OGGETTO: Arashi: Owari – 終わり
DATA: 24 Agosto 2020
SEZIONE: inEvidenza
1945: l'anno della fine.
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La grande battaglia del Golfo di Leyte di ottobre 1944 si risolve con una disfatta completa per il Sol Levante. È quasi una decimazione totale dell’aviazione e della marina nipponiche. Una volta spazzate via le unità aeronavali, l’avanzata terrestre alleata nelle Filippine prosegue incontrando però un’accanita resistenza. A tentare di fermare le truppe di MacArthur c’è l’esercito di 260.000 effettivi del conte Hisaichi Terauchi e del generale Tomoyuki Yamashita detto “La Tigre della Malesia” ma anche “La Bestia di Bataan” dai giornalisti statunitensi. Ma se il numero di 260.000 soldati giapponesi può dare l’idea di un’armata potente, in realtà quegli uomini sono spossati e privi di rifornimento, e soprattutto non hanno dalla loro parte una sufficiente protezione aerea. I cieli ormai, sono dominio indiscusso del nemico. Il 20 dicembre le truppe alleate sfondano il fronte sud dell’isola di Leyte. I primi giorni dell’anno 1945 invadono Mindoro, il trampolino di lancio verso Luzon, la più grande delle isole dell’arcipelago filippino.  

Gli attacchi suicidi aerei si susseguono i primi giorni di gennaio. Il 4 un bimotore devasta la portaerei Ommaney Bay che diventa pira galleggiante. Il 5 una formazione suicida di sedici apparecchi provoca ingenti danni alla portaerei Manila Bay, agli incrociatori pesanti Louisville e Australia e ad altre navi. Gli aviatori Kamikaze sono scatenati e il 6 gennaio 1945 soffia forte il vento divino delle aquile che a noi occidentali paiono impazzite, ma invece sono lucide. Dalle 11.45 del mattino fino a notte, sciami inferociti cercano e si gettano contro le navi nemiche. La tattica suicida terrorizza i marinai americani; è un’arma che provoca notevoli effetti psicologici. D’altro canto però, e il comando alleato ne è conscio, le già striminzite e mal pilotate forze aeree giapponesi si assottigliano sempre più. 

La Ommaney Bay in fiamme

1945: l’anno della fine: Owari – 終わり – la fine. Il samurai del Sol Levante è ferito grave e circondato da mille baionette, ma ancora vuole combattere, anche senza spada; se necessario lotterà con le mani e coi denti, disposto a spingersi al sacrificio totale, a chiudere gli occhi per sempre affogando nel suo stesso sangue. I difensori alle strette scatenato la loro arma micidiale, che è anche quella disperata. Logica dell’utile martirio, ovvero un solo uomo su un aereo solitario può – in teoria ideale ed epica – affondare una grossa nave intera. L’alto comando, di fronte al fatto compiuto di dozzine di iniziative personali, comincia a maturare la cinica strategia di infliggere al nemico il massimo danno con perdite minime, ciò tramite l’organizzazione che incanali e sfrutti al meglio i sentimenti di sacrificio supremo di piloti suicidi volontari. In un contesto storico in cui i giapponesi hanno esaurito le risorse militari e gli americani hanno invece maturato una capacità industriale inesauribile, il principio kamikaze, nella sua fredda e terribile tattica, ambisce a rimettere in discussione i rapporti di forza tra i contendenti e la schiacciante superiorità navale degli USA, inoltre porta in sé il desiderio di vendetta, e la voglia bruciante di riscattarsi dall’impotenza.

In una situazione militare disperata, si è in cerca di miracoli. I miracoli nel 1945 per il Giappone non si compiono più, ma sono chimere di fuoco che incantano popolo, ammiragli, giovani patrioti. Kamikaze – vento divino, per ricordare l’intervento di Forze Onnipotenti capaci di salvare il popolo dall’annientamento, come il 15 agosto 1281 quando la flotta cino-mongola composta da migliaia di navi cariche di guerrieri di Kublai Khan fu distrutta da una grande tempesta prima che potesse invadere il Giappone. Kamikaze: dopo secoli, il vento divino ora è la volontà estrema dell’uomo che plasma l’acciaio della macchina in un mezzo di sterminio mediante urto. Cuore di guerriero più corpo votato alla morte più destriero meccanico uguale la bella morte per il pilota giapponese. I volontari sono tanti, più degli apparecchi ancora disponibili, e i veterani e più abili al volo vengono scartati: loro servono ancora alla difesa aerea tradizionale della madre patria. E allora largo ai giovanissimi: ventenni, studenti universitari, fanno a gara di coraggio assoluto, per l’Imperatore, per la famiglia, per il Giappone, per se stessi, in una competizione di morte. Bere una tazza di sakè, stringersi in testa la fascia con il Sole nascente e uccidersi per uccidere. Corpi speciali dai nomi poetici; l’arma è sì terribile ma vestita di grazia; s’ispira al poema del XVIII secolo di Motoori Norinaga. Le Unità d’Attacco Speciale dell’Isola Bella, della Razza giapponese, del Sol Levante, dei Fiori di Ciliegio Selvatico di Montagna. Inoltre, si aggiungano per comprendere il fenomeno Kamikaze i dogmi dello shintoismo, della loro mistica guerriera, del bushido codice d’onore assoluto. Disprezzare la morte, soprattutto la morte ingloriosa. Glorificare i morti, soprattutto i morti per la patria. Per loro, la morte, intesa come dono all’Imperatore, immagine di dio in terra, è la consacrazione ideale. L’eroismo pare sia contagioso. Da un piccolo numero di iniziati, la cerchia degli ammiratori del gesto estremo si allarga, fino a diventare arma ufficiale, certamente limitata all’eccezionalità degli eventi bellici, ma glorificata dagli organi ufficiali e sfruttata in un’ottica razionale e militare, non solo più come impulsività eroica fine a se stessa. Al viceammiraglio Takijirō Ōnishi della Prima Flotta aerea, alto ufficiale ispiratore e istigatore, si deve il pesante onere dell’organizzazione del fenomeno Kamikaze.

Uno Zero giapponese poco prima di impattare la USS White Plains

Sulla tragica epopea dei Kamikaze, lo storico Bernard Millot, nel suo La guerra del Pacifico 1941-1945, ha così ragionato: 

Questi giapponesi furono, in primo luogo, esseri umani, fatti di carne e ossa, capaci di amare e di soffrire. Sarebbe lontano dal vero credere che si trattasse di un gregge trasformato all’improvviso in altrettante bombe umane capaci di gettarsi ciecamente sul nemico, o di soldati stupidi, obbedienti come animali ben addestrati a ordini senza senso. Questo significherebbe rinunciare a ogni spirito critico e soprattutto disconoscere la somma di profondi valori morali della stirpe giapponese. Contrariamente, quindi, a quello che si potrebbe essere tentati di credere, il gesto di questi volontari, determinò in ciascuno di loro, una crisi di coscienza, un dramma interiore dei più angosciosi che esistano. Affermeremo, addirittura, che si trattò di un lungo cammino da coscienza a coscienza, di una scelta individuale che si ripeté innumerevoli volte. D’altro canto, il principio di questi attacchi speciali si manifestò spontaneamente e si impose, all’inizio, a un piccolo numero di combattenti, di fronte alle circostanze e allo svolgimento degli avvenimenti bellici. Nessuno dei capi né dei comandanti militari giapponesi, neppure i più dispotici o i più esaltati, si sentì mai nel diritto di imporre un gesto così irrevocabile ai combattenti posti ai suo ordini. Volendo analizzare brutalmente il fenomeno, si potrebbe dire che, essendosi esso iniziato con un gesto spontaneo e individuale capace di moltiplicarsi, le autorità nipponiche si videro costrette a regolamentarlo, a organizzarlo, a canalizzarlo, al fine di creare una tattica ufficiale nell’intento di conseguire una maggiore efficacia. I piloti volontari ebbero quindi l’onore di un riconoscimento ufficiale perché il loro stesso numero lo esigeva, lo imponeva.

