La storia del Novecento italiano è costellata di piccole perle letterarie dimenticate o nascoste qua e là, in attesa che qualcuno, per curiosità o per studi collaterali, le dissotterri dagli archivi di qualche biblioteca, li scalzi dallo scaffale di qualche libraio, le compri per pochi spiccioli a qualche bancarella dell’usato. Così, se Giulio Mozzi, scrittore e curatore editoriale per Sironi, non avesse notato, in una libreria antiquaria, un volume intitolato Lo zar non è morto e firmato da degli enigmatici “Dieci”, oggi noi non potremmo godere di una stuzzicante scoperta.
Mozzi comprò e lesse quel libro, risalente al 1929. Si trovò davanti a un ottimo romanzo di spionaggio pieno di colpi di scena, caratterizzato da un linguaggio scorrevole e da un ritmo incalzante; insomma, un’opera che niente aveva da invidiare ai bestseller moderni. Così decise di ristamparlo con Sironi, nel 2005. Al tempo, Mozzi non riuscì a trovare molte informazioni né sulla formazione di questo gruppo dei Dieci, né sul romanzo in sé: stranamente, neanche il mondo accademico italiano possedeva informazioni riguardo questo curioso prodotto letterario. Curioso, perché testimonianza del primo vero esperimento di scrittura collettiva della letteratura italiana; difficile quindi comprendere l’alone d’ignoranza che pervadeva il titolo.
Fortunatamente, quest’anno assistiamo al diradarsi di questa nebbia e all’ arricchirsi della storia bibliografica del volume: è infatti uscito, per i tipi di Luni, l’edizione integrale del romanzo. Autrice della prefazione e curatrice dell’edizione, la Professoressa Simonetta Bartolini, che non è certo nuova a queste sapienti opere di recupero. Basti ricordare, a titolo di esempio, Yoga, sempre per Luni Editrice: in quel monumentale lavoro, la professoressa ricostruisce la storia della omonima rivista fondata nel 1920 a Fiume da Guido Keller e dal romanziere Giovanni Comisso, altra pagina colpevolmente dimenticata della nostra letteratura.
In questo caso, Simonetta Bartolini chiarifica, nella sua puntuale prefazione, il contesto storico, la formazione del gruppo dei Dieci e la storia editoriale del romanzo. Tutto parte da un’idea di Filippo Tommaso Marinetti, nel 1927. All’interno del mondo del sindacalismo fascista, il fondatore del futurismo chiama a raccolta alcune tra le migliori penne del suo tempo: Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli, Lucio D’Ambra, Alessandro de Stefani, Fausto Maria Martini, Guido Milanesi, Alessandro Varaldo, Cesare Giulio Viola e Luciano Zuccoli. Insieme a questi, fonda il gruppo dei Dieci, con il dichiarato intento di far rifiorire il genere del romanzo in Italia. Il gruppo si mette subito a lavoro, e nel 1928 Lo zar non è morto comincia ad uscire a puntate sul quotidiano «Il lavoro d’Italia»; l’anno successivo, le 119 puntate del romanzo sono riunite e pubblicate in volume unico, non senza aver operato, però, correzioni e tagli.
Contrariamente a Sironi, nel nuovo volume si è scelto di portare alle stampe non l’edizione del ’29, bensì l’originale uscita in rivista, priva dunque delle modifiche operate successivamente dal gruppo. Grazie a una scelta filologica poco invasiva, però, è possibile rintracciare nel testo i passi successivamente tagliati, in quanto delimitati da asterischi.
Come già detto, Lo zar non è morto è un appassionante romanzo d’avventure che racconta intricate vicende di trame politiche e spionaggio. La storia è ambientata in un futuro molto prossimo agli autori, il 1932 (la vicenda inizia la notte di capodanno 1931). Tra le campagne della Manciuria viene trovato un uomo sin troppo somigliante a Nicola II Romanov. La notizia che lo zar possa essere scampato al barbarico eccidio sovietico mette agitazione in tutto il mondo: da una parte, le forze occidentali, in particolare Italia e Inghilterra, vogliono assicurarsi la custodia dell’uomo, per preservarlo dai nemici e far crollare con la sua autorità regale la dittatura comunista in Russia; dall’altra l’Unione Sovietica, che invece vuole impadronirsi dell’anziano signore per farlo sparire definitivamente e salvare così la dittatura da molto probabili terremoti interni. Nel mezzo ai due contendenti, la Repubblica cinese, guidata da un presidente ambizioso e tenace, che vuole impadronirsi del presunto zar per poterlo “vendere” al miglior offerente. La scrittura è incalzante e fluida; il lavoro collettivo dei Dieci è già maturo e sapiente: i cambiamenti di stile, infatti, sono talmente graduali e carsici che non sempre è facile avvertirli, tanto che, a questo romanzo, fu pure accostato un gioco a premi per chi avesse riconosciuto quali mani avessero lavorato a uno dei suoi capitoli.
