Ossessione Ungern. Sfondo bianco immacolato, è il deserto bianco. Il gelo aggredisce gli uomini, e morde le loro ossa. Panorama privo di confini, cielo e terra si mescolano tra loro, non si possono più distinguere. È come galleggiare senza meta nello spazio vuoto, nell’infinito. Non esiste nulla di più spaventoso dell’infinito eterno da affrontare soli e coscienti, era dopo era, lungo le stagioni dell’universo immortale, senza morte, senza fine. Se ci si ferma troppo a pensarci su si rischia di impazzire.
Un lupo sbuca dal nulla. Ha gli occhi grigio-azzurri. Si ferma di colpo, volta il muso verso qualcosa che ha udito, rizza il pelo, arretra, scompare. Come un tuono improvviso, il fragore di un lungo fischio roco irrompe nel deserto bianco e sale d’intensità nell’inverno d’Asia. S’aggiungono sordi e ritmati battiti di tamburo. La musica terrificante di corni e tamburi da guerra fa tremare lo spazio. Dalla candida coltre monocolore cominciano ad affiorare alcune figure in rapido avvicinamento; sono una moltitudine di cavalieri neri in ranghi serrati: lunghe sono le loro lance, alte le bandiere. Davanti a tutti cavalca il loro signore e padrone, il dio della guerra. In un boato d’inferno, disumano, tremila gole urlano il coro guerriero:
“Ungern! Ungern! Ungern!”
La prima volta che mi imbattei nel barone Roman Fëdorovič von Ungern-Sternberg fu durante un viaggio in Mongolia. Era il 2010, e con altri due amici a bordo di una minuscola ma audace autoambulanza modello Piaggio Porter, coraggiosa scatoletta di latta a quattro ruote, partimmo da Torino per raggiungere Ulan Bator, al secolo Urga, capitale della Mongolia.
Dodicimila chilometri di Mondo scorrevano fuori dal finestrino come un film d’avventura vissuto in prima persona, e dunque furono Alpi, efficienti lisce Autobahn germaniche, castelli boemi per internazionali sabba alcolici, strade da lupi al confine ceco-polacco, piatte vie verso Varsavia, cieli baltici, folle camioniste alla pigra frontiera con la Russia, incendi colossali che friggevano l’aria, affumicavano il respiro e bruciavano gli occhi, asfalto sciolto, steppa, infinita steppa incubo delle armate napoleoniche e hitleriane, acque calde del Volga per i bagni in compagnia dello spettro di Nikita Krusciov, tramonti con sole rosso fornace alla porta d’Asia, monotonia soporifera del paesaggio kazako – terra gialla, cielo azzurro pallido, strada dritta grigio bitume, sperdute locande da Far East, panorami postatomici, immersioni nei meravigliosi, selvaggi, freschi paesaggi siberiani, immobili e bellissimi, Oblast degli orsi, la Russia d’Oriente, le arrampicate verso villaggi di frontiera musulmani visitati dalla neve d’agosto, sbalzi termici impressionanti – sotto zero poi di nuovo a galleggiare sopra i 40° in poche ore, i tratti somatici dei volti che mutavano a seconda dei chilometri macinati verso est, gli avamposti sull’orlo del nulla, le aquile, i cammelli, i cavalli piccoli e forti, le mulattiere su precipizi affrontate cauti ma decisi, i passi montani da letteratura esotica d’Ottocento, i nomadi coi vestiti di sempre quindi lunghe tuniche fino al polpaccio strette in vita da fasce gialle o rosse, le case bianche itineranti gher, le allucinazioni con protagonista Gengis Khan che ci salutava dalle alture del massiccio del Tavan Bogd, vodka, tanta vodka, troppa vodka e ancora vodka, sagome di templi buddhisti, strane cittadine d’influenza sovietica decrepite, rugginose e impolverate, orologi in frantumi e calendari nel fuoco: il tempo non esisteva più, gli altipiani colossali dove correre con il sole in fronte, le piste desertiche nella sconfinata brace del Gobi, noi irriconoscibili dallo sporco e dalla terra in viso, noi amici nell’immensità, noi cosmonauti alla deriva in lontane galassie orientali.
Ebbene, Mongolia, dove nascono i figli della luce d’oro. Come dicevo, incontrai il barone von Ungern-Sternberg l’estate di nove anni fa. Non sapevo nulla di lui, mai sentito nominare prima. Non fu un’apparizione mistica o particolarmente teatrale, il suo nome non mi fu sussurrato da un vecchio sciamano in una yurta, né le sue gesta mi furono raccontate da un cavaliere buriato incontrato nella steppa, e nemmeno mi apparve tra le rocce dell’oceano di terra incandescente del Gobi come un sinistro miraggio uscito dalle profondità del regno sotterraneo di Agarthi. No, la prima volta che vidi il suo nome, fu tra le pagine di una guida di viaggio di una casa editrice molto popolare che tutti conoscono, la Lonely Planet, volume sulla Mongolia, che nel capitolo dedicato alla storia di quella nazione dell’Estremo Oriente ha inserito un trafiletto:
IL BARONE PAZZO
Una delle figure più singolari della storia mongola fu il barone Roman Nikolaus Fyodirovich von Ungern-Sternberg, un ufficiale russo bianco disertore che credeva di essere la reincarnazione di Gengis Khan e di essere destinato a ricostruire l’impero dei signori della guerra mongoli. I contemporanei hanno tracciato un bel ritratto del barone von Ungern-Sternberg, più tardi ribattezzato “il barone pazzo”, descrivendolo come un uomo dall’aspetto tormentato, con uno sguardo da psicotico sempre pronto a fissarsi sulle persone e gli occhi “simili a quelli di un animale in una grotta”. Il barone aveva un tono di voce acuto e la sua fronte sporgente era segnata da un’enorme cicatrice di arma da taglio, sotto la quale le vene si gonfiavano ogniqualvolta qualcosa lo faceva agitare.
Quello con il “barone pazzo” fu un incontro banale su una pubblicazione turistica, ma folgorante. Quel trafiletto di poche righe, e con poche informazioni nemmeno troppo corrette, incendiò la curiosità e mi ossessionò per molto tempo. Fu la chiave per aprire mondi sommersi della Storia e per addentrarsi nelle buie profondità del Novecento, nelle sue stanze più nascoste e dimenticate.
