’Italia. Difficile credere che in Francia o in Germania, qualora vi si creassero i presupposti, la storia possa andare diversamente. Rimane dunque un difficilissimo avvicinamento a Mosca, che però non può garantire gli scambi economici sostenuti sinora da Budapest coi suoi partner più occidentali. Alla fine Vikor Orbán rischia di rimanere da solo, un destino comune a tutti i leader che cercano di mantenersi in equilibrio su più fronti allo stesso. Il potere finirà per logorare il suo sistema fino a che arriverà il momento della sua esautorazione. Il può diventare simbolo plastico della costruzione di una nuova via, forse troppo in anticipo coi tempi.