Si accendono le luci su Silone. A detta della sua biografa, Maria Nicolai Paynter, Fontamara “nella sua essenza era un processo di risveglio graduale della coscienza popolare verso i diritti e le responsabilità inerenti la condizione umana”. Insomma volando più basso di Malraux, Silone pare essere, secondo un altro recente biografo (Pugliese), “autore di un libro che svela il contrasto fondamentale tra una psicologia ancora semifeudale, quella dei cafoni, e l’irruzione di nuovi elementi di sfruttamento e oppressione”. Si tratta di un contrasto, continua lo studioso, fatto di tragicità ma al contempo comico e grottesco. Gli si può dar certamente ragione. Fontamara è ancora scorrevole e comprensibile, al pari dei romanzi picareschi di sempre. Sembra un genere che invecchia bene.
Ma al di là del romanzo c’è l’autore Silone. Quando ero iscritto a storia c’erano argomenti impronunciabili: tra questi, gli autori prima fascisti poi comunisti. Per non dire degli ibridi, degli informatori di regime. Il più inavvicinabile degli scrittori era poi proprio Silone. L’unico degli accademici che cercava di risvegliare le coscienze e di dir chiaro in sede di conferenze e convegni che Silone era stato una spia dell’OVRA era Simoncelli, autore tra le altre cose degli studi su un altro pomo della discordia scientifica, Delio Cantimori di cui prima o poi si dovrà parlare.
Silone era arrivato orfano a Roma dagli Abruzzi. Si dava da fare coi comunisti ma purtroppo per lui si rifiutò di considerare Trotskij alla stregua di traditore e quindi per questa sua diffidenza nei confronti di Stalin e della linea di partito prese la strada dell’esilio svizzero. Al riguardo il recente articolo inglese su Silone, per quanto “giacobino” nei modi e nella sostanza, è spassionato e chiaro. Rifugiatosi in Svizzera nel 1929, quindi a 29 anni tondi, Silone entra nella rete di Jung e Thomas Mann. Una dottoressa junghiana, Aline Valangin, lo aiuta a raccogliere fondi coi quali sentirsi tranquillo per cominciare a scrivere Fontamara. Un’altra donna, Nettie Sutro, ottiene il manoscritto che era tenuto in ostaggio dal pensionante a cui Silone non pagava l’affitto e lo traduce in tedesco. Un mecenate tedesco, Marcel Fleischmann, ospita infine il nostro in un’ala di casa sua per un buon decennio.
Insomma, una vita movimentata, fuori dalle pastoie della burocrazia letteraria italica, fosse o meno fascista. Al punto che Fontamara fu elogiata da Graham Greene (un po’ con la mano sinistra) e dai numi che contano: Faulkner, Edmund Wilson, Camus sino ad arrivare sugli schermi inglesi grazie alla BBC imbeccata da Orwell.
“In parte la disperazione di Silone era dovuta alla prigionia e in seguito alla morte del suo unico nipote, Romolo, falsamente accusato di aver attentato alla vita di re Vittorio Emanuele III. Silone sosteneva che il nipote fosse stato tenuto in carcere e torturato a causa sua. Il nipote morì il 27 ottobre 1932. Come se non bastasse, Silone doveva districarsi da una relazione che durava da anni col socialista Guido Bellone che era anche ufficiale di polizia. Nel 1996, diciotto anni dopo la morte di Silone, lo storico Dario Biocca rivelò materiale d’archivio da cui emergeva l’attività spionistica di Silone negli anni Venti, all’inizio della relazione con Bellone”.
Al rientro in Italia nel dopoguerra Silone non vuole più stare coi rossi e si aggrega allo PSIUP, una frattaglia socialista destinata a breve vita. “Aveva lavorato da vicino con Allen Dulles e l’OSS [prodromo bellico della CIA] contro i nazi negli anni Quaranta e Dulles l’aveva aiutato riportando in Italia la sua futura moglie, Darina. Però Silone incominciò presto a irritare gli americani con la sua autonomia. Silone voleva che si desse responsabilità legale agli italiani per governare il loro paese”. Come sappiamo così non fu e il capolavoro di manipolazione si ebbe con le elezioni del ’48. La DC era la loro testa di ponte.