Bernard Millot

Oltre ai famosissimi piloti Kamikaze, il comando del Mikado tenta altre idee dell’ultima ora per opporsi al maremoto americano. È il caso quasi ridicolo dei palloni aerostatici esplosivi che, sfruttando le correnti d’aria del Pacifico, avrebbero dovuto, nelle intenzioni degli ottimisti ideatori, incendiare la costa ovest degli Stati Uniti. Più simile ai Kamikaze invece, è l’esperienza dei marinai dei Kaiten, che ispirati dalle gesta degli aviatori, desiderano immolarsi in attacchi sucidi via mare. Studiano le imprese della Regia Marina italiana dei siluri a lenta corsa “maiali” per prendere spunto. Kaiten: ritorno verso il cielo. I marinai sono cavalieri che montano siluri, e li manovrano verso le chiglie delle navi nemiche. Nonostante il sacrificio di oltre duecento uomini rana, i risultati in termini di obiettivi centrati sono assai più modesti rispetto agli omologhi d’aviazione. 

Il 10 febbraio 1945 l’esercito a stelle e strisce entra a Manila, o meglio, tra le rovine incendiate di quella che una volta era la capitale filippina. I combattimenti urbani sono terribili e durano fino a marzo. Si avanza casa per casa, e i civili nel mezzo. La battaglia metropolitana è una delle più sanguinose di tutto il fronte asiatico-pacifico. I cieli sono ormai dominati dall’aviazione alleata, ma anche sotto la superficie del mare i sommergibili della US Navy infestano baie, porti, rotte. Controllano i movimenti del nemico. Colpiscono e affondano incontrastati. La marina mercantile nipponica è allo stremo, nei porti non arriva più nulla. Colano a picco anche la mastodontica Shinano, nave immensa che in origine era una nave da battaglia, riconvertita poi nel ’44 a portaerei, all’epoca la più grande al mondo. Per la marina yankee è un colpo inaspettato: ne ignoravano persino l’esistenza di questo gigantesco pachiderma dei mari. La morsa si stringe. I comandanti americani, vedendo che i primi bombardamenti delle Fortezze Volanti B-29 non danno i risultati sperati, decidono di puntare alle isole Volcano, situate a metà strada tra il Giappone e le Marianne. Le Volcano sono difatti una valida base d’osservazione avanzata per le la contraerea nipponica. I B-29 che volano dalle Marianne passano puntualmente sopra quelle isole sperdute, e quindi gli osservatori hanno tutto il tempo necessario per informare il sistema di difesa aerea metropolitana. La più grande delle isole Volcano ha un nome celebre nella Storia della seconda guerra mondiale: Iwo Jima (20 chilometri quadrati di origine vulcanica; ambiente desolato, lunare). 

Il luogotenente generale Tadamichi Kuribayashi viene posto in comando del settore di difesa Ogasawara, coadiuvato dal contrammiraglio Toshinosuke Ichimaru. Tra loro c’è il colonnello Takeichi Nishi, cavaliere dell’esercito imperiale e vincitore di una medaglia d’oro nel salto ostacoli alle Olimpiadi del 1932 di Los Angeles. I comandanti allestiscono opere di difesa impressionanti per farne una fortezza inespugnabile; per lunghi mesi i loro uomini diventano talpe scavatrici. Tutto quello che è stato appreso nelle precedenti battaglie di difesa insulare a Iwo Jima viene riproposto al massimo sforzo sotterraneo: tunnel, bunker, depositi. L’apparato difensivo viene appena scalfito dai bombardamenti preparatori, aerei e navali. Per i marines saranno giorni di fuoco e sangue. 

Lo sbarco dei Marines ad Iwo Jima

19 febbraio 1945, alba. Sole limpido, mare calmo attorno a Iwo Jima. Poi tempesta tattica aero-navale: spazzare l’isola, preparare lo sbarco. I cannocchiali non registrano alcun movimento tra le nubi di fumo sollevate dalle esplosioni. La prima linea a bordo degli amtrack incolonnati si avvicina alla spiaggia. Attorno alle ore 9 i mezzi anfibi poggiano i cingoli sulla riva sassosa. Non c’è ombra del nemico, un deserto lunare nel nulla oceanico. Forse i giapponesi si sono ritirati? Le compagnie d’assalto marines affondano i piedi nella pesante sabbia nera, si arrampicano sulle dune di un altro mondo, mentre sopra le loro teste fioccano i proiettili d’artiglieria dalle navi, per picchiare l’entroterra e proteggere la prima ondata d’invasione. Ma il nemico, dov’è? 

Il nemico si è nascosto. Il generale Kuribayashi è tigre paziente nella tana. Che nessuno spari prima delle ore 9.45. Il suo piano è architettato per far penetrare il nemico per 150 metri sulla costa, e aspettare che una grande quantità di mezzi e materiale venga sbarcato sulla spiaggia. Attendere la folla. Rendere il massacro spettacolare. Infliggere le massime perdite possibili. Alle ore 9.45 tutto cambia in un secondo netto. Iwo Jima, l’intera isola, si accende come per un preciso meccanismo. Dal vulcano Suribachi, dall’altopiano di Motoyama, dal pianoro di fronte allo sbarco, si scatenano mille lingue di fuoco d’artiglieria e bagliori intermittenti di mitragliatrice. Non esiste riparo per gli invasori. L’aria si fa traffico di piombo. Geyser di sabbia nera si alzano sotto i colpi del frenetico tamburo dei mortai. I mezzi anfibi sono ghiotti bersagli. Nel cataclisma non si riesce ad avanzare e nemmeno a soccorrere i tanti feriti. La terra vulcanica, sollevata dalle cannonate, impregna i polmoni e quasi soffoca gli uomini. Alle ore 13 i rapporti degli attaccanti parlano di un 25% di perdite. Situazione senza uscita. 

