L’assegnazione del premio Nobel 2019 per l’Economia agli economisti Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer, è stata unanimemente acclamata come una svolta nella lotta alla povertà che affligge i paesi del Terzo Mondo. Il Comitato per il Nobel nelle motivazioni segnalava come questi economisti abbiamo “introdotto un nuovo approccio per ottenere risposte affidabili sui modi migliori per combattere la povertà globale” ovvero quello di “suddividere il problema in questioni più piccole e gestibili, ad esempio come migliorare la salute dei bambini o il loro grado di scolarizzazione”. Seppur meritevole di attenzione e sicuramente animato da buona fede, c’è da chiedersi se questo tipo di approccio sia in realtà davvero rivoluzionario.
La critica al lavoro di Duflo, Banerjee e Kremer
I tre economisti hanno effettuato studi molto importanti nei paesi in via di sviluppo per diversi anni, riuscendo a dimostrare come alcuni piccoli interventi chiamati “nudges” ovvero spinte, fossero in grado di apportare piccoli benefici nell’immediato, ma effetti molto più significativi se attuati su larga scala in paesi con popolazioni molto numerose. Un lavoro assolutamente utile ma per alcuni critici fin troppo allineato all’economia di mercato. Questo tipo di ricerca non viene infatti in alcun modo considerato come una minaccia per il sistema globale che mantiene miliardi di persone in povertà, ma è concentrato su come migliorare le condizioni di alcuni di loro all’interno dello stesso sistema. Il più importante contributo all’eliminazione della povertà globale, premiato con il massimo riconoscimento dall’establishment economico, non implica alcuna considerazione su come alterare i processi che privano le popolazioni di quello che viene chiamato Terzo Mondo, di una importante quota di ricchezza.
Il problema diventano quindi le mancanze del singolo individuo, l’avversione al rischio che rende una persona finanziariamente debole un pessimo imprenditore, piuttosto che la mancanza di strumenti che lo mettano in grado di lavorare in maniera più efficiente, ignorando la possibilità che invece il problema siano le mancanze della società globale. La teoria della crescita economica a tutti i costi viene data per scontata, senza pensare nemmeno per un momento che possa essere moralmente inaccettabile e che abbia di fatto condannato miliardi di persone a vivere in estrema povertà. Paradossalmente questo tipo di studi avalla la convinzione propria dell’economia ortodossa, che non vi possa essere nulla di alternativo a questo sistema.
La teoria dello sviluppo
Da sempre la teoria economica convenzionale si basa sul concetto di sviluppo, dividendo le aree del mondo in paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Il problema fondamentale riguarda cosa costituisce sviluppo, vi possono essere molte prospettive diverse a questo riguardo, ma quasi tutte le teorie contemporanee danno per scontati alcuni punti. L’obiettivo fondamentale e ricorrente nell’economia di mercato è la crescita. Non si ha sviluppo se non si raggiungono determinati livelli di produzione e di consumo, ad esempio la crescita del Prodotto Interno Lordo di un Paese. In questo modo le nazioni più povere sono costrette loro malgrado ad immergersi nel mercato globale, trovando necessariamente qualcosa da vendere, anche solo del lavoro a buon mercato, in competizione con altre nazioni ugualmente disagiate. Solo così, trovando qualcosa che possa essere venduto, sarà possibile per loro guadagnare i soldi che serviranno a importare quanto è necessario.