Quel pugno di parole sulla guida fu l’inizio di una fissazione: chi era veramente il barone? Iniziò la lunga indagine del sottoscritto nei panni di investigatore della Storia per far luce su uno dei personaggi più misteriosi, sanguinari ed eccentrici in cui mi sia mai imbattuto. In seguito al mio viaggio on the road Torino – Ulan Bator trascrissi in bella copia il diario di bordo di quei giorni erranti verso Levante. Pubblicai con una piccola casa editrice Il Grande Khan, un libro leggero, divertito e veloce sulla nostra impresa in autoambulanza, e tra un’avventura automobilistica e l’altra inserii il capitolo “Pausa dagli eventi stradali in compagnia di Ungern Khan”, in cui tentai, talvolta sbagliando, di ripercorrere la biografia guerriera del nobile zarista di origine baltica, capitato in Mongolia a sognare riscosse contro l’orda bolscevica dilagante dopo quel fatidico 1917 che fece tremare il mondo e il secolo XX.
Anche se scritto anni fa, quando possedevo una conoscenza ancora superficiale sul barone, molto intrisa di leggenda e mito più che di oggettiva realtà storica, riuscii comunque a ritrarre Ungern-Sternberg in modo credo avvincente. Le dita volavano sulla tastiera, una febbre esaltata muoveva pensieri e parole, mi ritrovai durante la guerra civile russa a cavalcare con i cavalieri della Divisione Asiatica. Giunsi nelle lande ultraterrene dello Stato cosacco di Transbajkalia e dell’impero giallo del Buddha reincarnato Bogd Khan, retto dalla feroce tirannia del barone pazzo nato nel dicembre 1885, a Graz, in Austria, da una famiglia dell’aristocrazia delle province baltiche dell’Impero Russo facente parte della cerchia elitaria e storica delle “Quattro famiglie della mano unita”.
Il giovane barone studiò prima come cadetto nel Corpo di Marina a San Pietroburgo, in seguito fu volontario di fanteria in Estremo Oriente, poi galoppò a sciabola sguainata coi cavalieri cosacchi durante la Grande Guerra e infine si autoproclamò generale della Divisione Asiatica di Cavalleria nella sua folle cavalcata mongola verso la morte. Da giovane ebbe la sua formazione nei lontani confini orientali dell’Impero russo. Laggiù, tra monti inesplorati e valli inaccessibili, boschi selvaggi e tribù misteriose, credenze sciamane e antiche leggende, il ragazzo con la divisa da ufficiale di cavalleria rimase affascinato, folgorato più che colpito, dallo stile di vita delle genti nomadi buriate e mongole, e dai loro misticismi esotici, così lontani e magici rispetto alla solennità tradizionale del cristianesimo ortodosso. Sicuramente la religione buddhista tibetana e le pratiche del sciamanesimo contarono molto nella crescita spirituale del tenente, che poi negli anni successivi degenerò, si deformò, mischiandosi a qualcosa di diabolico, di primitivamente malvagio, dando concretezza e materia alla follia successiva. Roman imparò molto dal primo confitto mondiale, la morte fu sua maestra, il sangue sua ispirazione, la guerra la sua maturità.
Febbraio, 1917. A Pietrogrado una rivolta spontanea degli abitanti a cui si unì la guarnigione militare della città scosse l’antico e decrepito potere secolare, facendolo crollare. Fu la rivoluzione, la fine della dinastia Romanov. Il nuovo governo provvisorio, retto dal partito dei Cadetti, dai menscevichi liberali e borghesi e da alcuni elementi social-rivoluzionari inviò Ungern-Sternberg in Estremo Oriente, sotto il comando dell’ataman Grigorij Semënov, comandante dei cosacchi del Baikal. I due si intesero e fecero subito combriccola, futura associazione per violenze e guai.
Semënov e Ungern-Sternberg decisero senza esitazione di resistere al dilagare dei comunisti insieme ai loro cavalieri cosacchi, fieri guerrieri delle steppe. Furono tra i tanti militari che opposero strenua resistenza al bolscevismo nella Russia sconquassata dalla guerra civile, con una lotta fratricida senza quartiere. Da una parte c’erano i “rossi”, i bolscevichi di Lenin organizzati militarmente nella neonata Armata Rossa studiata da Lev Trockij e dall’altra parte i cosiddetti “bianchi”, ovvero principalmente truppe monarchiche fedeli ai Romanov, ma anche reazionari in genere, conservatori, menscevichi, pure un corpo di spedizione straniero anglo-franco-americano, una Legione cecoslovacca i cui effettivi erano ex-prigionieri di guerra e disertori delle armate austro-ungariche e persino gli italiani irredenti della Legione Redenta e del Battaglione Savoia. Questo eterogeneo schieramento antibolscevico era comandato dall’ammiraglio Aleksandr Kolcak, ex esploratore artico, capo supremo dell’Armata Bianca fino al 1920, anno della sua fucilazione.
L’eterogeneità accennata prima si tradusse anche in divisioni, complotti, autonomie e scissioni. Semënov e Ungern-Sternberg ad esempio, sebbene accaniti cacciatori di comunisti e appassionati adoratori di una mitica e antistorica visione di Ancien Régime, e seppur condividendo con il resto dell’Armata Bianca un sincero odio verso la bandiera rossa, scelsero di dar vita a una fazione indipendente, la cui unica autorità era la loro. I due ufficiali di cavalleria mai riconobbero l’autorità di Kolcak e mai si dichiararono parte integrante e combattente dell’armata controrivoluzionaria. Erano sì controrivoluzionari, ma per i fatti loro.
E fu una controrivoluzione condotta con la medesima passione con cui ci si dedica a una rivoluzione, senza dunque alcuna riserva, esitazione, pietà per gli uomini. Doni generosi come armi e munizioni, cibo e denaro, arrivarono dal Sol Levante, un’altra comparsa in questa caotica scena teatrale che furono gli anni dopo la rivoluzione del 1917. I giapponesi, ben tronfi dei successi della guerra del 1905 contro Nicola II e saliti al rango di potenti della Terra, ficcarono ben volentieri naso e becco nella zuffa per rincorrere espansioni territoriali e colonie mascherate da possibili stati fantoccio prestati a qualche capo guerra della pasta di Semënov o di Ungern.
Il barone mise insieme una divisione di cavalleria chiamata Divisione Asiatica di Cavalleria (Asiatskaja Konaja Divizija) nella quale confluirono mongoli, buriati, russi, cosacchi, caucasici, perfino tibetani, coreani, giapponesi e cinesi. L’armata che lo seguiva, forte di poche migliaia di anime votate all’impresa eccezionale o forse a interessi più pragmatici come saccheggi e ori, era come la sua guida, ovvero fuori da ogni schema, singolare, folle. Se si lascia libera l’immaginazione, tralasciando la rigorosa ricerca storica, ecco che compare un esercito schizofrenico, di tagliagole per professione o per passione, di cosacchi dalle lame affilate, di avventurieri senza Dio, di ufficiali alcolizzati, morfinomani e orfani di zar, di reazionari esaltati, di mercenari, di fanatici buddhisti, di veterani dei fronti della Grande Guerra, di unni moderni, di assassini, di proto-nazisti, di PAZZI, di cercatori di gloria, di anime perdute, di cavalieri neri. Un esercito schizofrenico, tenuto assieme dalla feroce disciplina imposta dal suo comandante assoluto, sua eccellenza Ungern, il dio della guerra.
