OGGETTO: Revisionismo all'orientale
DATA: 22 Settembre 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Analisi
AREA: Asia
Cina e Giappone si fronteggiano da secoli, acuendo differenze e punti di faglia che, malgrado le razionali liaison politiche, continuano a manifestarsi. Gli imperi non finiscono: la Cina ha solo cambiato il colore dal celeste al rosso, mentre il Giappone, conscio di dover rivedere criticamente il pacifista articolo 9 della sua Costituzione, si riarma. La storia, pur procedendo, continua a proporre scene già viste.
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Cultura e storia sono incancellabili: l’evoluzione può precorrere i tempi, ma non può elidere gli aspetti fondanti dei popoli. Cina e Giappone hanno condiviso legami che ancora influenzano le contingenze, secondo ritmiche incomprensibili per sensibilità troppo occidentali rispetto alla celestialità di imperi in cui il più ampio flusso dell’oceano del tempo segue paziente e impassibile altre connotazioni. La parata militare con cui la Cina ha inteso celebrare la vittoria sul Giappone, idealmente connette la Pechino del 1895, quella della Prima Guerra Sino-Giapponese e del durissimo Trattato di Shimonoseki, che militarmente e culturalmente sancì la fine della centralità del Regno di Mezzo, con la Pechino del 2025 che punta a riconquistare la ribelle Taiwan e a dare un definitivo colpo di spugna all’influenza nipponica. La fine del sinocentrismo ebbe tuttavia il pregio di mutare l’approccio cinese verso Tokyo e verso la sua inedita essenza rinnovatrice.   

Pur nella persistente conflittualità geopolitica, e dopo le atrocità di un conflitto trascinatosi per anni, il 1978 portò con sé il Trattato di Pace e Amicizia, elegante opera di architettura diplomatica che non cancellò, né avrebbe potuto farlo, il pluridecennale isolamento cinese e la convinzione confuciana per cui il passato si riverbera inevitabilmente nel presente; oggi la Cina, per il Giappone, è il più importante partner economico, mentre il Giappone è agli apici delle partnership commerciali cinesi.

Da un lato sono stati i variabili percorsi di sviluppo ad imprimere le differenze estremo-orientali; dall’altro sono state le influenze esterne: la Cina è sempre stata impero continentale, il Giappone nazione insulare che, facilitata dal mare sia nella preservazione dell’autonomia che nella capacità di adattamento, prima di intraprendere un percorso autonomo, ha rielaborato le influenze cinesi. 

Peccato che l’economia non abbia portato con sé l’armonia politica, condizionata da una memoria storica che, alla luce sia della ciclica pubblicazione di libri di testo giapponesi che reinterpretano guerre ed occupazioni, sia dell’inserimento di criminali di guerra nel pantheon dei caduti commemorati nel Santuario di Yasukuni, impone a Pechino di richiedere periodicamente l’autodafé del riconoscimento dei delitti commessi; un atto sofferto, dato che anche in Giappone le correnti conservatrici non mancano di far ascoltare la loro voce: il ritorno nipponico sulle scene internazionali, nell’invocare l’alleggerimento di un latente senso di colpa, fa riemergere un orgoglio che vuole riscrivere la storia recente, vista come una perenne citazione in giudizio, al fine di preservare l’identità nazionale. Agli autori dei libri di storia viene chiesto di addolcire shinryaku (invasione) con shinshutsu (avanzata), oppure descrivere il gyakusatsu (massacro) di Nanchino del 1937 come un jiken (incidente). È il passato che condanna il Giappone a non poter essere un paese pienamente accetto dai vicini per diventare arma di ricatto per estorcere concessioni economiche; non è del resto un mistero che le imprese nipponiche assicurino lavoro a diversi milioni di cinesi, beneficando così il fisco di Pechino di svariati miliardi di dollari. 

Di fatto, tra il rifiuto cinese di scuse formali per non saper (o voler) contenere le periodiche proteste popolari, e l’automatico risentimento dei giapponesi che non accettano lezioni da parte di un paese privo di reali patenti democratiche, le relazioni sino-nipponiche si trascinano con pochi alti e molti bassi. Solo il pragmatismo dello sfortunato Shinzo Abe, pur intervallato da momenti di tensione coincidenti con l’ascesa di Xi Jinping, latore di una decisa assertività che ha condotto alla BRI ed al potenziamento dello strumento militare, ha parzialmente lenito gli attriti. La governance cinese di fatto incide sui rapporti con Tokyo, caratterizzata dai punti di faglia rappresentati dal Mar Cinese Meridionale, da cui emergono le contesissime isole Senkaku, o Diaoyu, nazionalizzate da Tokyo nel 2012, e dagli USA che, con la Costituzione post bellica, da un lato hanno privato il Giappone del diritto sovrano alla guerra, dall’altro continuano ad interpretare il ruolo della spina nel fianco in quegli specchi oceanici, increspati dall’insorgente minaccia navale cinese cui si contrappone una crescente aspirazione nipponica all’autonomia nel settore securitario. 

