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Un diario del terrore

“Una donna a Berlino” ci ricorda che le barbarie della guerra non fanno distinzione tra vincitori e vinti e il torto e la ragione hanno confini sottili
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“Dormii fin verso le cinque del mattino. Sentii poi muoversi qualcuno a tentoni nel locale antistante la cantina. Era la moglie del libraio. Veniva di fuori, mi afferrò una mano e mormorò: Sono qui.”

È il 20 aprile 1945 e l’Armata rossa arriva a Berlino. A partire da questo momento e fino al 22 giugno, un diario di fogli dattiloscritti lascerà la testimonianza di quei giorni concitati, a memoria futura dell’oscenità della guerra. Una donna a Berlino, Diario 20 aprile – 22 giugno 1945, pubblicato da Italia StoricaEdizioni,  è scritto da un’ Anonima, e anche se dal 2001anno della morte della protagonista di questo preziosissimo documento storico, sappiamo che si chiamava Marta Hillers, con un volto ed una storia personale precisi, quanto raccontato con lucida e feroce precisione certamente assurge a canovaccio della storia di molte di quelle giovani donne berlinesi alle prese con la nuova normalità. Un racconto fitto in un crescendo di terrore, che narra la quotidianità della sparuta popolazione di un caseggiato, o di quel che ne resta, con la cantina per rifugio, dove giovani e meno giovani portano in dote per il futuro, se si riesce a sopravvivere, il proprio nudo esserci perché non c’è nient’altro. Seguendo il racconto, subito è chiaro che questa lucidità non è dovuta a mere ragioni di cronaca, ma all’esigenza di non smarrire del tutto quel barlume di ragione e umanità sofferente che, negli eventi bellici, quasi sempre finisce in frantumi come i vetri del caseggiato, dopo i bombardamenti. Una scala a chiocciola, vetri sparsi ovunque, sirene che suonano continuamente, bombe che, se non distruggono, fanno tremare le gambe come le pareti, stomaci vuoti per la continua fame, e un odore acre di patate misto all’umidità della cantina a riempire i polmoni. Dettagli che restituiscono a chi legge immagini nitide dell’orrore, fino alle violenze gratuite, belluine, dei soldati russi, lasciando altrettanto chiara la questione a volte taciuta dai libri di storia, e cioè che la distinzione tra vincitori e vinti mette sotto traccia che in un contesto come quello della guerra, il liberatore di qualcuno, quasi sempre coincide con il carnefice di qualcun altro.

Due foto tessere hanno il compito di registrare nei lineamenti del volto di Marta Hillers il prima e il dopo forse addirittura meglio delle parole. Scrive Simonetta Bartolini nell’introduzione:

“Il primo ritratto di Marta Hillers è una foto-tessera – come dimostra una parte di timbro, nell’angolo in altro a destra e forse l’ombra di una fustella nell’angolo opposto – probabilmente scattata prima della guerra. Dal colletto di un cappotto, di una non meglio identificata pelliccia, che le nasconde il collo, esce un volto regolare, capelli bruni raccolti sulla nuca con la scriminatura a sinistra nascosta da un baschetto scuro posato, come si diceva un tempo, sulle ventitré, che le nasconde un orecchio sfiorandole un sopracciglio. Gli occhi scuri, segnati da un breve alone di occhiaie appena accennate, guardano dal basso in alto, quasi una sfida all’obbiettivo o al fotografo che lo impugna, o forse al futuro che la giovane Marta immagina di conquistare, con la forza della sua giovinezza.

Il secondo ritratto di Marta è una foto del 1946, su di lei è passata la ferocia di una guerra perduta. Ed è facile indovinarlo. Anche questa sembra una foto tessera. Ora i capelli sono sciolti e si fermano appena sotto l’orecchio, non ha più il cappellino a segnalare lo status di ragazza borghese, e neppure il cappotto di pelliccia; al collo è annodato un foulard. Le labbra sono le stesse dell’altra fotografia: piccole e carnose sembrano accennare un sorriso, ma è l’illusione fisiognomica degli angoli rivolti naturalmente verso l’alto. Gli occhi si incaricano di denunciare la distanza e la storia fra i due ritratti: ora sfuggono l’obbiettivo guardano altrove, la sfida è stata perduta, Marta è stata sconfitta dalla guerra, dagli uomini, dai suoi compagni di sventura in quelle drammatiche settimane dal 20 aprile al giugno del 1945, quando Berlino divenne la città espugnata e devastata dall’Esercito russo.”

Guerra è regredire ad uno stato quasi primitivo non soltanto dal punto di vista materiale, con una tecnologia che mostra tutti i suoi limiti perché è tra le prime cose a saltare: a fare strame di qualsiasi retaggio di innocenza, l’abbrutimento del mero sopravvivere è tutto in quelle poche parole di Marta, quando durante una chiacchierata con una certa Frau Gr, in un giardino vicino al caseggiato in cui abitava, il rumore degli spari le costringe ad alzare la voce, quasi a sforzarsi di fingere normalità. Ci sono fiori intorno e probabilmente sono anche belli, ma si è così pieni di morte da non sapere cosa farsene. Un diario che è certamente un documento di cui serbare memoria storica, a fugare le ipocrisie di una Storia che dimentica di avvisare che la barbarie bellica non fa troppe distinzioni tra vincitori e vinti: il torto e la ragione hanno confini labilissimi, quando il resto della vita è uno svegliarsi a fatica da un incubo.

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