OGGETTO: Cinquant'anni di Lodo Moro
DATA: 23 Ottobre 2024
FORMATO: Racconti
AREA: Italia
Il colonnello Stefano Giovannone, enigmatico protagonista dell’intelligence italiana, fu al centro della diplomazia parallela negli anni Settanta, incarnando l’ambiguità della politica estera del tempo. Incaricato di gestire il delicato equilibrio tra l’Italia, l’OLP e Israele, Giovannone giocò un ruolo cruciale nel Lodo Moro, un accordo segreto che evitò attentati in Italia. Figura controversa, la sua storia intreccia spionaggio e manovre politiche sotterranee, ed è caratterizzata da tensioni internazionali e compromessi strategici.
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Per comprendere la multiforme, poliedrica e prismatica figura di un uomo dei servizi segreti, le cui personalità sono oltremodo complesse (oltre che indigeste), bisogna anzitutto muovere dal contesto internazionale. Questo ragionamento è ancor più valido quando al centro della scena insistono personaggi ingombranti, come è stato il colonnello Stefano Giovannone, capocentro del SISMI a Beirut fra gli anni Settanta e Ottanta.

Fiorentino, classe 1920, Giovannone si fece notare durante la Seconda Guerra Mondiale quando, con un singolare blitz, liberò suo padre, ingegnere militare e progettista delle fortificazioni sotterranee di Fiume, finito in mano degli jugoslavi. Si arruolò nei carabinieri col grado di tenente e, dopo un breve periodo a Foggia, fu mandato a Mogadiscio, nell’allora Somalia italiana, dove fu reclutato nell’intelligence. La storia di Giovannone, fatta la premessa, è la storia di uomo che ha vissuto la storia del colonialismo italiano nell’Africa orientale, e, da Mogadiscio, ha iniziato a tessere la sua tela di relazioni.

In quegli anni il fenomeno della decolonizzazione invadeva i domini europei in Africa, Americhe, Asia e Medio Oriente, e le potenze occidentali, ciascuna secondo le proprie attitudini, necessitavano di riposizionarsi nello scacchiere internazionale. La dinamica dei contesti, soprattutto se si ragiona in termini di forze, di grandezza dello spazio, di regolazione dei confini terrestri e relazioni diplomatiche e politiche non può prescindere dalla capacità di visione e di orizzonte da parte dello Stato. Alla fine degli anni Sessanta il Ministro degli eteri italiano era Aldo Moro, esponente primario della DC, partito di maggioranza relativa al potere dal 1948, perno della cosiddetta strategia dell’equivicinanza. L’Italia, secondo questa teoria politica, per la sua posizione geografica, sebbene ancorata all’identità occidentale, europea e cristiana, ferma la consapevole necessità di non poter guastare i rapporti con gli Usa, iniziò a costruire una politica estera maggiormente autonoma, plasmata sul proprio legittimo interesse nazionale. Moro fu il fine stratega ed ideologo, Giovannone il generoso attuatore e tattico.

Nel 1972 il colonnello fu inviato in Libano dove sarebbe rimasto fino ai primi anni Ottanta. A Beirut – prima ricchissima e lussuriosa capitale, poi teatro di una ferocissima guerra civile –divenne l’interprete e il realizzatore della diplomazia parallela ispirata dalla politica estera di Aldo Moro. Nella metropoli mediorientale, centro dello spionaggio di tutta l’area vasta mediorientale, l’apparentemente dimesso colonnello dei carabinieri si sovrapponeva spesso e volentieri al lavoro ufficiale del corpo diplomatico, grazie un mandato che gli conferiva la più ampia discrezionalità e lo poneva al diretto comando del generale Vito Miceli, il capo del Sid. Il suo indispensabile lavoro, raggiunse massima efficacia, visto che fu proprio grazie al lavorio discreto di Giovannone che l’Italia riuscì a cavarsi da impicci serissimi. Il 14 gennaio 1973 gli uomini del Sid arrestano a Ostia un commando di cinque terroristi palestinesi, che si preparavano ad abbattere l’areo che trasportava Golda Meir, la premier israeliana attesa a Roma dal Papa. Dell’arresto, effettuato grazie all’apporto del Mossad, gli italiani avrebbero conosciuto una versione annacquata alcuni mesi dopo, quando i cinque arrestati erano stati interrogati in un carcere segreto dagli 007 italiani e israeliani. I cinque, consegnati alle autorità giudiziarie, furono scarcerati in attesa di processo e fatti evadere. Era un effetto del cosiddetto Lodo Moro. Questo trattato della diplomazia parallela tra l’Italia e l’Olp mirava a mettere al sicuro il nostro Paese dalle attività terroristiche di Al Fatah in cambio del riconoscimento politico dell’Olp. L’Italia pagò un prezzo carissimo: il Mossad, per rappresaglia, abbatté l’aereo militare Argo 16. Ma la reazione israeliana non cambiò di una virgola la linea italiana. 