Man mano che procedevo nell’approfondimento del personaggio maledetto, nuove visioni storiche turbarono i sogni, rendendoli pericolosi. Ungern, chi sei tu? Lessi con avidità il romanzo Il Barone Sanguinario di Vladimir Pozner e soprattutto Bestie, uomini, dei. Il mistero del re del mondo del polacco Ferdinand A. Ossendowski. Come in una lenta discesa verso gli inferi della ferocia umana e di antichi misteri crudeli, mi calai in un mondo onirico e pauroso, dove la realtà storica, la verosimiglianza narrativa e la fantasia più cupa si mescolano tra loro in una densa pozione allucinatoria. Scavando, trovai quello che definisco “l’elemento Conrad”. Perché “Cuore di Tenebra è tra i monti Altaj”. Per L’Intellettuale Dissidente pubblicai il racconto fantasioso Roman von Ungern – Sternberg: l’uomo che volle farsi Khan.
E trovai in Mongolia il Cuore di Tenebra. Nel capolavoro di Joseph Conrad, un misterioso Kurtz regna folle nell’angolo oscuro della giungla, ventre umido e malato dell’Africa Nera. Apocalypse Now: nell’opera d’arte di Francis Ford Coppola, il colonnello Kurtz si erge a dio della morte nei meandri malarici della foresta cambogiana, infero di pazzia e napalm.
Scivola il vaporetto lungo le acque nere del fiume Congo, naviga il battello militare sul dorso del serpente Mekong, verso gli abissi della Terra, dove l’odio ha le sue radici, dove il male ha origine; gli orologi vanno in frantumi, il tempo non esiste più e la giungla sussurra, ha fame di uomini.
“L’orrore! L’orrore!”
Il colonnello Kurtz visse per davvero, Cuore di Tenebra è tra i monti Altaj, non più foresta tropicale, ma rocce e altipiani incontaminati dell’Asia orientale. È la storia del barone Roman von Ungern-Sternberg, l’uomo che volle farsi Khan. Come in un sogno presto degenerato in incubo, mi immaginai un incontro sciamanico e demoniaco nella yurta del barone, occasione per raccontare visioni surreali dove il tempo e lo spazio mutano, e la tenda si stacca dalla terra di Urga, vola verso un’altra dimensione non più di questo mondo. Compaiono alcuni lama che venerano Ungern come la reincarnazione di Tamerlano, il fondatore della dinastia timuride dell’Asia Centrale ricordato come il Grande Emiro.
Entrano degli sciamani con maschere spaventose. Dai braceri si diffonde l’odore di incenso, inebriante, stordente. La vista dell’ospite si sfoca, la mente nuota tra le stelle. Gli sciamani suonano i tamburi e soffiano nei flauti, evocano gli spiriti di Gengis Khan e del Mahakala, il Grande Oscuro, divinità guerriera buddhista, protettrice della rivelazione; invocano gli spiriti di Shambala e di Agarthi, custodi dei paradisi primordiali dei giusti, luoghi mitici o regni sotterranei, che il barone diventato Ungern Khan vorrebbe riportare sulla terra di Mongolia, ripulendola con pugno di ferro dalle orde comuniste, nemiche della tradizione.
Su un grande vassoio d’argento eredità di palazzi aristocratici perduti è servito l’essere immondo. Un grosso verme schifoso, di colore rosso, lungo mezzo metro e spesso come un braccio umano: è Allghoi Khorhoi, il verme mongolo della morte che vive nel deserto del Gobi. Il barone impugna un coltello, incide la carne ributtante della creatura leggendaria, taglia delle piccole porzioni. Ne offre un pezzetto all’ospite. Il rito magico prevede l’ingestione dell’Allghoi Khorhoi e l’ospite manda giù quel boccone disgustoso. Oblio. Visioni. Il passato prende forma nella yurta.
Fantasia, a briglia sciolta, con inquietanti allucinazioni mistiche e leggendari vermi mongoli della morte che strisciano tra le lande desertiche del Gobi. Impenitente nel giocare con storia e immaginazione, perseverai nello svago. In un’altra occasione infatti, quando mi immaginai l’epopea della Legione Redenta di Siberia e del Battaglione Savoia, reparti militari formati da ex prigionieri di guerra austroungarici di etnia italiana che combatterono in Estremo Oriente durante la guerra civile russa, diedi forma a La Legione redenta: italiani al confine del mondo. M’inventai il ritrovamento del diario di guerra di Aldo Furlan 1914-1919. Sfogliai le sue pagine irreali ma verosimili nella mia fantasia, le ricopiai, e diedi voce all’avventura poco conosciuta di quell’affascinante odissea nella vastità della Russia asiatica e delle terre tra Transbajkalia e Manciuria di italiani irredenti e risvegliati sotto il tricolore a combattere per la loro nuova, vera e unica patria.
Nel gioco dell’immaginazione, a turbare il sogno, apparve lui. Il sogno, datato 3 gennaio 1919, è ambientato nella regione di Transbajkalia. Il soldato Aldo Furlan ci racconta che il treno su cui viaggia il Battaglione Savoia è rimasto bloccato dalla neve. È il deserto bianco, bianca la terra, bianco il cielo, il treno è sprofondato nel nulla. I soldati galleggiano in una dimensione ovattata, ultraterrena. A sinistra delle rotaie ci sono i territori controllati dall’atamano cosacco Semënov, protetto da ingenti forze giapponesi, mentre a destra, la Manciuria Cinese. I cinesi sbucano dal nulla bianco. Sono circondati, i cinesi puntano i cannoni contro i vagoni. Il capitano Compatangelo scende dal vagone con un balzo, affonda nella neve fino alla cinta. Da quella curiosa posizione parlamenta con gli ufficiali cinesi. Li spaventa, li assicura che qualsiasi azione contro il Battaglione Savoia avrà gravissime ripercussioni internazionali. I cinesi fanno dietrofront con la coda tra le gambe, ritirandosi in Manciuria.
