Anno 1651. Memore della devastante crisi d’identità che ha travolto le istituzioni del Regno d’Inghilterra, che l’ha condotta ad una sanguinosa guerra civile, che ha spaccato il paese tra realisti e parlamentaristi, Thomas Hobbes pubblica la summa – assieme all’opera di Jean Bodin – di decenni di riflessioni intorno a quel mostro instabile, ancora privo di vera legittimità che è lo Stato: è il Leviatano. Un abominio biblico, che compare come castigo divino più che come benedizione per le umane sorti, descritto in Giobbe 40, 16:
«Guarda, la sua forza è nei fianchi/ e il suo vigore nei muscoli del ventre./Rizza la coda come un cedro,/ i nervi delle sue cosce s’intrecciano saldi,/ le sue vertebre, tubi di bronzo,/ le sue ossa come spranghe di ferro./ Esso è la prima delle opere di Dio; /il suo creatore lo ha fornito di difesa./ I monti gli offrono il pascolo/ e là tutte le bestie della campagna si trastullano.»
Come può l’incarnazione del caos, essere la creazione più complessa della razionalità umana dispiegata in forma di potenza politica? Ecco che lo Stato-Leviatano è manifestazione della potenza divina ed è al contempo un castigo all’egoismo dell’umano che di leggi naturali non può sopravvivere giacché per Hobbes esse sono “valide, ma non sono efficaci”.
In principio era la guerra di tutti contro tutti. Prima dello stato di natura di Locke e Rousseau, paradiso della libertà prima dell’altrettanto libero contratto, che apre alla possibilità di una continua trattativa e revisione del potere, c’è il caos hobbesiano. In cui non esiste sicurezza, né vera libertà:
«Deriva anche da quella condizione di guerra il fatto che non esiste proprietà, né concetto del dominio, né distinzione tra mio e tuo, ma soltanto che ognuno si impadronisce di ciò che può, e per tanto tempo quanto è in grado di conservarlo.»
Gli uomini scelgono allora il male minore. L’autorità sovra-individuale e comunque caotica, mostruosa e onnipotente del demone Leviatano. Lo Stato, come razionalità dispiegata all’ennesima potenza, puramente umana e che non deriva in nessun caso da un’investitura divina. Il terrore dell’altro spinge a rinunciare alle proprie libertà in nome di un singolo individuo, legibus solutus, che ha il potere e la forza di imporre la propria volontà e la pace, con qualunque mezzo, a tutta la comunità. Lo Stato assoluto verrà definito nella sua inconsapevole “perfezione” da Oswald Spengler come culmine del processo di formazione della civiltà occidentale. Celebrato prima ancora da Hegel come massima espressione politica dello Spirito.
Eppure è nella “inquietante estraneità” e nell’abissale distanza culturale dell’estrema periferia orientale di quell’Occidente – che si chiama ancora, soltanto, Europa – che il mostro dello Stato trova degli adepti potenzialmente alieni eppure intimamente adatti a recepire il lessico del Leviatano. Così Marc Raeff, interpretando le vicende drammatiche, spiritualmente e materialmente contigue della Russia zarista, ha visto nell’affermazione intellettuale di un modello di Stato razionalmente ordinato (definito “Stato di polizia”) la matrice di tutta la storia politica russa, riecheggiante nell’Unione Sovietica e nell’attuale Russia di Putin. Così è dallo studio sulla Natura e sulla desacralizzazione della stessa che si fonda il principio di una ragione umana politicamente (e hobbesianamente) ordinante:
«Applicando la ragione umana ai dati già raccolti dall’osservazione dei fenomeni naturali, è possibile studiare, comprendere e ordinare questo universo mediante leggi fondamentali rigorose e permanenti. Tale universo infinito e le sue risorse illimitate possono non soltanto esser concepiti, ma altresì organizzati e sfruttati a vantaggio dell’uomo […]. Accanto alla ragione, sono dunque la volontà e l’energia creatrice dell’uomo i motori essenziali di ogni organizzazione e di ogni politica.»
Scrive così lo storico russo, occidentale d’adozione, osservando come tale meccanismo si generi nelle burocrazie e nelle corti occidentali. Tale forma di organizzazione e di ordine razionale applicato alla politica sulla base delle leggi razionali regolanti la natura, in cui il progresso conoscitivo e quello produttivo e di ordine creativo non hanno mai fine, trovano un loro dispiegamento in un contesto come quello della Moscovia, poi Russia degli zar. Così, in prefazione, Alain Besançon individua nell’idea di uno “Stato ben ordinato” il fondamento stesso della Russia moderna, una sorta di “sigillo sacro” sovrapposto al corpo sociale. La Russia sembra muoversi a scatti sulla via della modernizzazione, sotto la guida di un governo “illuminato” (e dispotico) che la fa marciare a tappe forzate verso la civiltà. Scolara elementare del cadavere vivente dell’impero bizantino, con caratteristiche da Stato ecclesiastico, la Moscovia, da cui prende avvio il processo è un governo teocratico con forti caratteristiche orientaleggianti:
«Conformemente al modello bizantino, lo zar è di fatto un personaggio ecclesiastico, allo stesso titolo del patriarca. Egli ha una funzione ieratica in certi riti celebrati nella Chiesa. Inoltre, lo zar di Mosca deriva la sua legittimità ad un tempo dal suo ruolo ieratico e dal fatto che, dopo la conquista ottomana di Costantinopoli, egli è l’unico principe ortodosso indipendente.»