Anzi, il Lodo Moro, grazie anche alla mediazione di Giovannone che triangolò in maniera magistrale con la Libia, fu esteso, dopo il grave attentato all’aeroporto di Fiumicino, a Settembre Nero, l’organizzazione guidata da George Habbash, il rivale di Yasser Arafat. L’ardita spregiudicata versione italiana del grande gioco spionistico fu gestita alla grande da Giovannone, diventato un uomo della provvidenza. Secondo un’ipotesi descrittiva del “lodo Moro” fornita da Francesco Cossiga, “l’Italia avrebbe lasciato libertà di passaggio ai palestinesi; in cambio, i palestinesi s’impegnavano a non fare altri attentati in Italia, a non dirottare aerei italiani, a non colpire cittadini italiani all’estero. Inoltre, l’Italia s’impegnava ad impedire che i servizi segreti israeliani continuassero a compiere “omicidi mirati” di palestinesi sul suolo italiano”. Il “lodo Moro”, detto in parole più semplici, era una doppia operazione italiana contraddistinta da un accordo di massima approvato in modo separato dalle parti in causa e da due mutevoli sottoaccordi relativamente compartimentati: da un lato con l’Olp e dall’altro con Israele. L’Olp e Israele, come stabiliva l’accordo di massima, non dovevano compiere attentati sanguinari nel territorio italiano. Per il resto, ognuna delle due parti avrebbe ricevuto in cambio qualche specifico favore dall’Italia.

La dimostrazione che quello e non altro era il modus operandi concreto del “lodo Moro” si evince da un lato dall’analisi di cosa fu veramente la “politica filoaraba” della Prima Repubblica e dall’altro dalla vera biografia di Stefano Giovannone, il capocentro del Sismi a Beirut che, fra le varie cose, aveva il compito di garantire l’applicazione del “lodo Moro”. 

Nel 1975, partecipando alla missione di Damasco e dando un aiuto di portata strategica al Mossad, Giovannone non tradì la “politica filoaraba” dell’Italia. Lui rispettava i protocolli e gli indirizzi stabiliti dai governanti italiani e avallati dagli Usa. Era uno specchio delle ambiguità, del cinismo affaristico e delle trasformazioni politiche dell’Italia e degli Usa. Favoriva triangolazioni commerciali di armi destinate ai palestinesi, spianava la strada alla conquista italiana di fette del mercato bellico mediorientale, puntava a far mantenere buoni rapporti economici dell’Italia con i Paesi arabi produttori di petrolio ma in pari tempo svolgeva delle attività a favore diretto o indiretto del Mossad. E il Mossad non realizzò attentati sanguinari sul territorio italiano dalla fine del 1973 all’inizio di ottobre del 1981.

Il declino del colonnello, infatti, iniziò con la scomparsa di Aldo Moro. Il Sid, travolto dagli scandali, divenne Sismi e lo 007 fu inserito nella nuova struttura senza alcuna promozione o gratificazione. Costretto a una non facile convivenza col generale Giuseppe Santovito, il nuovo capo dei Servizi militari, Giovannone continuò a manovrare in condizioni sempre più difficili in una Beirut stravolta dalla guerra. Finché non arrivarono le inchieste: da Venezia per traffico di armi e da Roma per la morte di Graziella di Paolo e Italo Toni.

Giovannone morì a metà luglio del 1985, mentre da qualche settimana si trovava agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Roma.

Carlo Mastelloni, Procuratore della Repubblica aggiunto a Venezia che indagò su Giovannone, a proposito del colonnello riportò nel verbale di interrogatorio una dichiarazione del militare: “La politica filoaraba è un atteggiamento che aveva il Potere allora ma noi siamo sempre stati fedeli all’Alleanza Atlantica. Per esempio, quando si trattava di dare armamento a Gheddafi sicuramente l’ambasciata americana dava il suo placet. Anche perché armare significa controllare un Paese. Certamente non gli davamo materiale di tecnologia avanzata. Quindi il ragionamento è molto complesso. Tant’è che alla fine di tutto, con Giovannone detenuto, chiuso il verbale lui (Giovannone stesso, ndr) dice: ‘Dottore, io lavoravo per la Cia’”.

Roma, Maggio 2024. XVIII Martedì di Dissipatio

Ritagliare libertà d’azione e margini d’autonomia, garantire la sicurezza e il dialogo in quella situazione internazionale fu il vero capolavoro diplomatico del Lodo Moro. Non unico “accordo” con forze e soggetti politici oggi considerati terroristi che l’Italia ebbe modo di siglare durante i decenni della Guerra Fredda. Probabilmente, lungo il sottile crinale tra sicurezza e legalità, il colonnello cercò di dare esecuzione alla visione politica di un mondo complesso, nel quale la distanza delle posizioni – fazioni opposte costituiva non un problema invalicabile bensì una condizione di partenza da superare per giungere se non alla pace quantomeno a periodi di stabilizzazione e concordia seppure provvisorie. Senza uomini come Giovannone e senza visioni e slanci che ebbero quale risultato il lodo Moro, gli interessi nazionali tra Stati confinanti sarebbero stati consumati dalla guerra, mentre invece si giunse a paci armate che per breve riportarono le persone al centro dell’interesse nazionale.

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