Aldo Furlan annota un incontro inquietante. Mentre si tenta al gelo di liberare i binari, ecco un’apparizione improvvisa. Sente nitrire un cavallo alle sue spalle. Si gira di scatto e in groppa a un cavallo nero un diavolo impellicciato lo fissa con occhi non di questo mondo. In quello sguardo, Aldo vede l’orrore della guerra. Il cavaliere si gira, frusta il suo destriero, sparisce inghiottito dal grande nulla bianco. Il capitano gli spiega che è il barone Ungern-Sternberg, alleato con le sue schiere ai cosacchi di Semënov e a Tokyo. Qualcuno lo ha soprannominato il barone pazzo, e come un dio della guerra si aggira tra la Mongolia, la Manciuria e la Siberia a seminare la morte tra i bolscevichi.
È l’ora del crepuscolo e dal deserto bianco provengono ululati che gelano il sangue.
Fino ad oggi, questo è stato il mio modesto ma appassionato contributo alla leggenda nera del barone sanguinario. Altri hanno dato i loro preziosi contributi, come il famoso e grande Emmanuel Carrère nell’eccezionale Limonov, biografia turbinosa di un giovane teppista sovietico diventato poi scrittore, vagabondo, nazibolscevico nazbol, e agitatore eccentrico di folle. Carrère scrive a proposito del barone von Ungern-Sternberg e dell’amicizia nazbol tra Aleksandr Gel’evič Dugin e Eduard Limonov (poi terminata alla fine del millennio):
In generale, Dugin sembra sapere tutto. È filosofo, autore (pur avendo solo trentacinque anni) di sei o sette libri, ed è un vero piacere discutere con lui. Eduard e Dugin si capiscono al volo, ciascuno potrebbe completare le frasi dell’altro. Brindano con solennità alla memoria di Kostenko, e al giro successivo Dugin propone di brindare alla memoria del barone von Ungern-Sternberg. Eduard non ha nulla in contrario, ma non sa chi sia il barone von Ungern-Sternberg. “Non sa chi è?” Finge di stupirsi Dugin, che in realtà è contento, come si è contenti quando si incontra qualcuno che non ha ancora letto Guerra e pace. È contento anche perché stavolta tocca a lui parlare, e va bene Kostenko, ma lui ha in serbo un super Kostenko, una storia con i fiocchi, dal successo garantito. Nel 1918 il barone von Ungern-Sternberg, aristocratico lettone e feroce antibolscevico, si spinse fino in Mongolia con la sua divisione per combattere a fianco dell’Armata Bianca. Laggiù si distinse per l’ascendente sui suoi uomini, il coraggio e la crudeltà. Diceva di seguire il buddhismo, un buddhismo in cui era compreso il gusto per le torture più raffinate. Aveva un volto smunto, baffi lunghi e sottili, occhi chiarissimi. I cavalieri mongoli lo consideravano un essere sovrannaturale, e cominciarono a temerlo anche i suoi alleati bianchi. Il barone li abbandonò per addentrarsi nella steppa alla guida del suo squadrone, che, isolato da tutto, divenne una setta di visionari, obbediente soltanto alla sua legge. Ebbro di potere e violenza, cadde alla fine nelle mani dei rossi, che lo impiccarono. Io ho riassunto, ma Dugin non riassume. Quel personaggio, paragonabile all’Aguirre di Werner Herzog o al Kurtz di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, Dugin lo riporta in vita con arte consumata. È uno dei suoi più riusciti pezzi di bravura, e Dugin centellina la storia senza fretta, preparando con cura i colpi di scena, sfruttando tutte le sfumature di una voce vellutata. Perché quel professore universitario, quell’uomo di studio che vive di libri e teoria, è anche un affabulatore orientale, capace di incantare il suo pubblico, e Eduard, che di solito agli intellettuali riserva solo disprezzo, ne è stregato. Gli piacerebbe che, un giorno, qualcuno raccontasse la sua vita a quel modo.
A questo punto del capitolo, in quest’ultima traccia notturna dedicata a forse il più incredibile tra gli onorevoli membri svitati de Il Club degli insonni, occorre fare una riflessione sul metodo scelto dall’ispirazione per Ungern. All’inizio avrei voluto fare l’ennesima biografia, snocciolando fatti e aneddoti di guerra e malvagità, ma non sarebbe stata una novità. L’argomento Ungern, che fino a pochi anni fa sarebbe stata una vicenda inedita per i più, adesso invece è soggetto, non dico diffuso, ma comunque approfondito. Avrei voluto scrivere sulla vita del barone, e invece mi ritrovo a ritagliare un collage di parole dalle tinte gialle (il buddhismo ermetico), rosse (il sangue) e nere (le anime perdute).
Sono chino sulla scrivania con diversi libri studiati e sottolineati, fogli volanti di quanto scrissi io tempo fa e un atlante aperto sulle tavole dell’Estremo Oriente, con mappe sino-mongole-tibetane dalle strane e piccole città segnate da puntini tra monti e valli ancora remoti, dai nomi che paiono essere usciti dalla geografia fantastica della Terra di Mezzo di J. R. R. Tolkien. Che quest’ultima prova sia allora l’occasione per congedarmi dal lettore con un esperimento finale su uno dei personaggi più importanti del libro. Non una biografia o racconto storico, ma un lavoro di taglio e cucito, come se m’improvvisassi un lama che tesse sacre tele magiche alla corte teocratica del palazzo d’inverno del Bogd Khan, la Guida. Che sia dunque un puzzle dell’oltretomba dove si inseriscono i pezzi storici e letterali di quanto scritto fino ad oggi sul barone pazzo, per dare un insieme della tragica, feroce, conradiana avventura di Ungern-Sternberg. Scorci, visioni, allucinazioni… ogni passo estrapolato dalle letture sarà la nostra feritoia da dove sbirciare nel passato assurdo, e provare ad avere una visione d’insieme, un mosaico di suggestioni dall’aldilà del Novecento.
In questo nostro puzzle, prendiamo quattro testi di riferimento; quattro testi, quattro mosaici che compongono un affresco più ampio, quattro punti cardinali, quattro sono le Nobili Verità, quattro sono le fasi della Luna della terra di Khutuktu:
Il Barone Sanguinario di Vladimir Pozner, romanzo
Pozner (1905 – 1992) di famiglia ebraica, è un comunista militante con simpatie sovietiche emigrato a Parigi, nonché traduttore di Tolstoj e Dostoevskij. L’autore inizia a percorrere la sua discesa verso gli inferi a Parigi negli anni ’30, investigando su Ungern Khan. S’immerge nella comunità russa degli esuli bianchi, incontrando nobili incartapecoriti eredi e naufraghi di un mondo che non esiste più: un colonnello caduto in disgrazia, corroso dalla bottiglia e dai ricordi dei giorni crudeli, un monaco buddhista accattone che millanta di accudire il figlio segreto del barone. Il comunista Pozner, lavorando di fantasia per tutto il libro, si muove tra Boulevard de Sébastopol, ristoranti russi con camerieri veterani della guerra civile, stazioni di taxi guidati da ufficiali zaristi vinti dalla Storia, per poi balzare indietro in quei fatidici e sanguinari mesi del ’21: i mesi della cavalcata del demone Ungern. Libro di parte rossa dove la narrazione, che disprezza senza appello gli sconfitti, ci conduce verso il fanatismo, la paranoia, la follia, l’orrore del barone sanguinario, dipinto come un essere che sembra sospeso tra Paradiso e Inferno, fuori dalle leggi terrene. La sua personalità è un mix mortale di metafisica e crudeltà; la Mongolia è il suo destino di cavaliere nero, il luogo soprannaturale di Gog e Magog, laggiù chiamato Ung e Mogul.