Ai già citati, è necessario aggiungere almeno altri due aspetti interessanti che emergono da questo volume, e che meritano senza dubbio un ulteriore approfondimento. Il primo riguarda proprio il fondatore del gruppo dei Dieci, ovvero Filippo Tommaso Marinetti. Il ritorno alla luce dello Zar non è morto arricchisce ulteriormente la sua bibliografia.
Ora, il romanzo in sé ha decisamente poco di futurista – a dire la verità, la stessa forma romanzesca è fuori dalle corde artistiche dell’avanguardia. Per questo, l’accusa che Emilio Settimelli rivolge a Marinetti, ovvero di aver tradito con questa opera il futurismo, potrebbe effettivamente sembrare fondata. D’altro canto, come già affermato dal critico Luciano De Maria, seguire la coerenza ideologica nelle opere di Marinetti è operazione inutile e infruttuosa. Insomma, non è certo questa la via da percorrere, se si vuole arrivare alla piena comprensione del personaggio. È proprio fuori il recinto dell’ideologia, infatti, che è possibile avvertire una certa affinità tra il motivo che ha portato alla formazione dei Dieci e quella che portò, nel 1909, alla nascita del futurismo. Entrambe le operazioni, infatti, partono da un fine editoriale: quella del futurismo, raggruppare tutti i poeti italiani di versi liberi, ignorati dalle case editrici ufficiali (i vari Lucini e Palazzeschi erano considerati troppo “sperimentali” dal mercato librario), quella dei Dieci, di dare nuovo impulso ad un genere letterario che in quel momento stava subendo la spietata concorrenza del teatro, ovvero il romanzo. Se il futurismo, poi ebbe un successo tale da evolversi in avanguardia artistica totalitaria, la sperimentazione dei Dieci non ebbe lo stesso esito, arrivando a sciogliersi dopo pochi anni. Ciò che viene fuori da questo, è un Marinetti decisamente scaltro, abile ad individuare opportunità e vuoti all’interno dell’offerta letteraria italiana.
Il secondo aspetto interessante è come l’Italia fascista appare, nelle sue relazioni diplomatiche, all’interno delle pagine del libro. Lungi dall’essere la forza mediterranea che si contrappone alle plutocrazie occidentali, i funzionari e gli agenti in camicia nera dimostrano ottimi rapporti e persino stretta collaborazione con i paesi europei, in particolare con la Gran Bretagna. L’Unione Sovietica, certo, appare come il comune nemico, ma i rapporti tra il ministro plenipotenziario britannico sir Edwin Bluth e il ministro degli Affari Esteri Piccolomini sono sin troppo volti a una reciproca stima e cordiale amicizia, per essere motivati soltanto da cause di forza maggiore. D’altronde, è un fatto ormai noto che, prima degli anni Trenta, l’Italia fascista stimolasse la curiosità tanto britannica quanto statunitense, e che i rapporti con i paesi anglofoni non fossero, in quel periodo, all’insegna della tensione ideologica. D’altronde, Mussolini nel 1922 era pure stato in visita a Londra, dove fu accolto in maniera entusiastica e trionfale. Lo zar non è morto però non è solo testimonianza di questa situazione diplomatica. Non è cosa di poco conto, infatti, che una tale amicizia fosse divulgata tramite un romanzo, al tempo, di larga diffusione: il regime non considerava la Gran Bretagna un nemico, quindi nemmeno l’opinione pubblica l’avvertiva come tale. Anzi, la stima dimostrata dai funzionari britannici nei confronti della marina e degli agenti italiani doveva considerarsi motivo di vanto, poiché testimonianza del fatto che l’Italia non era più una potenza marginale nello scacchiere europeo.
Purtroppo per gli autori del libro, però, il vento politico ci mette poco a cambiare direzione. Chissà se pure gli eventi del decennio successivo contribuirono alla coltre di oblio che avvolse questo romanzo. Certamente, un’opera del genere non poteva sperare in troppe fortune editoriali, dopo il 1945, a partire dal titolo: per molti intellettuali italiani, infatti, anche solo l’ipotesi di un crollo dell’URSS per la restaurazione della dinastia Romanov avrebbe significato un doloroso colpo al cuore. Per questo, dunque, per riscoprire il primo romanzo collettivo della letteratura italiana è stato necessario attendere quasi un centinaio d’anni.
Oggi, grazie all’instancabile opera di alcuni studiosi e ricercatori liberi come Simonetta Bartolini, il muro d’omertà che ancora avvolge la produzione letteraria del primo Novecento italiano si sta sgretolando, e la visione di quel periodo, prima confusa, si fa sempre più nitida e completa. Di questo non possiamo che essere lieti.