Si deve a valorosi reparti marines il primo sblocco della situazione. Nel pomeriggio, tra i cadaveri dei compagni, sotto al diluvio di fuoco e ad una calura insopportabile, riescono ad arrampicarsi sui fortini della prima linea e ad annientare la resistenza lì trincerata. Durante la notte, l’intensità degli scontri non accenna a ridursi e si continua a morire da ambo le parti. La 4° divisione marines che attacca l’altopiano Motoyama subisce il 35% di perdite. Il giorno successivo, il maltempo di mare grosso e vento furioso ostacola le operazioni per gli sbarchi seguenti. Gli americani si aspettano un violento contrattacco giapponese, come è nello stile del nemico. Ma l’intelligente Kuribayashi, a differenza dei comandanti di altre battaglie, non lo ordina. Non ha senso dissanguare le proprie forze in un attacco Banzai con ben poche chance di vittoria. Le esperienze precedenti lo dimostrano e la difesa ad Iwo Jima assume quindi caratteri inediti nella guerra del Pacifico. I reggimenti marines riprendono pertanto l’iniziativa, e assalgono il terribile monte Suribachi, fortezza di roccia e bunker di Kuribayashi. I nidi di mitragliatrici nelle casematte non si contano. Le canne delle armi nemiche spuntano ovunque. Gli scontri sono fuoco puro. Apparentemente quella montagna nera sembra un luogo fantasma, come se non ci fosse nemmeno un soldato a presidiarla. Ma in realtà è un frenetico formicaio con migliaia di difensori che si agitano dentro la roccia, attorno agli obici e alle mitragliatrici, invisibili, spettri.

L’efficace sistema di gallerie permette ai giapponesi di muoversi dentro la montagna con rapidità da una postazione all’altra, procurando ai marines amare sorprese, anche alle spalle. I progressi del giorno sono per gli americani deprimenti. Il 21 febbraio riprendono il tremendo lavoro e fino alle 18 non ottengono nulla perché il vulcano-fortezza Suribachi è un bastione che sembra indistruttibile. Le perdite del 28° reggimento ammontano al 75%. Tramonto di pioggia a Iwo Jima: 50 aerei Kamikaze si scagliano contro la flotta al largo dell’isola vulcanica. Affondano la portaerei di scorta Bismark; la grande nave Saratoga è costretta a fuggire semidistrutta. E a terra, nelle ore notturne, i combattimenti rimangono feroci. Il 22 sotto la pioggia, il vulcano è accerchiato. Sulla cima, sul bordo del cratere, i binocoli americani scorgono i primi giapponesi che si tolgono la vita: è un buon auspicio per gli invasori. Alle 11 del 23 l’orlo del cratere è conquistato: sarà scenografia ideale per la famosa foto di guerra Raising the Flag on Iwo Jima, uno dei classici simboli americani della vittoria contro i giapponesi non solo sull’isola, ma in tutta la guerra. Nonostante la fotografia, la battaglia non è affatto conclusa perché sul resto del fronte, i difensori fanno pagare un costo altissimo su tutta la linea. In particolare, ricordiamo The Meatgrinder ovvero “Il Tritacarne”, una zona infernale costituita da tre alture, quota 382, l’Anfiteatro e la Cresta del Tacchino. Il Tritacarne è il cuore nevralgico della difesa di Kuribayashi. Per un mese intero avvengono scontri di estrema brutalità, sia di giorno che di notte. Armi come autocarri lanciarazzi, i carri-bulldozer, cariche cave, lanciafiamme vengono usate massicciamente per ridurre al silenzio i bunker nascosti, i cunicoli, le trincee. I contrattacchi non avvengono più con le rumorose cariche Banzai di fanti in corsa urlante, ma sono silenziosi, e molti combattenti portano con sé cariche esplosive per farsi esplodere tra i ranghi avversari. Il 26 marzo cade l’ultima sacca di resistenza, l’intera guarnigione è cancellata e il corpo del generale Kuribayashi non verrà mai trovato. Oltre 6.000 i caduti da parte americana. 

Sbarco di rifornimenti su Iwo Jima
Un attacco coordinato mezzi corazzati-fanteria su Iwo Jima
Il 14esimo reggimento Marines su Iwo Jima
Barellieri in attesa di entrare in azione
Il 24esimo reggimento Marines in attesa su Iwo Jima

Intanto, lanciamo uno sguardo a cosa capita in Indocina. Ricordiamo che nel giugno 1940, in seguito all’armistizio franco-tedesco, i giapponesi entrano nelle colonie francesi del Sudest asiatico, ufficialmente senza intaccare l’amministrazione francese, mostrandosi quindi ospiti discreti. All’inizio quasi amichevole e poco molesta, la presenza giapponese cerca di non interferire con l’autorità coloniale. Poi, in parallelo agli eventi disastrosi della guerra, l’atteggiamento nipponico cambia, mutando in una vera forza di occupazione militare, forte di un contingente di 100.000 effettivi e di una tirannica presenza della Kempetai, la temuta polizia militare di Tokyo. La tensione tra le parti cresce fino al colpo di stato giapponese del 9 marzo 1945. I soldati del Mikado e le squadre Kempetai si impadroniscono degli organi di potere, destituendo immediatamente gli antichi padroni francesi da ogni incarico amministrativo. Il disordine che segue, provoca una grave carestia di riso, che causa centinaia di migliaia di vittime. In Vietnam gli occupanti instaurano l’impero fantoccio di Bảo Đại con primo ministro Trần Trọng Kim.

Il paese è riunificato sotto un’unica bandiera, e sebbene l’ordine delle cose sia manovrato dai giapponesi, si tenta di dare al Vietnam un aspetto di indipendenza e affrancamento dalla vecchia autorità coloniale. Questo stato, nella sua brevissima esistenza, abolirà la lingua francese sostituendola col vietnamita e darà una scossa generale al paese asiatico, diffondendo sentimenti indipendentisti. Cresce infatti il partito armato indipendentista armato dei Việt Minh guidati da Hồ Chí Minh e dal generale Giap che organizzeranno la rivoluzione d’agosto per occupare il vuoto di potere lasciato dagli sconfitti giapponesi. Nel 1945 in Indocina dunque, nascono le radici storiche che in parte spiegheranno i decenni successivi di lotta vietnamita, prima contro i francesi ritornati e poi contro gli americani e i loro alleati del sud. 

Bảo Đại

Già abbiamo parlato del potente bombardiere B-29 Superfortress e nel 1945 questa terribile arma, grazie all’avanzata e ai numerosi aeroporti costruiti alle Marianne e in Cina, riesce a scatenarsi portando morte e distruzione. Sapendo che la maggior parte delle costruzioni sul suolo metropolitano giapponese sono in legno, il Pentagono (inaugurato nel gennaio ’43) ordina di sganciare ordini incendiari contenenti gelatina di benzina e magnesio. Brucia il centro industriale di Nagoya, poi le fabbriche Mitsubishi e le officine Kawasaki. La contraerea risponde rabbiosa, perfezionando il tiro, e laddove i cannoni a terra non riescono ad andare a segno contro i draghi americani, intervengono i piloti Kamikaze che cercano lo schianto mortale contro le gigantesche fortezze volanti. Le perdite per l’aviazione americana sono numerose e costose. Cambiano tattica. Abbandonano i bombardamenti ad alta quota per incursioni incendiarie individuali a bassa quota con B-29 alleggeriti da carburante e armi di difesa, per privilegiare il carico di bombe. Si vola di notte, e non più in formazione, per eludere la contraerea. Colgono i giapponesi di sorpresa, abituati fino al marzo del ’45 ad affrontare i draghi americani ad alta quota e in formazioni chiuse. 