Una teocrazia mascherata nella funzione politica e imperiale dello zar. Su tale impianto si innesta il lavoro violento di una nuova funzione razionale dell’autocrazia. Il Leviatano russo è il katechon che da solo può condurre una popolazione numerose e una aristocrazia radicalmente sottomessa all’autorità zarista, verso una radicale trasformazione. In tal senso si imprimono le politiche di Pietro il Grande, autocrate di tutte le Russie, che imprime il proprio sigillo all’ascesa della Russia sul palcoscenico del concerto delle potenze europee. La ritrattistica sembra tracciare questo cambio di passo, laddove suo padre lo zar Alessio e rappresentato come un vescovo più che come un sovrano, mentre il ritratto di Pietro ad opera di Sir Godfrey Kneller è l’immagine di un re-guerriero, sul solco della rappresentazione di sovrani gloriosi come Luigi XIV. La volontà organizzatrice della razionalità si traduce anche nello sforzo sovrumano di una guerra lunga e logorante – esordio della più sperimentata tattica militare russa – contro la Svezia, che si associa imprescindibile all’edificazione di San Pietroburgo. Porta verso l’Occidente, costruita con la stessa spietata autorità dei sovrani egizi o assiri. Intere masse di lavoratori perirono durante i lavori. L’impianto fu artificioso e – almeno in apparenza – spiritualmente distante nelle fattezze dalla tradizione estetica ed artistica russa. Dostoevskij la definirà la “città più razionale e premeditata del mondo”.
Emerge come nello Stato petrino i corpi intermedi vengano a mancare del tutto, già assenti nella loro assoluta inferiorità al sovrano-patriarca. Lo Stato promana direttamente dalla testa coronata dello zar. La sofferenza delle masse rafforza il bisogno di sicurezza. Raeff contraddice chi ha visto nella rivoluzione di Pietro un semplice strumento in vista della potenza militare, laddove un susseguirsi di sconfitte militari e l’impossibilità di una vittoria totale sulla Svezia nella Guerra del Nord, si accompagnano agli sforzi colossali di modernizzazione e ai lavori per la capitale. Lo zar-Leviatano esercita il monopolio della violenza sul suo popolo e contro i suoi nemici. Ogni risorsa umana o materiale serve a garantire la vittoria dello Stato. La nobiltà è ridotta ad un servilismo passivo, che se da un lato conserva l’autorità dello Stato dalle lotte intestine, dall’altro lato costituisce un consistente limite alla formazione di una classe dirigente e burocratica intermedia, a metà tra il monarca assoluto e la massa della popolazione. Parlando con tono sprezzante e ad un tempo affascinato dell’autocrazia russa, il diplomatico britannico Sir George Macartney durante il suo soggiorno in Russia, tra il 1765 e il 1767, in questi termini della sua perfetta integrazione con un contesto percepito come “barbarico”:
«Il dispotismo non può mai prosperare a lungo, se non in una nazione barbara, ma al dispotismo la Russia deve la sua grandezza e il suo dominio; cosicché, se mai la monarchia divenisse più limitata, perderebbe il suo potere e la sua forza, nella misura in cui avanzerebbe nelle virtù morali e nel progresso civile.»
Sarà Caterina II a portare a compimento, sotto il velo del dispotismo illuminato in salsa voltaireana, la sintesi zarista tra Stato di polizia, razionale e ordinatore ed autocrazia messianica russa. L’obiettivo è di costruire un sistema in grado di fare da cornice ad una società “dinamica e produttiva (ancorchè pacifica ed armoniosa), guidata nella sua marcia verso la potenza, la prosperità e la felicità dal sovrano autocrate.” L’idea di uno Stato ordinatore e sovradimensionato nelle sue competenze diviene la missione universale della monarchia zarista, nonché l’eredità più importante che la nascente Russia lascerà all’Unione Sovietica e alla Russia di Putin. Sistema che organizza le masse e le guida verso un “futuro luminoso”; che raccoglie gli stimoli esterni (siano essi il modello statale razionale, il marxismo o un capitalismo statalizzato mescolato ad una matrice nazional-conservatrice) e ne fa altrettanti strumenti di affermazione. In tutto questo regna la continuità di una insicurezza psicologica collettiva, che all’aristocrazia russa costantemente ridimensionata e spesso oggetto di vere e proprie purghe, fa seguire le repressioni staliniane e sovietiche e il monopolio del “nuovo zar” Putin sulle proprie oligarchie finanziarie. Proprio la zarina Caterina, facendo eco al già citato Macartney, suggellò il Leviatano russo nel suo apogeo pre-napoleonico, palliativo al caos del tutti contro tutti, adottando indirettamente la filosofia politica hobbesiana come imprescindibile struttura portante, prima ancora del marxismo-leninismo:
«Il sovrano di questo impero gode di un’autorità illimitata: è autocrate. Solo un potere concentrato così nella sola persona del sovrano è in grado di produrre un impulso proporzionato all’estensione di un impero tanto vasto. Un impero esteso presuppone di per sé un potere illimitato nella persona che lo governa. La prontezza nella decisione sugli avvenimenti che sopraggiungono dai luoghi distanti deve compensare la loro lentezza ad arrivare, conseguenza necessaria di questa distanza. Ogni altra forma di governo non sarebbe solo dannosa alla Russia, ma comporterebbe infine la sua totale distruzione.»