Non mi costringa a pensare, i pensieri vanno e vengono come la brezza. Pensare è da vigliacchi.
La battaglia di Ungern è volta a ricostruire gli antichi imperi dei grandi khan, gli eredi di Gengis, i conquistatori della Terra. Assalito da visioni di fuoco, vuole cavalcare con la spada sguainata contro l’Occidente marcio e malato di peste rivoluzionaria. Delira di prendersi la Cina intera, poi la Siberia, per mettere insieme un esercito di seicento milioni di guerrieri di tutte le razze d’Asia. Mezzo mondo, dall’Oceano Pacifico al Mar Nero si solleverà sotto il vessillo della U nera e Mosca postribolo bolscevico scoppierà come un bubbone purulento sotto gli zoccoli dei cavalli del barone. Re e tradizioni saranno restaurati. Sarà un uragano. Russi, buriati, kirghisi, iacuti, mongoli, calmucchi, giapponesi e cinesi si uniscono nel folle progetto di quell’Alessandro Magno del Novecento; ma questa volta non sarà l’Europa verso l’Asia, ma il contrario. Alla divisione asiatica si unisce anche un distaccamento di tibetani, robusti assassini carichi di armi da taglio, feroci e malinconici, dei bambini assetati di sangue che se ne stanno in disparte dal resto della truppa, a consumare la colazione in teschi incrostati d’oro e d’argento. Conquistano Urga, capitale di confine tra un regno dei vivi e uno dei morti fuori dalla città, dove i cadaveri sono lasciati a marcire e a fare da orrido pasto per torme di cani famelici, randagi e cannibali, figli dal pelo nero di quella libertà paurosa, fatta di steppa gialla, scheletri e breviari di preghiere oscure.
Bestie, uomini, dei. Il mistero del re del mondo di Ferdinand A. Ossendowski.
Libro multiforme di viaggio, di storia, biografico e con richiami esoterici. Best seller degli anni ’20. C’è un fil rouge di mistero, destino e profezia che si intreccia con un’altra opera di un grande autore italiano. Il libro è stato molto amato dal nostro Tiziano Terzani, lo lesse e rilesse nel 1993, in un particolare periodo della sua vita favolosa, che fu l’effetto di una profezia di tanti anni prima. Nel 1976 infatti, gli era stato predetto da un indovino cinese di Hong Kong che nel 1993 avrebbe corso un grave pericolo e gli consigliò di non prendere mai l’aereo in quell’anno pericoloso. Terzani si ricorda della predizione, per dodici mesi si astiene dal volare. Per lui è magnifica occasione per riscoprire l’essenza del viaggio via terra, addentrandosi in un’Asia dai panorami perduti con una nuova prospettiva errante. Dall’esperienza scriverà Un indovino mi disse.
F.A. Ossendowski (1876 – 1945): chimico, fisico, giornalista, scrittore, esploratore, agente segreto polacco. Dopo avventurose peregrinazioni in Asia, conobbe il barone Ungern-Sternberg e ne conquistò la fiducia. C’è un aneddoto sinistro sulla sua fine che ci viene raccontato dall’altro biografo di Ungern, Leonid Juzefovič. Nel 1920, durante il suo errare nelle terre selvagge mongole il polacco incontra nel villaggio carovaniero di Uliastaj un monaco indovino. Il monaco gli predice che troverà morte certa dieci giorni esatti dopo aver incontrato un uomo di nome Ungern. Dopo poco avviene il celebre incontro tra Ossendowski e il barone. Ma non succede nulla, allo scadere del decimo giorno il polacco è ancora vivo e vegeto. L’indovino è un cialtrone? Nel tardo dicembre del 1944, in una Varsavia alla fine della seconda guerra mondiale devastata dalla furia nazista, il vecchio professor Ossendowski riceve una strana visita. S’intrattiene con il pronipote di Ungern Khan, che si presenta con il cognome di Dollerdt, omettendo il nome baltico Ungern-Sternberg. Dollerdt serve nelle SS. Di cosa parlano i due? Forse dei fatti di 25 anni prima in Mongolia? O sul mitico tesoro andato perduto della Divisione Asiatica? Non lo sappiamo. Sappiamo però che Ossendowski muore dopo dieci giorni, tra la neve sporca dalla guerra, il 3 gennaio del 1945. Un indovino gli disse…
Il libro Bestie, uomini, dei. Il mistero del re del mondo è un viaggio nell’avventura e nell’arcano di Ossendowski, tra Siberia, Mongolia, Transbajkalia, Tibet, Manciuria, Cina. Ossendowski è un personaggio con alcune somiglianze con Corto Maltese, ma reale rispetto a quello immaginato da Hugo Pratt nella pregevole opera Corta Sconta detta Arcana – fumetto d’azione e di sogno.
Ossendowski si ritrova dopo tante peripezie orientali al cospetto del barone Ungern-Sternberg e viene assorbito da quella proiezione di fuoco e ombra, sotto alberi di impiccati, al fianco dell’Ordine Militare Buddhista, avvolto da un mantello di oscurità primordiale tra i sussurri della profezia dei Centotrenta e allucinazioni sciamaniche. Gli occhi dei lupi guardano Ossendowski nella notte fonda di Urga, e la leggenda del barone Ungern diviene Storia. Il primo incontro del viaggiatore con il barone è un ricordo che non si può dimenticare:
All’ingresso della yurta fui colpito dalla vista di una pozza di sangue che il suolo non aveva ancora avuto il tempo di assorbire, un segno di cattivo augurio, eloquente testimonianza del destino di colui che m’aveva preceduto.