Eppure, gli americani finanziarono ancora Silone. Si prese a stampare Tempo presente dal 1956 al 1968. Una rivista tutto sommato aperta rispetto ad altre dottrinarie. Sembra che sostenesse don Milani, per dire. Non se ne trovano facilmente gli indici ma notizie sparse si attingono qui.
Il critico inglese americano Richard Lewis quando servì in guerra fu distaccato in Italia e come succedeva alle teste d’uovo fece anche lavoretti di intelligence. Conobbe di persona Silone e ne conservò un ricordo come di intellettuale problematico. A suo dire i romanzi del ciclo abruzzese di Silone “sono uno sforzo per tracciare un sentiero fuori dal nichilismo del nostro tempo. Ricordano in qualche modo gli scenari delle comunità dei primi cristiani. La madre e la nonna di Silone, coi loro racconti di fiabe, erano la risorsa reale e miracolosa di Silone di cui i preti avevano paura e che i politici sconoscevano. Era una tradizione di resistenza benché non organizzasse rivolte politiche”.
Vero. Nelle fiabe italiane raccolte da Calvino le più strepitose sono quelle abruzzesi. Come dimenticare quel Re selvaggio che insieme al suo pappagallo aiuta una ragazza a sposarsi? Se volete capire Silone, leggete questa fiaba che ha – parola di Calvino – una vena di gentilezza col suo misantropo dei boschi, mezzo orco e mezzo re in esilio. E quel finale… E il pappagallo che ine fece? Sparì e non se ne seppe più nulla.
E ora due parole sull’operazione di intelligence culturale degli americani. Si giocava in Germania per tenere il continente, senza trascurare paesi africani e dell’estremo Oriente. Il muro di Berlino non esisteva ancora nel 1950 e l’aria che si respirava era quella delle sottili intese, delle tensioni impalpabili. In questo contesto la CIA col suo capoccia letterato, James Jesus Angleton, dà vita a un’organizzazione nota col nome di Congress for Cultural Freedom. Vi mettono a capo sette referenti coi relativi sostituti. Per l’Italia c’è Silone, appunto, insieme a Chiaromonte. Questa fondazione spalleggiava gli eventi di cultura anche in senso lato, tutti quelli che si tenevano in Europa e in zone del mondo già sotto l’impero inglese. I blocchi erano chiari ma si cercava di eroderli.
Nel frattempo la CIA in Francia foraggiava ex-comunisti come Malraux e Gide mentre in Germania si giocava a moscacieca: ogni transfuga da Berlino est (fosse pure uno che scappava perché stanco della moglie, come raccontava le Carré di qualche interrogatorio) veniva subito imbrigliato e accolto quale “testimone”, speranza viva di un Occidente che coagulava tutto intorno a sé. Per non farsi mancare niente, si spediva Auden in India a tener conferenze sulla Cultural Freedom, appunto, e in Inghilterra si stampavano Minerva e The China Quarterly oltre a Encounter che era smerciata soprattutto negli Stati Uniti.
Encounter può servire come corpus su cui fare un esperimento di lettura e capire cosa fosse l’influenza culturale in quel giro d’anni. Molti articoli si leggono online, alcuni a firma di Stephen Spender che insieme a Auden era una sorta di Dioscuro. Vi scrissero spesso sia Silone che Chiaromonte. Un articolo della rivista è tradotto qui. Un altro che ci scriveva spesso era un cugino di Nabokov col suo stesso cognome, Nicholas.