Ciò che suscita l’attenzione, nell’ambito delle dinamiche politologiche, è il ritorno, ammesso che ci avesse davvero abbandonato, del revisionismo, elemento culturale fuorviante non alieno neanche alle latitudini occidentali, secondo una tendenza che caratterizza le percezioni cognitive, facilmente manipolabili in assenza di conoscenze pregresse più approfondite. È un cantico, è un’aria che pervade il palcoscenico per librarsi verso loggioni esigenti, attenti alle stecche. I Dulcamara sino nipponici mettono all’incanto gli elisir che, tra non troppo furtive lagrime, propongono narrative che tingono, con ingannevoli sfumature, fatti ed eventi cangianti dal seppia d’antan alle tinte più recenti e sgargianti. La prima metà del secolo che fu, non è stata quella cantata dall’aedo Xi, come del resto guerre, occupazioni e Unità ripugnanti come la giapponese 731 non sono certo considerabili funzionali a narrazioni intonate da cori alla Mishima che dipingono quanto scientemente compiuto quale inevitabile risultato di efferata costrizione. Malgrado le discendenze divine, imperatori e poco convincenti paci eterne e celesti non riescono a gettare sabbia negli occhi di chi, invece di cedere ad un sonno che vorrebbe donare requie, non può non ricordare né l’orrore di recenti repressioni di raccapricciante violenza né coraggiosi signori nessuno armati di soli shopper di plastica e schierati di fronte ai carri armati, malgrado il tono flautato dei Dulcamara. Siamo concordi con Lorenzo Termine, quando delinea l’ascesa del revisionismo come rientrante nelle iteratività politiche internazionali, dove Stati insoddisfatti dal proprio status quo operano per giungere a condizioni più vantaggiose e per incidere sia nella dimensione distributiva dell’allocazione di risorse e potere, sia in quella interstatale, normativa e regolatoria. Ecco che la Cina, stando alla prolusione di Xi, forte dell’acquisizione post maoista del paradigma industriale giapponese, punta a versioni alternative dell’ordine internazionale, foriere di guerre egemoniche e comunque potenzialmente rientranti nell’ambito della power transition theory, visto che Pechino è un game changer ideale nelle relazioni internazionali, attento al bilanciamento degli interessi e ad una distribuzione di potenza opposta a qualsiasi flemmatizzazione. Se finora la Cina non è stata facilmente inquadrabile in un contesto revisionista, le posizioni assunte da Xi non solo mettono sia USA che Russia all’angolo, ma aprono anche a inedite possibilità che puntano a reinterpretare i principi dell’ordine post 1945, benché, Pechino abbia comunque aderito all’ordine economico corrente; di fatto rimane una generica cautela cinese nell’approccio laddove i rischi strategici superino i benefici, anche se è opportuno rammentare la presa di posizione della diplomazia cinese che, nel 2019, metteva polemicamente in discussione la sovranità dei paesi post sovietici. 

Se è vero che il conflitto asiatico – indo pacifico comincia nel 1931 con l’invasione della Manciuria, in quel quadrante, nel 1945, sarebbe probabilmente proseguito, anche perché parcellizzato tra contrasto all’invasore e guerra civile interna, se non fosse giunta la capitolazione giapponese firmata a bordo della USS Missouri, da cui un incuriosito Generale MacArthur avrebbe probabilmente guardato alla sfilata di Piazza Tienanmen. Il problema sta nel fatto che l’ascesa economico-militare cinese ha riportato alla luce il realismo politico della Trappola di Tucidide, il rischio di guerre egemoniche e la posizione di potenza emergente e revisionista-incrementale di Pechino, che oscilla tra il mantenimento della situazione e sporadici balzi in avanti volti comunque ad evitare rischi esistenziali sfidando un antagonista ancora troppo potente e di certo non in declino, specie se visto attraverso il prisma della polarità. Ritenere che si sia tornati ad un momento bipolare, significa sottostimare i cambiamenti post Guerra Fredda in relazione all’assertività di nuovi egemoni come l’India. Non c’è dubbio che, mentre la necessità di rendere le supply chains diventa più impellente, la competitività economica costringe a rivalutare gli impegni nell’Indo-Pacifico, contrastando o attenuando il dominio cinese, alternando il pragmatismo ad una indispensabile dose di ambiguità che consenta spazi di manovra atti a contrastare le critiche cinesi all’impianto securitario nippo-americano, con Tokyo in posizione ancillare; uno status ribadito dai costanti attacchi propagandistici che sconfinano spesso negli ambiti del dominio cognitivo per indebolire l’alleanza con gli USA e gettare discredito; di fatto, il Giappone è turbato dalla forte ascesa di Pechino quale potenza globale e dalla prospettiva di un ulteriore riorientamento americano.