9 marzo 1945, Carpet Bombing – bombardamento a tappeto. Obiettivo: agglomerato urbano di Tokyo con le sue numerose fabbriche nel centro stesso della metropoli. E i civili? Non importa, anzi, l’effetto di shock psicologico sulla popolazione inerme è anch’esso un obiettivo. Oltre trecento Superfortress inaugurano la notte di napalm e bombe incendiarie a frammentazione su Tokyo. Mezzanotte, dunque è il 10 marzo, e gli equipaggi americani disegnano sulla capitale una gigantesca X di fiamme in un bombardamento lungo tre ore. Attaccano bassi, i draghi sfiorano le teste delle vittime. Tra le case di legno e carta scoppiano migliaia di incendi distinti, che poi si ricongiungono nelle vie in uno spaventoso serpente di fuoco che tutto divora. Non c’è scampo, il suolo metropolitano si fa un mare di fiamme impazzite, alimentate da un vento traditore, e fameliche di cose e uomini. Credo che non si esageri nel dire che gli abitanti della città abbiano patito una vera e propria apocalisse. L’incendio appiccato dal napalm americano è un mostro crudele che s’ingrossa minuto dopo minuto, quartiere dopo quartiere. Decine di migliaia gli arsi vivi, il numero supera i 100.000, il 20% della città è carbone. Per il Pentagono è un grande successo. Adottano la tattica di sterminio su altri centri cittadini per poi ritornare sugli stessi già colpiti, ancora e ancora. Centinaia di bombardieri e tonnellate di napalm su Nagoya, Osaka, Kobe, di nuovo Nagoya. Ad aprile una nuova fase per impennare i numeri dell’olocausto, l’orrore va in replica a Tokyo, a Nagoya, Osaka, Kombe e non ci si dimentica di Yokohama e Toyama. È la tournée del massacro contro impianti industriali e soprattutto contro i civili. Il 24 maggio del 1945 più della metà della metropoli di Tokyo è ridotta in cenere. L’intero apparato industriale giapponese è paralizzato. La fine è vicina. 

Dopo Iwo Jima, un’altra grande battaglia sta per consumarsi, l’ultima tra le importanti. L’isola giapponese Okinawa è il logico obiettivo successivo. Il piano di difesa del comandante Mitsuru Ushijima detto “il generale demonio” prevede il fondamentale contributo dell’aviazione, ancora presente a Formosa e sulle isole Ryukyu. Si farà sbarcare gli invasori, si permetterà loro di muoversi sulla costa, e nel momento di massima concentrazione di navi e mezzi da sbarco nell’area scatterà il più micidiale attacco Kamikaze mai visto prima, non solo aereo ma anche marino con centinaia di canotti a motore con a prua una carica esplosiva, specie di arieti dinamitardi d’acqua. E non solo, si racimolano tutte le unità navali disponibili nel settore per una sortita finale contro il nemico. Dopo aviazione e marina, anche l’esercito imperiale terrestre prepara i suoi Kamikaze, i Tokobetsu. Il mito dell’estremo sacrificio si allarga, diventa diffuso. È una strategia che grida rabbia e disperazione. 

Invece per gli americani, Okinawa rappresenta il primo assalto d’invasione al territorio metropolitano del Sol Levante. Dopo Okinawa infatti, sarebbero seguite le isole principali del Giappone. Gli sforzi fatti per Iwo Jima ora si ingigantiscono ancora di più. Viene raggruppata una forza colossale di 1.320 navi di vario tipo e ben 550.000 uomini delle forze armate delle varie armi vengono coinvolti nell’operazione. Partecipano anche i britannici, perché ormai in Europa, nei giorni prossimi alla Pasqua ’45, l’esito del conflitto è certo, e finito l’incubo Hitler, possono permettersi di agire sul moribondo Sol Levante. 

Primo aprile, domenica di Pasqua. La flotta di cui non si vede la fine si avvicina a Okinawa. I movimenti anfibi alleati, ormai rodati da innumerevoli azioni, si compiono con preciso meccanismo d’orologio. Nulla al caso, tutto è metodo studiato. Ma contro i giapponesi, lo studio tattico, per quanto rigoroso, incespica in mille insidiose varianti. Dove, come, quando si batteranno i guerrieri del Mikado? Gli americani, nuovamente interdetti, sbarcano a migliaia, avanzano senza incontrare resistenza. I fucili rimangono a tracolla, non sparano un colpo. Sarebbe magnifico conquistare il Giappone così! Come per un’esercitazione… Ma dal 4 di aprile la situazione cambia. Dopo tre giorni di insperata tranquillità, i fanti yankee incominciano a incontrare una resistenza via via più accanita. Brutalità progressiva. 

Il 6 aprile si alzano in volo 355 velivoli Kamikaze. È l’inizio dell’Operazione Kikusui “Crisantemi galleggianti” forza speciale d’attacco di guerrieri suicidi di aviazione, marina e di Tokobetsu dell’esercito. I caccia Hellcat e la contraerea alleata abbattono 250 apparecchi. Ma i superstiti arrecano danni ingenti alle navi al largo e alla forza anfibia. Nel frattempo, l’ammiragliato nipponico getta nella battaglia le ultime forze di cui dispone, vale a dire la supercorazzata Yamato, un incrociatore leggero e un pugno di cacciatorpediniere. Una pulce in confronto al gigante alleato, una formichina votata al martirio, senza la benché minima possibilità di sopravvivere. Difatti gli ordini parlano chiaro: alla grande Yamato è ordinato di arenarsi sulla costa di Okinawa e di fare da fortezza d’acciaio contro le navi nemiche. È un destino miserabile dell’orgoglio della flotta, una splendida e potente nave ridotta a fare da postazione di artiglieria tra gli scogli. Ma non ci arriverà nemmeno a Okinawa: la grande Yamato viene devastata dalle bombe aeree nell’ultima battaglia aeronavale della guerra. L’ammiraglio Seiichi Itō, tra le tante cose ex studente a Yale, saluta i suoi ufficiali e si ritira nella sua cabina. Nessuno lo vedrà mai più. I comandanti della marina imperiale ora sanno con certezza quello che già temevano. L’impero ha perso la guerra. 

Mentre si svolge il capitolo finale del conflitto gravi notizie politiche irrompono nella scena storica. A Tokyo, il primo ministro Kuniaki Koiso rassegna le dimissioni, prende il suo posto il barone e ammiraglio in congedo Kantarō Suzuki, anziano e avverso alla fazione ultramilitarista che vuole continuare la guerra ad ogni costo. Il Terzo Reich è al collasso, Berlino sta per essere circondata dai russi. L’Unione Sovietica, prossima alla conquista di Berlino e al trionfo militare in Europa, non mostra alcun interesse ad estendere la validità del patto di non aggressione russo-giapponese firmato quattro anni prima. Brutto segno. Infine, il 12 aprile 1945, muore il presidente degli Stati Uniti Franklin Roosevelt. Nello studio ovale ora siede Harry Truman. Ad Okinawa, invece, si devono ancora consumare i giorni più sanguinosi. Kamikaze: di nuovo questa sinistra parola, perché essa è la parola chiave per capire la battaglia. Il 12 aprile, il comandante in capo della 5° Flotta aerea, Matome Ugaki, ordina a 165 piloti volontari di attaccare. Gli apparecchi che riescono a passare il muro di fuoco della US Navy riescono ad infliggere danni pesanti alla flotta nemica e colpiscono anche la portaerei USS Enterprise. Il 16 aprile Ugaki lancia un nuovo attacco che ottiene nuovi successi. Gli ammiragli americani sono preoccupatissimi, non sottovalutano il problema. Sebbene la quantità di navi della loro armata sia impressionante calcolano che se dovessero subire quindici giorni consecutivi di attacchi simili, dovrebbero ritirarsi. A terra, gli scontri si fanno incandescenti. Le forze USA scagliano una massiccia offensiva il 19 di aprile per sfondare le linee nemiche. L’assalto fallisce, gli attaccanti lasciano sul terreno fumante decine di carri armati. I combattimenti si incancreniscono, feroci. Avanzata lenta e sanguinosa. I reggimenti affondano la baionetta nella prima linea giapponese e la sfondano, ma dietro ce n’è un’altra ancora più agguerrita. 