L’autore si ritrova al cospetto del condottiero il cui nome è così intriso di odio e terrore che nessuno riesce a separare verità e finzione, storia e leggenda. Lui, il grande folle dagli occhi da lupo grigio-azzurri spalancati su ossessioni di misticismo e di tirannia, che consacra la propria esistenza alla guerra e al buddhismo, in lotta perdente contro quella che definisce depravazione rivoluzionaria. La sua ferocia è dimostrata all’ospite quando ordina senza battere ciglia di uccidere a bastonate due spie comuniste. Ossendowski e il lettore vengono abbagliati da un’atmosfera luciferina quando si sale a bordo dell’enorme Fiat rossa dai grandi fari accesi, i cui fasci di luce trafiggono come lame la notte di Mongolia. L’auto del barone schizza come una palla di fucile sulla pianura sconfinata tagliando il vento gelido e Ungern a occhi chiusi grida al Caronte-chauffeur:
Più veloce! Più veloce!
Il Caronte-chauffeur obbedisce con il piede pigiato sull’acceleratore, e l’enorme Fiat rossa sprofonda nel cuore delle tenebre. La corsa è suicida. Nella steppa buia brillano gli occhi dei lupi come stelle degli inferi; sono gli amici di Ungern nutriti a carne umana.
L’ospite si interroga dove sia finito, quale assurda epoca stia vivendo. È precipitato in un vortice spazio-temporale, in un’altra dimensione al cospetto di un’entità dalla caratteristiche sovrumane, extraumane, divorato dai suoi stessi pensieri corrosivi, dall’odio, dal tormento senza tregua. Avverte una presenza invisibile; un’idea terribile e grandiosa, un progetto mondiale, è l’alito di un drago. E se già il racconto è intriso di magia, mistero, allucinazione ecco un’altra profezia, pronunciata da una zingara profetessa dei buriati. La nomade indovina è scossa da convulsioni e balbetta contorta e posseduta:
Vedo … vedo il Dio della guerra … la sua vita fugge via … orribilmente … Dopo, un’ombra … nera come la notte … Ombra … Rimangono ancora centotrenta passi … Poi, le tenebre … Niente … Non vedo niente … Il Dio della guerra è scomparso …
Centotrenta. Centotrenta passi. Centotrenta anelli. Centotrenta giorni, quelli che rimangono al barone Ungern-Sternberg prima del buio infinito della Morte. Tempo sufficiente per venire benedetto – lui, le sue schiere e la sua crociata contro il bolscevismo – dal Buddha vivente Bogd Khan, pontefice giallo reso quasi cieco dalla bottiglia. Il generale sanguinario sogna un immenso stato che si estenda dalle acque dell’Oceano Pacifico all’India fino a bagnarsi in quelle dolci del fiume Volga, comprendendo tutto quello che c’è dentro: l’Asia intera. E pervaso da una stato di trance e di esaltazione alza le mani verso il cielo, le agita sopra la testa come per dare ordini ad un esercito invisibile, per invocare lo spirito di Gengis Khan e per annunciare la prossima salita sulla Terra del Re del Mondo, emerso in superfice dalla sua capitale sotterranea di Agarthi tra fanfare di corni da guerra e lunghi dungchen tibetani.
Ma tutti i piani di conquista finiscono una notte di ammutinamento dei suoi uomini, nella valle del fiume Selenga tra la Buriazia e la Mongolia, allo scadere dei centotrenta giorni.
La profezia diceva il vero.
Il dio della guerra. Il barone Roman Feodorovič von Ungern-Sternberg di Jean Mabire, romanzo.
J. Mabire (1927 – 2006): veterano decorato della guerra coloniale d’Algeria, giornalista, scrittore estremamente prolifico, pubblica oltre 100 libri tra romanzi, storia, cultura pagana, e sulla sua terra di Normandia. Esperto di seconda guerra mondiale e sull’esperienza europea delle Waffen SS, è esponente della Nouvelle Droite e alfiere di un regionalismo identitario per la valorizzazione della pluralità delle culture locali per la ricerca di un’identità europea.
Eccolo il barone Il dio della guerra, lanciato a rotta di collo in groppa alla sua fedele cavalla grigia Macha, in corsa impazzita nella valle ai piedi della montagna sacra Bogd Khan, alzando la mano che impugna il tashur – scettro e bastone – al cielo. Il condottiero appare alla testa del suo commando pretoriano di feroci tibetani agli ordini dell’ufficiale buriato Tubanov, nel blitz con frecce avvelenate e spade per liberare il Buddha vivente Bogd Khan dalla sua prigionia. Assaltano il palazzo del Khutuktu, fanno a pezzi i carcerieri cinesi e quell’idea contro tempo e Storia di instaurare l’impero teocratico di Mongolia può essere finalmente realizzata. Lo vediamo cavalcare assieme al generale Suzuki, ufficiale giapponese che incarna il prototipo del samurai e che è inviato da Tokyo per assistere (e provare a controllare) la controrivoluzione ungerniana. Lo guardiamo crudele dio della guerra nell’orgia di sangue di pogrom contro rossi ed ebrei, anticipatore dei tempi totalitari di grandi stermini europei.
Il solstizio d’estate del 21 giugno 1920 vede l’esercito del barone marciare sotto il sole giallo. La guerra privata di Ungern è di religione. La Divisione Asiatica di Cavalleria, con i cavalieri con le lunghe lance in piedi sulle staffe, urla gli urrà in onore del granduca Michail Aleksandrovič Romanov, fratello del defunto zar Nicola II e anche lui zar per un giorno, e che Ungern vorrebbe rimettere sul trono. Sotto il comando del diavolo incarnato, cosacchi e asiatici verranno condotti nelle steppe della paura, sulle montagne di sangue, verso la morte. Quegli uomini assomigliano ad una versione moderna dell’Orda d’Oro, con i vessilli di seta che garriscono al vento. Attila, Gengis Khan, la sacralità della guerra.
La legge della Forza è l’unica legge del mondo. Se esiste un Dio, non può essere che lotta. Il Bene e il Male non esistono, come non esistono la vita e la morte. C’è soltanto l’azione. La lotta. Prendere Urga.
Prendere la capitale mongola Urga è l’ordine perentorio. Nel primo tentativo di conquista, le sue strade sono invase da centinaia di indemoniati con le lame sguainate, spinti da una lugubre musica di flauti di osso e tamburi di bronzo. Il barone cavalca davanti a tutti, godendo del pericolo e della sua ebrezza, ubriacandosi con la morte. È lui in persona ad assestare il primo colpo contro il nemico cinese.
Ammazzate! Ammazzate! Ammazzate!
Urla invasato di violenza il grande assassino, ma è respinto. Deve ritirarsi sulle alture per aspettare un momento più propizio.