Il secondo punto dato per scontato dalla teoria mainstream è che uno sviluppo di questo tipo non sia possibile senza capitali. Chi ha mezzi finanziari dovrebbe essere attratto dai paesi meno sviluppati per investire in fabbriche, miniere o qualsiasi altra cosa che si possa produrre per esportare. Il problema è che queste imprese produrranno quello che massimizzerà i loro profitti nel mercato globale, e quasi mai quello che realmente serve al paese che li ospita. Senza contare che gli investitori non metteranno i loro soldi in paesi privi di infrastrutture di un certo livello, e questo spesso costringe i governi ad indebitarsi per dotarsi di una rete di strade, porti, ferrovie che renda appetibile il proprio paese. In questo non ci sarebbe nulla di male, anzi si assisterebbe ad un miglioramento duraturo del sistema economico di una data nazione, ma spesso l’eccesso di debito non farà altro che favorire l’intervento di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale, che richiederà misure troppo spesso mirate a favorire esclusivamente gli investitori internazionali, come le privatizzazioni di aziende di interesse nazionale, o il taglio ai già fragili sistemi di welfare dei paesi poveri.
Alle masse di poveri dei paesi in via di sviluppo viene detto di accettare tutto questo perché ne trarranno benefici attraverso il sistema “trickle down” letteralmente il gocciolamento, ovvero il processo per cui la ricchezza filtra dai più ricchi ai più poveri. Non viene detto loro che in realtà le gocce sono molto poche e che questo meccanismo non ha mai sollevato nessuno in maniera sensibile dalla povertà. Senza contare che a causa dei limiti naturali delle risorse globali, è esclusa la possibilità che miliardi di persone possano raggiungere in questo modo livelli di vita tollerabili, figuriamoci arrivare agli standard dei paesi ricchi. Dopo 70 anni di questo approccio metà della popolazione mondiale vive in condizioni di povertà, quasi un miliardo di persone soffre di cattiva alimentazione quando non proprio di mancanza di cibo, e metà della ricchezza mondiale è nelle mani di qualche decina di persone.
Vi sono alternative a questo sistema?
I testi di economia tendono ad escludere che vi siano alternative efficienti alla teoria convenzionale basata sullo sviluppo e sulla crescita economica. È una logica se vogliamo capitalistica, un approccio in cui lo sviluppo è guidato dall’investimento di capitale al fine di massimizzare i profitti. Produce senza ombra di dubbio una crescita, ma quasi esclusivamente a favore dei più ricchi. Usando le parole dell’economista australiano Ted Trainer può essere quindi vista come “una forma di saccheggio sottilmente camuffata”. È lo stesso Trainer nel suo libro “The Simpler Way” a suggerire una concezione diversa, moralmente accettabile di “sviluppo”, che consenta anche alle nazioni più povere di godere di una elevata qualità della vita in condizioni ecologicamente sostenibili per il pianeta.
Avere cibo e acqua, un posto decente dove vivere, un lavoro, un ambiente sociale sicuro, sono fattori che garantiscono una qualità della vita decisamente più elevata a prescindere dai livelli di ricchezza. Una possibile soluzione sarebbe quella di provare a creare nei paesi più poveri una rete di realtà locali con piccole economie autosufficienti, dove le scarse risorse siano focalizzate al soddisfacimento dei bisogni primari. Favorendo le piccole aziende o imprese e cercando di implementare l’offerta di lavoro, ma sempre con una direzione precisa, all’interno della comunità, non finalizzata a bisogni esterni. Queste attività non andrebbero ad eliminare la normale economia di mercato, ma andrebbero ad affiancarsi ad essa, una Economia orientata ai bisogni che va ad affiancarsi e non a sostituire l’Economia orientata ai profitti. In realtà questa tipologia di approccio, semplice ma forse anche troppo ingenua, non potrà mai incontrare i favori dell’economia mainstream, in quanto porterebbe a mettere in dubbio il dogma su cui si fonda tutta la teoria ovvero che lo sviluppo è direttamente legato all’investimento di capitali, all’incremento della produzione e alla crescita del PIL. Questo non toglie che chiunque voglia sinceramente provare a diminuire la povertà nel mondo, debba necessariamente porsi il problema di come l’attuale sistema non faccia altro che legittimare il trasferimento di ricchezza, che dai paesi del Terzo Mondo finisce direttamente nelle tasche di pochi ricchi, lasciando che miliardi di persone continuino a vivere in condizioni di estrema povertà.