Cartina comparativa con i piani americani d’invasione a sinistra e le disposizioni difensive giapponesi a destra

2 maggio, sera. Nei sotterranei del castello medievale di Shuri, “il generale demonio” Ushijima è in riunione con i suoi ufficiali, tutti attorno al tavolo su cui è srotolata la mappa militare di Okinawa. Il comandante decide di organizzare un grande attacco il 4 di maggio, un uragano preceduto dall’ennesimo assalto aereo Kamikaze e da un tiro d’artiglieria che si sfogherà davvero preciso. All’alba, gli tsunami umani di fanteria premono sul centro del perimetro difensivo statunitense. È un momento di scontro caotico e brutale, tra le cannonate delle batterie avversarie che si scambiano ai margini della mischia migliaia di proiettili. La battaglia è accanita, ma per i giapponesi non c’è vittoria, perché le linee nemiche tengono e le ondate s’infrangono una dopo l’altra, massacrate. Mentre si esaurisce la controffensiva nipponica, la prima divisione dei marines passa all’attacco superando il fiume Asa Kawa, e procede tra le granate di mortaio. Arriva la pioggia, forte e incessante. L’isola si trasforma presto in un pantano fangoso che rende qualsiasi movimento, di uomini e mezzi, lento e faticoso.

8 maggio: fine della guerra in Europa, capitolazione totale del Reich. Nel Vecchio Continente gli Alleati si ubriacano di trionfo e gioia, ad Okinawa diventata palude, meno che mai. L’11 maggio il comando americano lancia l’offensiva generale e si fa di nuovo carnaio truculento, con il terreno ridotto a pozzanghera sconquassata dalle cannonate, dagli attacchi e contrattacchi, e dai fulmini Kamikaze che continuano a cadere sulle navi. I marines si arrampicano sull’altura chiamata con un dolce “Pan di Zucchero” che in realtà è un orrendo luogo di sofferenza e decimazione. Al costo di ingenti perdite gli americani però riescono ad accerchiare il principale caposaldo della difesa di Ushijima, dove sorge il massiccio di Shuri con il suo castello del XV secolo, raso al suolo dai bombardamenti e sulle cui rovine, il 31 maggio 1945, sventola la bandiera a stelle e strisce. I resti dei reparti di Ushijima si sono ritirati nelle grotte di montagna, come topi feriti. E quegli uomini stremati, la cui fede vacilla, con le uniformi a brandelli e le gavette vuote, sono ridotti davvero a ombre di se stessi. Questa volta gli americani si stupiscono perché le prime bandiere bianche appaiono sulla scena. Non tutti i difensori questa volta scelgono la morte, alcuni preferiscono alzare le mani, ed è un fatto quasi inedito. Invece Ushijima e il suo secondo, generale Cho, organizzano la propria morte come se fossero su un palcoscenico di teatro. Il comandante indossa la sua alta uniforme e il suo vice un kimono bianco. I due ufficiali cenano con un lauto banchetto di mezzanotte. Seguiti da un sottoufficiale armato di spada, escono assieme sulle rocce della scogliera al chiaro di luna, e stendono un candido lenzuolo dove inginocchiarsi verso oriente. Scoprono il ventre e compiono Seppuku, con il sottoufficiale che infine li decapita. Okinawa è stata una gigantesca battaglia di aria-mare-terra lunga quasi tre mesi che ha conseguenze pesantissime sull’epilogo della guerra, come andremo a vedere. Per le forze americane è stato lo scontro più terribile e costoso. Hanno perso quasi 50.000 uomini tra morti e feriti dell’esercito, della marina, dei marines. Un piccolo Vietnam sfogatosi in poche settimane. Sono andati distrutti un’infinità di carri, camion, amtrack da sbarco e l’impressionante numero di 768 aerei di cui 458 ad opera del nemico. Ma il bilancio che più preoccupa gli USA sono le navi colpite dalla furia Kamikaze. Un vero e proprio martirio. Stiamo parlando di 368 unità danneggiate, di cui alcune non si possono nemmeno riparare. 36 di esse, specialmente di piccolo tonnellaggio, sono state affondate. Gli Stati Uniti si medicano le ferite, e meditano di usare l’asso nella manica… 

Dall’altra parte della barricata il conteggio è un vero e proprio flagello, una lunga rassegna di tombe e disastri accompagnata dalla campana a morto. 100.000 morti delle varie armi, compresi gli uomini della milizia territoriale di Okinawa e i civili. Dato insolito: 10.000 prigionieri, una vera novità per i Giapponesi. È un segnale. Infine l’ultimo rintocco per l’aviazione. Nelle settimane in cui è infuriata la battaglia, il Sol Levante ha perso 7.480 aerei. Una cifra che parla da sé. 

Artiglieria americana in azione durante il bombardamento preliminare l’attacco dell’11 maggio
Marines della 1ª Divisione durante i combattimenti per Wana Ridge
Squadra di demolizione della 6ª Divisione durante un’operazione di rastrellamento delle gallerie giapponesi

Ci siamo concentrati su Okinawa, ma contemporaneamente a questo importante e sanguinoso avvenimento, su tutti gli altri fronti la pressione alleata ha messo una marcia aggressiva. La spinta è massima, la tenaglia si sta chiudendo. Cadono la Birmania, le Filippine, il Borneo. Le fabbriche e i cantieri navali dell’America, producono senza sosta, sempre di più, con un moto sempre maggiore, per la guerra bulimica. La macchina non si può arrestare. I bombardieri tornano sul Giappone, sganciano fuoco e poi ritornano per sganciarne ancora e ancora e ancora. Sono le ondate della seconda fase di distruzione metodica. La produzione nipponica è a zero. Esodi di massa verso le campagne di civili nel terrore. Non solo le grandi città vengono incendiate ma anche 23 centri minori con una popolazione tra i 100.000 e i 350.000 abitanti sono presi di mira. Le vittime della strage indiscriminata non si contano più. A luglio la terza fase, ora tocca alle cittadine sotto ai 100.000 abitanti, anche se non possiedono obiettivi strategici, ma invero tutto in questa guerra globale è diventato strategia, civili carbonizzati compresi. A Toyoma alcuni superstiti raccontano di un attacco che assomigliava ad un meteora infuocata precipitata sulla città. 97% del suolo urbano cancellato. I centri sono bracieri ardenti. Migliaia di esseri umani diventano briciole di cenere. Su 69 città colpite, 42 hanno perso il 50% dei loro edifici. Naufragio nelle fiamme. 