La rivista ospitò grandi firme anche dopo la disclosure, vale a dire la chiarificazione del 1966-67 che disse apertamente dei finanziamenti ricevuti sino ad allora dalla CIA. L’ironia della storia è che in quegli anni le cose di valore le sponsorizzava la CIA. Punto. Anche i capolavori di storia dell’arte che oggi stanno nel catalogo Feltrinelli come Rinascimento e Rinascenze nell’arte occidentale di Panofsky nascevano come testi per conferenze ospitate in paesi filoamericani come, in quel caso, la Svezia. Poi la rivelazione, l’apriti-cielo, il governo Johnson che evidentemente decide di tagliare i ponti con un certo passato e nel 1967 viene spiegato da dove sgorga il latte e il miele per le dotte disquisizioni cartacee.
Certo, Encounter mutò pelle anche dopo la campagna infamante del NY Times e continuò a pubblicare tranquillamente i vari Brodskij e Borges: un felice hortus conclus senza speranze politiche lampanti. Altre riviste in subordine come quelle che la CIA finanziava in Messico (Examen), Austria (Forum), Svezia (Kulturkontakt), Danimarca (Perspektiv), Libano (Hiwar) e Uganda (Transition) dovettero soltanto chiudere col volgere degli anni Settanta. Le più tenaci sopravvissero a singhiozzo fino agli anni Settanta in Francia (Preuves), Brasile (Cadernos Brasileros), Sud Corea (Sasangge), India (China Report) e Filippine (Solidarity). La carriera più onorevole è della rivista tedesca (Der Monat) durata sino al 1987.
Un politico navigato scriveva dalla California dopo le rivelazioni del NY Times una difesa della CIA che vale anche oggi: “Ricordo la gioia enorme che provai quando l’orchestra sinfonica di Boston ricevette più applausi a Parigi di JF Dulles e Eisenhower coi loro cento discorsi. E c’era anche Encounter pubblicata in Inghilterra e dedicata alla proposta culturale e alla libertà politica viste come interdipendenti. I soldi sia per la sinfonica che per la rivista venivano dalla CIA e pochi al di fuori di lei lo sapevano. Avevamo collocato un agente in una struttura europea nota come Congress for Cultural Freedom. Un altro agente divenne editor di Encounter. Gli agenti non solo proponevano programmi anticomunisti ai leader delle organizzazioni ma potevano anche suggerire modi e mezzi per risolvere gli inevitabili problemi legati al budget. Che problema c’era allora se saltavano fuori delle fondazioni americane? Gli agenti lo sapevano che queste fondazioni erano molto generose quando si trattava di interessi nazionali”.
Vorrei tradurre ancora la chiusa di questo pezzo perché è molto più chiara, a saperla leggere, di tutte le ricostruzioni barbose di quel periodo fatte sotto l’egida dei giurisperiti CIA. “Entro il 1953 eravamo operativi o influenti su organizzazioni internazionali in ogni campo dove i fronti comunisti avevano gettato le fondamenta prima di noi, e altre volte li avevamo anticipati. I soldi che spendevamo erano pochi per gli standard sovietici. E questo era il nostro programma. Limitare il denaro a somme che organizzazioni private possano spendere, credibilmente. Altre regole sulla stessa linea. Usare organizzazioni legittime e già esistenti; mistificare l’estensione dell’interesse americano; proteggere l’integrità dell’organizzazione senza chiederle di sostenere ogni aspetto della politica americana ufficiale. Lo status dell’arma era questo quando lasciai la CIA. Senza subbio si rafforzò in seguito come provò l’esperienza di chi c’era dentro. Era una buona cosa forgiare quest’arma? Per me, ora come allora, era essenziale. Era immorale, sbagliato, disgraziato? Solo nella misura in cui lo è ogni guerra. Perché la guerra fredda era ed è una guerra combattuta con le idee invece che con le bombe. E il nostro paese doveva fare una scelta netta: o vinciamo o perdiamo. La guerra continua e non voglio suggerire che l’abbiamo vinta. Ma nemmeno l’abbiamo persa”. Firmato Thomas Braden sull’Evening Post del 20 maggio 1967.
De te fabula narratur.