29 dicembre 1920, Roman Fëdorovič compie trentacinque anni. Perché è un bravo ragazzo, perché è un bravo ragazzo, perché è un bravo ragazzo, nessuno lo può negar … Tanti auguri barone, ora sei uno psicopatico sognatore senza possibilità di guarigione, generale e signore di migliaia di cavalieri e criminali. Ti senti Alessandro Magno, Gengis Khan o il profeta maledetto di una nuova religione del male? Però hai ragione quando dici di sentirti giovane e libero, perché a trentacinque anni, ogni avventura è ancora possibile.
Soffia il vento invernale che frusta gli uomini, che spacca le rocce con sferzate di ghiaccio. La Mongolia diventa deserto bianco. Negli accampamenti viene instaurato un regime di terrore basato su ferrea disciplina. Chi trasgredisce, disobbedisce, o delude il tiranno è punito con ferocia. Chiunque è sorpreso ubriaco finisce i suoi giorni nudo come un verme nella neve, sull’attenti, fino all’ipotermia.
Il 3 febbraio del 1921 Urga cade nelle fauci della Divisione Asiatica di Cavalleria; l’enorme vessillo d’oro sul quale il ferro di cavallo nero diviene la U di Ungern sventola sui tetti della città. Nasce una nuova signoria d’eredità medievale in quello che fu il cuore dell’impero di Gengis Khan, ed è un battesimo nel sangue. Da qui partirà la bufera che spazzerà il mondo intero. Il barone è adesso guerriero, politico, sacerdote braccio destro dell’imperatore divino, il Buddha reincarnato. Sale all’apogeo della sua parabola, viene investito del titolo di primo principe della nazione mongola. Ora è Ungern Khan. Prende forma la leggenda del dio della guerra, lui stesso finirà per crederci. Finisce i suoi giorni da solo, tradito, ma rimanendo fedele all’unico capo che abbia mai riconosciuto come tale: se stesso.
Il barone Ungern. Vita del Khan delle steppe di Leonid Juzefovič, storia. Il testo più importante ad oggi.
L. Juzefovič (1947): laureatosi a Perm, serve in Transbajkalia durante gli scontri di frontiera con la Cina durante la crisi sino-sovietica del 1969. Professore di storia a Mosca, scrittore di successo di romanzi polizieschi, è il massimo esperto vivente sulla vita del barone Roman Fëdorovič von Ungern-Sternberg.
Se si vuole capire Ungern e tentare con serietà di separare storia dal mito, realtà dalla leggenda, occorre leggere questo testo fondamentale del russo Juzefovič. L’autore risponde alla domanda: chi è il barone Ungern-Sternberg? Di certo un folle visionario, talvolta sopravvalutato nella sua carica mistica e eccessivamente mitizzato dai romanzieri e biografi precedenti, dotato di indubbio coraggio al limite della pazzia, certamente determinato nel suo fanatico e illusorio piano di conquista, e sicuramente un uomo feroce.
L’efferatezza non è rivolta solo contro i nemici, bolscevichi, cinesi ed ebrei, ma anche contro i suoi stessi soldati. I disertori sono puniti con immane crudeltà. Chi lo contraddice o non esegue alla lettera i suoi ordini, o anche chi è solo vittima di un suo capriccio d’ira, finisce sotto la furia del suo tashur. Il tashur è un bastone-frusta mongolo, la cui asta, di varia foggia (bambù rinforzato con anelli di piombo ad esempio), fa molto male se usata per sprangare teste. È il simbolo del potere violento di Ungern. Nel libro c’è tutto, dalle origini baltiche dei baroni von Ungern-Sternberg ammantate da storie di pirati e guerrieri, fino all’epilogo del barone, scampato per miracolo alle pallottole degli ufficiali cospiratori della sua Divisione Asiatica di Cavalleria, ridotta a brandelli ma non al patibolo dell’Armata Rossa.
Emergono poi tanti altri affascinati personaggi secondari, di contorno, talvolta valorosi, altre volte belve sanguinarie. Come il colonnello Sipajlo “l’uomo con la testa a forma di sella”, capo della polizia segreta di Ungern, sadico orco, cacciatore di ebrei, strangolatore per passione. Come l’ufficiale Casagrandi di famiglia d’origine italiana, trasferitasi in Russia al tempo di Caterina la Grande, intelligente e “crudele eroe” che fugge da quella follia dilagante e tenta di rifugiarsi in Tibet ma finisce giustiziato per ordine del suo barone a colpi di tashur. Come il generale Rezuchin, fedele braccio destro del comandante Ungern, crivellato dalle pallottole dei congiurati in una concitata notta di ribellione e resa dei conti. E come quelle migliaia di uomini che servirono sotto il vessillo giallo con la U nera, in quell’esercito psicopatico in cui si mescolano tra loro disgraziati, matti, eroi, criminali, sconfitti, assassini, vittime, carnefici, falliti, dannati, spettatori e artefici di quell’angolo spaziotemporale di bruciante esaltazione.
Non è possibile spiegarsi il coraggio di Ungern con le sue origini, la fedeltà a qualche tradizione o la lettura di Nietzsche. Hanno detto che guidava gli attacchi come un ubriaco o come un sonnambulo, con gli occhi sbarrati ondeggiando sulla sella.
Il ritratto storico che l’autore ci trasmette non è poi così dissimile da altre prove di fantasia. Nelle settimane dell’avanzata mongola, i suoi fedeli hanno notato in lui cambiamenti irreversibili. Insonne, pretende per se stesso e per i suoi soldati massimi sacrifici, spingendosi al limite dell’umana possibilità. È la personificazione di un orrore primordiale che mostra quando condanna nemici e traditori, o chi semplicemente non ha soddisfatto il suo volere: tortura, esecuzioni con il fuoco, alberi d’impiccati, morte a suon di frustate o con tonfi secchi di mazze, collezioni di teste mozzate, pene d’inferno. Ungern, condottiero di un esercito nomade ma uomo così solo nel suo potere assoluto, è personaggio storico logorato nel fisico e nei nervi. Rappresenta una simbiosi tra un capitano medievale e un monaco dedito alla sobrietà esistenziale: tutto deve essere dedicato e sacrificato alla sua missione suprema, storica e mondiale. Si erge al di sopra degli uomini, pervaso da una coscienza che si muove psicopatica al di sopra delle leggi dei suoi simili e della morale.
Lo seguono i disperati di sedici nazionalità: russi, buriati, mongoli di tutte le tribù, tibetani, baschiri, tartari, giapponesi, cinesi, manciù, coreani, èvenki, cechi, serbi, polacchi, ex prigionieri di guerra tedeschi, persino due inglesi che solo sa Dio come siano finiti laggiù. Un incredibile e colorato miscuglio di tratti somatici: capelli biondi e chiome corvine, occhi azzurri e a mandorla, carnagioni pallide e pelli brune.