La sconfitta del Giappone è certa. Nessuno si chiede più se il Giappone verrà sconfitto bensì quando. L’Impero è una tigre moribonda ustionata, trafitta, con gli artigli mozzati. Agonizza ma senza chiedere pietà, e ancora muove la testa per tentare di mordere i cacciatori intorno a lei. Non si arrende, la belva. Il clan militarista di Tokyo è accecato dal desiderio di vendetta, posseduto dalla guerra che per loro deve continuare al prezzo della scomparsa del sacro arcipelago tra i flutti dell’oceano Pacifico. Le isole del territorio metropolitano si preparano allo scontro finale, all’invasione. Tutti, soldati e civili, nessuno escluso, sarà chiamato al sacrificio supremo. 

Piccola parentesi italiana contenente imbarazzante piccineria: la nuova Italia, senza più Mussolini e tedeschi, il 15 luglio 1945 dichiara guerra al Giappone, suo ex alleato. Forse si voleva mordicchiare la caviglia ad un cadavere? Ebbene sì, abbiamo fatto la guerra al Sol Levante, solo con un pezzo di carta però. Penso che sia stata l’ultima volta che l’Italia abbia dichiarato guerra a qualcuno, e questo va bene, d’accordo, ma non credo che sia stato un comportamento dignitoso né che il nostro fondamentale apporto guerresco abbia fatto la differenza laggiù… ma lasciamo stare e chiudiamo subito questa parentesi che dovrebbe farci arrossire. 

Abbiamo visto come il clan militarista, nonostante la catastrofe in corso, sia ancora saldamente al potere e deciso a portare il popolo verso una sorta di “Crepuscolo degli Dei” in versione samurai. Nel palazzo imperiale di Tokyo però, Sua Maestà Hirohito l’Imperatore Shōwa si desta dall’allucinazione durata tre anni e mezzo. Dopo la perdita di Manila, il 14 febbraio 1945, egli realizza che non c’è più speranza e convoca il principe Fumimaro Konoe dell’antico clan Fujiwara, avversario della fazione oltranzista. Konoe e Hirohito si convincono della necessità di agire in qualche modo per porre fine alle ostilità. Tardi, ma forse qualcosa si può ancora tentare per evitare la distruzione totale. A pesare sulla scelta dell’imperatore di uscire dall’ombra c’è l’opinione di Konoe sul destino che gli americani avrebbero riservato alla dinastia imperiale. Secondo il principe infatti, e gli eventi successivi gli daranno ragione, gli americani non oseranno abbattere l’istituzione monarchica a carattere divino anche perché il trono sarà mezzo utile nella successiva pacificazione nazionale a controllo alleato. Insomma, a Washington non siedono di certo degli stupidi, e mostrano un apparente e saggio rispetto per quanto il popolo giapponese ha di più caro, cioè l’Imperatore divino. Con un gesto di clemenza sarà più facile gestire e riorganizzare il nuovo Giappone sorto dalle rovine della guerra. L’occupazione militare sarà meno dolorosa. 

Appoggiando apertamente il barone Kantarō Suzuki per la poltrona di Primo Ministro dopo le dimissioni di Koiso, l’imperatore riacquista potere temporale sulle cose di governo. Suzuki è anch’egli ostile al potente clan militarista. Il plenipotenziario Kōki Hirota viene inviato di gran carriera all’ambasciata sovietica a Tokyo. La sua missione è quella di ottenere garanzie di pace dall’URSS, in virtù del Patto nippo-sovietico di non aggressione, firmato nel 1941, e non ancora scaduto. L’ambasciatore di Mosca, Jakov Malik, tratta il delegato con freddezza, decisamente sospetta. Altri terribili guai in vista… Hirohito, ora attivo e partecipe nella vita politica, e l’amico Suzuki insistono sulla via diplomatica con Mosca e incaricano il principe Konoe di recarsi al Cremlino, per trattare direttamente con Molotov e Stalin e tramite loro offrire la resa agli Alleati. Hirohito invia un messaggio a Mosca, chiedendo un urgente incontro diplomatico. Mosca però fa la sorda. Le porte del Cremlino rimangono chiuse. 

In seguito la giornata conclusiva della conferenza di Potsdam del 24 luglio, giunge a Tokyo l’ultimatum che intima la resa senza condizioni. Pena per una risposta negativa: la distruzione. Il giorno 27, in una soffocante calura estiva, il Consiglio Supremo imperiale si riunisce. L’imperatore, appoggiato da Suzuki, sottolinea che i termini della resa sono accettabili considerata la tragica situazione militare. Accese proteste del clan militarista, capeggiato dal ministro della guerra Korechika Anami e affiancato dai generali degli stati maggiori. Dopo la riunione viene commesso da parte giapponese un grave errore diplomatico. Alla stampa nipponica, il Consiglio Supremo rilascia una nota ufficiale in cui dice che per il momento il Giappone si attiene ad un politica di Mokusatsu

Mokusatsu 黙殺

Ma cosa diamine significa Mokusatsu? È una parola ambigua non solo per noi occidentali che non abbiamo nei nostri vocabolari un termine equivalente, ma anche per gli stessi giapponesi che l’hanno coniata. Mokusatsu: ignorare e astenersi dal commentare. Ma anche: respingere con disprezzo. Forse gli esagitati militari del Mikado, benché un po’ confusi pure loro, la trovano una risposta orgogliosa e soddisfacente, ma gli Alleati assolutamente no. La interpretano dandole il peggiore significato possibile: i giapponesi hanno respinto l’ultimatum con sdegno. E giungono i giorni atomici di Hiroshima e Nagasaki. Ma non è certo stata la parola Mokusatsu a scatenare l’ordigno finale. Le ragioni che hanno portato gli Stati Uniti a commettere il grande crimine sono di ben altra natura strategica. 

Il primo ministro Kantaro Suzuki

Tempo fa viaggiai in Giappone e visitai la città di Hiroshima. Tra la visita al Museo della Pace e quella alla Cupola della bomba atomica presi appunti, che qua ripropongo, e come tali devono essere letti: 

Hiroshima – gennaio 2017. Appunti dalla città cavia.

Cupola della bomba atomica / Gembaku Dome.

L’edificio Art déco fu costruito dall’architetto ceco Jan Letzel, a fini commerciali e rappresentativi dell’industria locale, nel 1915.

6 agosto 1945, ora di Tokyo 8 e 15 minuti. Il bombardiere americano B-29 “Enola Gay” sputa l’ordigno “Little Boy”.

La bomba cade per 43 secondi.

A 600 metri dal centro di Hiroshima, scoppia.

Sole artificiale sulla città. Luce di sterminio. Deflagrazione, fuoco. Il grande fungo che acceca.
È apocalisse. Tutto è raso al suolo; ferro, legno, terra e carne umana si fondono assieme.

Decine le migliaia di vittime sul colpo prima, decine le migliaia di vittime per le ustioni dopo, decine le migliaia di vittime per le radiazioni poi.

Gli americani sostennero l’uso perché a detta loro fu il modo più sbrigativo per concludere la guerra con l’ostinato Giappone, che non voleva arrendersi. Sganciare per evitare l’invasione e altre centinaia di migliaia di morti. La battaglia di Okinawa, durissima, fu un’anticipazione di quello a cui sarebbero andati incontro. Okinawa li aveva spaventati.

Erano spaventati anche da ben altro. I sovietici, dopo esser entrati per primi a Berlino nell’aprile del ’45, ora premevano anche in Estremo Oriente, volevano intervenire direttamente contro il Giappone agonizzante. L’8 agosto difatti, i russi iniziarono la loro “Operazione Tempesta d’agosto”, in Manciuria.