A fronte delle difficoltà socio-economiche, l’amministrazione giapponese ha cercato di capitalizzare l’eredità politica lasciata dal defunto premier Shinzō Abe, artefice degli aggiornamenti strategici della geopolitica del XXI secolo, grazie a cui è stato previsto un incremento della spesa per la difesa. L’ascesa di Pechino ha costretto Tokyo a rivedere la sua ansia strategica che privilegiava il potere finanziario affidandosi a Washington per la sicurezza, cosa che ha indotto prima ad adattarsi a un’economia più competitiva, poi all’instabilità politica portata da Trump e, successivamente, alle vulnerabilità politiche interne. Molto probabilmente il Giappone si trova in un momento strategico dai contorni sfumati che sta conducendo a nuove incertezze geopolitiche, contrastate da una diplomazia del realismo, che ha portato a nuove cooperazioni con India e Occidente ed al ripristino del Quad. Il problema, eventualmente, è nell’assertività della leadership e, di conseguenza, negli emendamenti costituzionali necessari a garantire una maggiore autonomia militare. La strategia politica di Abe verso la Cina ha accostato i criteri sulle questioni di sicurezza al rafforzamento dei legami economici, adottando una linea più rigida motivata dalla percezione di minacce sempre più incombenti, a cominciare dal rafforzamento militare e dalla sicurezza marittima ma preservando gli scambi commerciali e guardando ad una reinterpretazione dell’articolo 9 della Costituzione. Il problema, attualmente, risiede in una fragilità istituzionale che, tra inflazione, dazi, minacce securitarie, ha condotto alle dimissioni del premier Ishiba, costretto ad indire elezioni anticipate che, probabilmente, premieranno nuovamente il partito conservatore, beneficato dalle divisioni interne tra le opposizioni.

Se dalla recente sfilata cinese trafila un’impropria vena di revisionismo pacifista, quanto mai incompatibile con il passo da parata esibito dalle truppe, dalla nuova dottrina di sicurezza nazionale nipponica traspare una nuova impostazione securitaria, sospinta dalla latente crisi taiwanese e dai reiterati test nucleari e missilistici condotti dal regno eremita di Pyongyang; dunque, dopo l’annuncio del riarmo tedesco, ecco i nuovi programmi giapponesi. Tokyo rimane la sentinella del fronte indo-pacifico, ed è per questo che, a fronte dell’ascesa cinese, ha potenziato le sue FA, cui conferire una concreta counterstrike capability, in un ambito regionale caratterizzato dalla presenza di diverse basi statunitensi. Lo stesso Xi ha più volte sottolineato come la narrazione della lotta contro il militarismo giapponese è fonte di ispirazione per un popolo, quello cinese, indirizzato solo ed unicamente verso il risorgimento nazionale, cui non è estranea l’importanza geopolitica di Okinawa, punto cruciale in caso di conflitto; Tokyo non può più assumere posture statiche di fronte alla realtà internazionale che, nel precedente russo in Ucraina, ha visto mettere in discussione la legittimità del rules-based international order, sfruttabile dalla Cina per disciplinare le dispute su Taiwan e isole Senkaku. La Cina, secondo la Strategia di Sicurezza Nazionale, è ormai la più grande sfida strategica che il Giappone abbia mai affrontato, ed è capace di minacciare integrità ed interessi, aspetto che non ha evitato né dissensi né prese di posizione contrarie da parte di Pechino, non così attenta alla non ingerenza.  

Arriviamo a oggi. Dazi e discordanze americani circa le garanzie securitarie del Giappone hanno eroso la fiducia verso gli USA, tanto da indurre Tokyo a mantenere una strategia improntata alla prudenza, vista la debolezza degli esecutivi in carica e le assertività di Pechino sul Mar Cinese Meridionale; l’economia sino-nipponica presenta caratteri di integrazione, a cominciare dalle supply chain essenziali per i settori più sensibili, come il manifatturiero ma con un’attenzione marcata al rallentato andamento demografico. Tra gli obiettivi giapponesi rimane quello di rendere l’economia meno esposta sia alle possibili coercizioni economiche di Pechino, cui rispondere allineandosi agli interessi strategici americani, sia alla perigliosa geopolitica taiwanese. Il quadro è dunque complesso: da un lato, le value chain asiatiche, collegate con il mercato americano hanno bisogno della liaison commerciale sino-nipponica; dall’altro le tendenze favorevoli in ambito economico non possono ovviare alle criticità politico-diplomatiche.  

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