La conquista della capitale Urga è l’episodio al centro di tutta la campagna militare mongola del 1920-21, la sua battaglia più importante. Per i suoi stremati cavalieri, affamati e semiassiderati, prendere la città è questione di vita o di morte. La cingono d’assedio, e per trarre in inganno il nemico accendono centinaia di fuochi sulle colline e sulle pendici del Bogdo-Ula che circondano la capitale. Gli assediati ci cascano: brillano i falò nella gelida notte d’inverno, sembrano i bivacchi di un esercito dieci volte più grande di quello che è in realtà. Gli ungerniani partono all’assalto di avversari numerosi ma terrorizzati e vincono, scacciano i cinesi, liberano con un blitz il Buddha vivente Bogd Khan, prendono il potere, instaurano una dittatura con a capo il barone, che si autodefinisce un “risorto dei morti”.
La battaglia di Urga rimane tutt’oggi come una pagina indelebile della guerra civile russa per tutto il Movimento bianco. In una fastosa cerimonia di cosacchi e monaci buddhisti, Roman Fëdorovič von Ungern-Sternberg in abiti di seta gialla e rossa, con il capo ornato con un cappello dalle penne di pavone e trasportato su un palanchino verde, viene nominato principe Qing-Wáng, con il “grado di Khan” e con diritto ereditario. Si convince sempre più di essere una sorta di messia per la restaurazione dei re caduti dal trono, per la salvezza dell’Occidente corrotto e dell’umanità tutta. La sua visione utopica è mondiale: vuole, crede, lotta per una rinascita monarchica e teocratica dall’Estremo Oriente fino all’Oceano Atlantico.
Arriverò con i miei Mongoli a Lisbona!
L’orologio di Ungern è stregato. Le lancette si muovono all’indietro, verso il passato, verso le epoche lontane delle gloriose cavalcate dell’Orda d’Oro. Per lui il tempo è diverso. Ci sembra un cavaliere fuggito da antichi anfratti del Medioevo, uno spettro sbucato da epoche dimenticate e tornato sulla Terra come per una terribile maledizione. In quelle lande estreme, alla periferia della geografia conosciuta dalla gente dell’ovest, fatta di città dai nomi impronunciabili e valli ermetiche, il demonio baltico immagina un nuovo Ordine Militare Buddhista, una visione anticipatrice di altre organizzazioni politico-militari novecentesche che si realizzeranno negli anni seguenti.
Ne è l’esempio lampante il progetto nazista di Heinrich Himmler con le sue SS, o anche quello di Stalin con i suoi pretoriani dell’ordine della spada del NKVD. Ma i piani di Ungern rimarranno solo sogni di un visionario che brama la rinascita del Medioevo. Visioni, allucinazioni, follie… Cita la Bibbia, i capitoli 38 e 39 del Libro di Ezechiele dove è scritto di Gog nel paese di Magòg, che lui adatta in profezie di razze gialle e carri di fuoco. La sua mente si distacca dalla realtà, la truppa stenta a comprendere quella spasmodica ambizione, quella insensata guerra contro la Storia. I suoi subordinati lo guardano con sospetto, allora lui reagisce come una padre malvagio dalla cinghia facile. Li obbliga a marciare verso sud e qualunque malumore o tentennamento è punito con ferocia.
Scavato in volto e con lo sguardo rabbioso, si aggira al galoppo lungo le colonne sfinite. Alza il bastone tashur e picchia. Gli uomini lo temono come il diavolo. Diviene una marcia nella disperazione, tutti procedono esausti, confusi, frastornati, arrancando nella polvere, consapevoli che per loro non c’è futuro. Ma qualcuno dei suoi si desta da quell’incubo. Ribellione. Durante la notte della congiura però, gli ammutinati tremanti stentano ad andare fino in fondo, frenati dal terrore che provano per il barone. Un ufficiale trova il coraggio e rompe la paura con un colpo di pistola Mauser. È buio e manca il bersaglio ma quello sparo dà la scossa agli altri ufficiali titubanti, che fanno fuoco all’impazzata contro Ungern in fuga in sella al suo destriero Macha, l’ultima ad essergli rimasta fedele. Il barone sprofonda nel buio.
Il barone Ungern-Sternberg, l’uomo che volle farsi Khan, termina la sua cavalcata verso il regno sotterraneo di Agarthi una notte di metà agosto 1921. Ha condotto i suoi uomini verso la disfatta contro l’Armata Rossa, che adesso è a caccia del barone e di quello che rimane del suo esercito. I reggimenti del dio della guerra, assottigliati dalle diserzioni e dalla morte, vagano cenciosi e ridotti allo stremo nei pressi della confluenza dei fiumi Ėgijn gol e Selenga, braccati come lupi feriti. Tra i ranghi si diffonde il sospetto di un’ultima follia del loro comandante: quegli uomini con le divise a brandelli hanno ragione, il generale barone ha intenzione di trascinarli in Tibet, in un’assurda marcia tra deserti, montagne e territori ostili, per condurli – pazzo irrecuperabile – alla corte del Dalai Lama, chissà a cercare cosa, forse nuovi imperi teocratici da fondare e scagliare contro l’odiato e degenerato Ovest o regni perduti dove reincarnarsi in un’altra divinità sotto le stelle di Alpha Centauri.
Nessuno lo sa, basta. Gli uomini non ne possono più di quella psicosi incomprensibile. Alcuni ufficiali, esausti, vessati, umiliati, tormentati dalle continue sadiche punizioni della loro guida e carnefice, tramano, cospirano, si ribellano. Uccidono il fedele generale Rezuchin; la notte nell’accampamento si fa insonne e tesa, spari di revolver tra gli alberi, sciabole sguainate attorno ai falò, nitriti di cavalli, ordini urlati.
Regicidio nella valle del Selenga.
Ungern però, come uno spettro immortale, sfugge alle pallottole dei congiurati e si rifugia dal perfido principe mongolo Sunduj-Gong, a cui chiede aiuto per reprimere la rivolta. Ma i mongoli di Sunduj-Gong gli balzano addosso, lo immobilizzano, e lo legano con le catene. Consegnano il prigioniero ai soldati con la stella rossa cucita sui berretti budënovka. Lo portano a Novonikolayevsk, ora Novosibirsk, centro amministrativo della Siberia, sotto la responsabilità della polizia politica Čeka. Viene processato, non si pente di nulla. Tre le accuse principali: aver agito assieme al Giappone per creare uno stato ostile a Mosca, aver mosso guerra contro il governo sovietico per restaurare lo zarismo, aver commesso infinite atrocità. Il dio della guerra Ungern Khan viene messo al muro e fucilato a metà settembre del 1921. Deicidio in Siberia.
Cuore di Tenebra è tra i monti Altaj.