Gli americani volevano chiudere loro la partita; un posto al tavolo verde del Pacifico per Stalin non doveva esserci.

Guerra fredda: atto primo. Lotta per il predominio mondiale.

I sovietici avevano l’esercito di terra più forte al mondo, occorreva per il comando americano controbilanciare questo rapporto di forza con un’azione di immane potenza bellica; con un terrificante esempio di olocausto atomico.

Hiroshima fu scelta perché sì era un importante snodo per le comunicazioni militari e la produzione di guerra (non così importante da giustificarne la totale distruzione) ma anche perché città ideale come cavia.

Hiroshima cavia per la tecnologia atomica. Per vedere l’effetto che fa sui palazzi, sulla gente.

Se fossero stati i nazisti ad usare per primi la bomba atomica per incenerire metropoli e uomini, e se ciò non fosse bastato a farli vincere la guerra, gli scienziati e militari responsabili sarebbero finiti a penzolare dalle forche di Norimberga (almeno alcuni, altri sarebbero stati graziati e “riciclati”). Ma per chi vince valgono altre regole: è il duro gioco della Storia, da sempre.

Aveva fatto un buon lavoro l’architetto Letzel: la struttura con la cupola, a solo 150 metri dall’epicentro dell’esplosione, rimase in piedi, gli uomini al suo interno, no.

1 agosto 1945. Aree sotto il controllo giapponese in verde e bianco; le aree in rosso sono controllate dagli alleati

Con i bombardamenti atomici di Hiroshima (6 agosto 1945) e di Nagasaki (9 agosto) non solo si scrive con il fuoco nucleare la fine della seconda guerra mondiale ma si inaugura il capitolo iniziale della guerra fredda. La bomba atomica è l’arma assoluta, il primo deterrente al mantenimento del nuovo ordine mondiale, dettato dai due grandi vincitori del conflitto, USA e URSS. Le devastazioni sulle due città sono immani, si stima un numero di 200.000 vittime. Nel triste e cinico conteggio dei caduti per bombardamento, il numero dei morti giapponesi per bombardamento non atomico (cioè per la maggior parte bruciati dal napalm) supera quello dei morti per bombardamento atomico. Ma a differenza dei raid incendiari, l’atomica mostra subito al mondo la sua infernale capacità di totale annientamento dell’obiettivo. Un’intera città, un’intera popolazione svanisce in un lampo. E poi, strisciante, corrosivo e canceroso, il vento radioattivo, mostro invisibile che scarnifica i corpi dei sopravvissuti e cancella la vita futura. Tra tutte le collezioni di mezzi e strumenti mortali che i grandi eserciti hanno collezionato nel corso della guerra, non esiste un’arma più tremenda. La superarma va sfoggiata. Già prima dell’ultimatum di fine luglio, Truman e collaboratori avevano intrapreso la strada dell’opzione nucleare. Il fatto che le città di Hiroshima e Nagasaki, fossero “miracolosamente” scampate alle precedenti ondate di bombardamento a tappeto con ordigni “tradizionali” è una prova di come le “città-cavia” fossero già scelte da settimane. Sì, nelle città ci sono obiettivi strategici militari (Hiroshima snodo logistico, Nagasaki porto), ma il vero bersaglio è la popolazione, per l’effetto shock che gli ordigni possono provocare su tutta l’intera nazione ancora in armi. Hiroshima e Nagasaki, città-martire, e la scampata fortunatissima Kokura: questa città era l’obiettivo dei due raid, e tutte le due volte l’ha scampata per un miracolo meteorologico perché le nubi hanno impedito di concludere l’azione, proteggendola dall’apocalisse. 

Allora, il movente ufficiale del crimine è quello di concludere in fretta un conflitto che si sta incancrenendo troppo a lungo. Allo studio c’è l’operazione madre Downfall con le sue due operazioni figlie, Olympic e Coronet, per l’invasione terrestre delle grandi isole del Sol Levante. Olympic da attuare nel 1945, Coronet nel 1946. Ma questa è fantastoria, perché gli americani optano per la soluzione nucleare e si autoassolvono dicendo, in parole povere, che è meglio un’ecatombe subito che dieci ecatombi domani. Ovvero, se non si fossero sganciate le bombe, quei pazzi fanatici avrebbero continuato a combattere e ciò sarebbe costato alle truppe americane, nonché alla popolazione giapponese, lunghe sofferenze. Cinico ma inoppugnabile, vista così. Ma queste considerazioni sono un pretesto che celano i veri scopi atomici del duplice bombardamento. Lo scopo supremo è mostrare al mondo, specialmente ai sovietici, l’assoluta supremazia. Quale migliore occasione di una guerra già vinta? Una decisione così radicale come il bombardamento atomico non è di certo frutto di un’impulsività tattica. Non è il presidente Truman che schiaccia un bottone rosso e scatena l’inferno. Non è così semplice. No, la soluzione è ponderata da lunghe analisi strategiche; da uffici interi, protetti da segretezza assoluta, che osservano, ipotizzano, prevedono. A lavorare alla bomba atomica non ci sono solo gli scienziati creatori dell’orrore, ma gli analisti che studiano gli effetti in termini geopolitici che tale arma può provocare. Due bombe atomiche non si scagliano con leggerezza; il progetto vuole raggiungere non solo risultati immediati sul campo distruggendo la resistenza nemica, ma ambisce a conquistare il futuro. Truman dà un ordine finale di un disegno con conseguenze molto ampie, non certamente solo sul Giappone. 

Annuncio del presidente statunitense Truman sullo sgancio della bomba sulla città di Hiroshima
Nagasaki prima e dopo l’attacco

Gli effetti del duplice attacco nucleare hanno difatti immediati effetti attorno al tavolo della grande Storia. Adesso a Tokyo anche i ciechi vedono la tragica situazione per quello che è. Le capacità distruttive della nuova arma sono innegabili. I ranghi del “partito della capitolazione” si fanno numerosi mentre il nucleo estremista del clan militarista ancora strilla delirante una resistenza ad oltranza. Ma pensiamo a questi alti papaveri dell’Impero riuniti il 9 di agosto, e riflettiamo sulla tensione di quei momenti e sul susseguirsi di eventi epocali condensati in poche ore. Voglio dire: nella stessa giornata del secondo attacco atomico, nella tensione da cardiopalma e nel caos di un impero in fiamme, ecco giungere altre inquietanti notizie dalla Manciuria. L’URSS ha dichiarato guerra e sta muovendo contro l ‘armata del Kwantung a guardia dell’Impero del Manciukuò del protetto Pu Yi. Scaltro cinico calcolatore lo stratega Stalin: entra nel gioco pacifico all’ultimo minuto per garantirsi a basso costo la soddisfazione delle mire sovietiche in Estremo Oriente. Il patto di non aggressione è finito nella latrina; i russi tirano l’acqua. La ferita rimasta aperta dai tempi zaristi di Port Arthur del 1905 viene rimarginata con la vendetta. Il Gran Consiglio accetta l’ultimatum di Potsdam, ponendo però condizioni che sembrano più che altro capricci d’orgoglio di una stirpe votata all’onore inflessibile. Nella notte di Tokyo illuminata dagli incendi dei bombardamenti, l’imperatore Hirohito convoca otto altissimi dignitari, per un’ulteriore seduta. Stress, liti, in quelle ore si decide cosa fare di un’intera nazione. Il clan militarista si lascia andare a manifestazioni isteriche, ma Hirohito, autorità suprema, ribadisce secco quale deve essere la decisione ultima: resa. Alle tre di notte, durante discussioni spossanti e surreali nei cortili del palazzo imperiale, il ministro della guerra Anami, si mette in ginocchio, supplicando in lacrime il suo imperatore di non arrendersi. Hirohito lascia la stanza dandogli le spalle. Il 13 agosto, e poi ancora il 14, il Gran Consiglio viene nuovamente riunito. Hirohito informa i suoi generali, ammiragli, nobili della corte che la decisione è presa, e non c’è appello. Afferma che una sua dichiarazione verrà registrata su disco e diffusa al popolo tramite radio. Si tratta del drammatico Gyokuon-hōsō, la Trasmissione della voce del gioiello, le cui parole divine dell’Imperatore Shōwa vengono per sempre catturare da un grammofono. Ascoltando la registrazione, tra le gravi parole dell’imperatore e il gracchio del disco, verso la fine si ha l’impressione di udire in sottofondo un rombo di tuono e uno scroscio di pioggia. La tempesta Arashi sul Mikado. Il gran ciambellano Yoshihiro Tokugawa, in livrea, con un inchino si allontana dallo studio dell’imperatore con sottobraccio il disco, che nasconde in un posto sicuro nel palazzo. Il momento è gravissimo. La tragedia delle ultime ore si consuma veloce e drammatica; è davvero l’ultima fiamma di un incendio durato anni. Un reparto di un migliaio di uomini, guidati da giovani ufficiali del clan militarista, primo tra tutti il maggiore Kenji Hatanaka, osa il sacrilegio: attaccano il palazzo imperiale. Nei giardini del sovrano, come se non fossero sufficienti le tremende incursioni nemiche sulla capitale, avvengono scontri tra i rivoltosi e la guardia imperiale. In quella maledetta notte giapponesi puntano i fucili verso altri giapponesi. È un feto di guerra civile. Gli ammutinati vogliono trovare la registrazione del loro imperatore e distruggerla, per continuare a combattere e morire. Cercano urlando nelle stanze di palazzo il ministro della casa imperiale Ishiwatari, il gran ciambellano Tokugawa, il lord del sigillo imperiale, marchese Koichi Kido, e addirittura sì, pure Sua Maestà Imperatore Shōwa, profanatori senza dio. Frugano dappertutto per trovare le registrazioni, ma non saltano fuori. Blackout totale nel palazzo; la guerra aerea riduce Tokyo al buio, ma i congiurati a lume di candela, tra le sale di draghi d’oro e tende di seta, non fermano la loro follia. Trovano il gran ciambellano, che con la katana alla gola mente sulle registrazioni; lui spergiura che non sa dove siano. Non trovano l’imperatore né il marchese Kido, zitti acquattati al buio nei sotterranei, sotto gli stivali nevrastenici dei samurai pazzi che calpestano la sala del trono. Nelle stesse ore, il primo ministro Suzuki scampa ad un attentato. All’alba arriva a palazzo il generale Shizuichi Tanaka, ex governatore delle Filippine, e in quei giorni comandante del settore di difesa orientale, per esortare i rivoltosi alla resa. Li convince. Solo due ufficiali scelgono ai cancelli del palazzo di concludere l’impresa sparandosi alla tempia. Il colpo di stato fallisce, il maggiore Hatanaka si pugnala a morte. In seguito alla capitolazione moltissimi altri capi militari, ma anche tanti civili, seguiranno il suo esempio. Tra i tanti suicidi anche quello del ministro della guerra Anami che nel suo messaggio d’addio, chiede umilmente scusa al suo imperatore. Agosto ’45 in Giappone è Seppuku nazionale. 

L’imperatore Hirohito

Nella mattina del 15 agosto 1945 il disco viene portato alla radio NHK e mandato in onda a mezzogiorno. L’intero paese si raccoglie davanti agli apparecchi radio, in ginocchio, come per una cerimonia religiosa al cospetto di dio. Ascoltano l’inaudito. A parte la cerchia ristretta della corte, dei politici di alto rango, e dei capi militari, nessuno ha mai udito la sacra voce dell’imperatore. Nelle campagne e nelle piazze delle città distrutte, tutto si ferma, l’unico suono, grave e mistico, è quello delle parole scandite da Hirohito, l’entità suprema, sovrano celeste d’origine divina. 

Le difficoltà e le sofferenze che, di qui a poco, la nostra nazione dovrà sopportare, saranno sicuramente grandi. Siamo acutamente consapevoli dei più intimi sentimenti di tutti voi nostri sudditi. Tuttavia, è secondo i precetti del tempo e del fato che abbiamo infine deciso di aprire la strada per una grande pace valida per tutte le generazioni a venire, sopportando l’insopportabile e soffrendo l’insoffribile.

Hiroito

Il dolore per chi ascolta è sincero; un intero popolo è in lacrime. È la sconfitta finale annunciata direttamente dall’imperatore in persona: impensabile; è lo shock più grande di tutta la storia del Giappone. 

Il Gyokuon-hōsō, la trasmissione radio in cui Hirohito legge il Rescritto Imperiale sulla conclusione della guerra, il 15 agosto 1945

La domenica del 2 settembre 1945 sul ponte della grande corazzata Missouri ancorata davanti alla capitale, il ministro degli esteri Mamoru Shigemitsu, in tight con cilindro, bastone e gamba di legno (nel 1932 fu vittima di un attentato a Shanghai), firma a nome dell’Impero del Sol Levante l’atto di capitolazione. Segue il generale Yoshijirō Umezu che firma per le forze armate. La cerimonia sembra lunga una giornata intera, immobile nel tempo – sopra lo stesso concetto di tempo – in realtà dura appena venti minuti. 

Sole pallido sulla baia di Tokyo, mare calmo senza vento. 

ARASHI 嵐 – Tempesta a Levante (7 dicembre 1941 – 2 settembre 1945)

Civili giapponesi ascoltano la trasmissione del rescritto imperiale della resa del Giappone agli Alleati
Civili giapponesi ascoltano la trasmissione del rescritto imperiale della resa del Giappone agli Alleati

La serie Arashi: 

Arashi – トラ Tora!

Arashi II – Il Giappone e la sfera di co-prosperità comune della Grande Asia Orientale.

Arashi III – La katana giapponese puntata al collo delle Midway 

Arashi IV – Sangue su Guadalcanal 

Arashi V – Il massacro di Tarawa

Arashi VI – Tifone ’44 

Arashi VII – L’Impero sotto assedio 

Arashi VIII – Owari 終わり

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“E voi come vivrete?”. Il viaggio dantesco immaginato da Hayao Miyazaki è consapevolezza della violenza e sua conseguente accettazione. Non si fugge dalla realtà, ma si impara a vivere senza rassegnarsi alle condizioni di partenza. Il tutto facendo attenzione a non perdere di vista il cielo, la meta ultima.

Arashi: Tifone ’44

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Le lettere di Yukio Mishima al suo maestro, Kawabata, precipitano nell’ambito di una folle dedizione. “Mi pare che la letteratura abbia assunto in questi ultimi tempi un carattere tra il mondano e il pantofolaio, che mi riesce insopportabile”

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