OGGETTO: Blockchain: cosa significa?
DATA: 22 Dicembre 2021
SEZIONE: Economia
AREA: Altrove
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“Bitcoin è veleno per topi al quadrato” ruggiva qualche tempo fa l’investitore Warren Buffet seguito da altri illustri economisti ed esperti del settore. “È una frode” dichiarava il presidente di JP Morgan Jamie Dimon, ma dopo la crisi del 2008, ognuna di queste voci inizia a perdere credibilità.

La fiducia nei confronti del sistema bancario tradizionale è in parte venuta meno ed è proprio dalle ceneri di questa fiducia tradita che deriva parte del successo di Bitcoin e della tecnologia sulla quale si fonda: la blockchain. Ma come si arriva a questa tecnologia rivoluzionaria?

Bisogna tener presente che il tentativo di creare una moneta digitale interessa gli informatici già a partire dagli anni Ottanta. Nel 1983 David Chaum aveva previsto che l’avvento dei pagamenti digitali avrebbe messo a rischio la privacy delle persone per cui focalizzò le sue ricerche sulla creazione di eCash, una moneta digitale che attraverso una specifica tipologia di firma digitale (blind signature) era in grado di finalizzare transazioni finanziarie senza dover cedere informazioni personali. Tuttavia questo meccanismo non era ancora in grado di fornire un sistema completamente decentralizzato, in quanto si affidava alle banche per firmare la valuta digitale, per cui poteva essere comunque soggetto a forme di censura e corruzione.

Sempre negli stessi anni, nell’area di San Francisco, un gruppo di informatici e ingegneri si incontra per discutere sul modo in cui la crittografia avrebbe potuto evitare che la privacy degli utenti venisse violata. L’hacker Jude Milhon, meglio conosciuta con lo pseudonimo di St. Jude, battezzò questo gruppo come Cypherpunk. Per i Cypherpunk la crittografia doveva essere uno strumento per avere un impatto sulla società, per portare importanti cambiamenti al livello politico ed economico. Alcuni di loro avevano una vocazione anarchica e credevano che la crittografia avrebbe liberato il mondo dal controllo delle Big Corporation e dello Stato.

In questi anni nascono due visioni di intendere il codice tanto che nel 1997 viene pubblicato un testo, The Cathedral and the Bazaar, in cui l’autore Eric S. Raymond, compara due modelli di sviluppo del software: la cattedrale, dove il codice era controllato da un ristretto gruppo di sviluppatori, e il bazar dove il codice era pubblico e poteva svilupparsi attraverso internet. Se vogliamo trovare degli antenati della blockchain, possiamo ritrovarli proprio nel bazar, nell’idea dell’open source e nel sistema di reti peer-to-peer (una rete dove due o più nodi comunicano direttamente tra di loro).

Nel 1999 viene lanciato Napster, un software che permetteva agli utenti di condividere tracce musicali liberamente tra tutti i partecipanti, nel 2001 nasce BitTorrent, che permetteva di fare con i film quello che Napster faceva con la musica, mentre l’anno seguente esce eMule. Queste non sono altro che applicazioni peer-to-peer che interconnettono tra loro i nodi della rete e permettono agli utenti di condividere o trasferire dati direttamente, ovvero senza doversi rifare ad una entità terza. Proprio per questo tali sistemi sono considerati in grado di resistere nei confronti della censura, di attacchi e di manipolazioni.

Camila Russo, giornalista di Bloomberg, nel suo libro: The Infinite Machine paragona queste applicazioni alla creatura mitologica Idra: non puoi tagliare nessuna testa per ucciderla, e diventa sempre più forte dopo ogni attacco. Il gruppo dei Cypherpunk voleva creare un network peer-to-peer per lo scambio di danaro. Tuttavia c’era un problema centrale da risolvere, ovvero quello del double spending. Bisogna tener presente che la maggior parte delle transazioni finanziarie non avviene attraverso il contante, ma con moneta digitale, ovvero codice informatico che può essere replicato o falsificato. Per questo, prima dell’avvento della blockchain, le transazioni finanziarie per essere autenticate dovevano fare affidamento su terze parti di fiducia, ovvero istituzioni finanziarie che detengono un registro dei pagamenti e che ne facciano da garanti.

La sfida in sostanza era quella di essere in grado di trasferire denaro senza aver bisogno di intermediari. La volontà era quella di superare la fiducia come paradigma di funzionamento del sistema rimpiazzandola con la crittografia.

La svolta avvenne nell’ottobre del 2008, quando una persona, o un gruppo di persone, celate sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, inviò una email al gruppo: “Ho elaborato una versione puramente peer-to-peer di denaro elettronico, che permette di inviare pagamenti da un’entità ad un’altra senza passare tramite una istituzione finanziaria”. Insieme all’email allega il rinomato White Paper in cui spiega nei dettagli le fondamenta del progetto. Egli propone un network di nodi, dove ogni computer detiene la copia dell’intera storia delle transazioni. In breve possiamo definire la blockchain come un registro di transazioni pubblico, decentralizzato e permissionless, ovvero accessibile senza permesso o invito. Ciascuno è libero di scaricarlo e di entrare a far parte del network. La storia delle transazioni può essere controllata da tutti e gli utenti che vi partecipano sono identificati dalla loro chiave pubblica – una stringa di lettere e numeri – la quale deriva a sua volta dalla chiave privata che soltanto l’utente conosce e che deve custodire con cautela. Quest’ultima è necessaria per accedere ai propri fondi sulla blockchain e se viene persa automaticamente non è più possibile disporre delle proprie criptovalute, per questo l’utilizzo di questa tecnologia richiede responsabilità ed un certo grado di competenze informatiche.

Ma cosa avviene quando vengo inviati un certo quantitativo di bitcoin da un indirizzo ad un altro? Quando una transazione è eseguita è trasmessa a tutti i nodi della rete per consentire loro di aggiornare il proprio registro. Le transazioni sono messe insieme in un blocco di dati, che viene aggiunto alla blockchain attraverso un meccanismo di consenso chiamato proof-of-work (nel caso di Bitcoin e per il momento di Ethereum). Alcuni nodi del network sono miner, che competono tra di loro per risolvere un complesso puzzle matematico, necessario per aggiungere un blocco alla catena in modo sicuro. Il miner che trova prima il risultato viene ricompensato con un certo quantitativo di bitcoin. Questo processo chiamato mining, richiede circa 10 minuti per blocco nella blockchain di Bitcoin ed è estremamente importante, poiché rende molto difficile modificare i blocchi, in quanto se voglio manomettere un blocco devo ricalcolare il proof-of-work di quello e di tutti i successivi.

La ragione per cui una blockchain deve avere un proof-of-qualcosa (proof-of-work o proof-of-stake) è perché in un sistema decentralizzato serve un meccanismo che regoli il consenso in modo sicuro. Nel proof-of-work, il sistema misura quanto potere computazionale (la potenza totale dei processori dei miner) è messo dentro ogni blocco e così per poter prendere il controllo del network un attaccante deve avere più computing power del resto del network (dunque il 51% del totale – 51% attack). Questo significa che non basta ovviamente creare un miliardo di macchine virtuali (sybil attack) ma bisogna disporre di un grande numero di computer in grado di fare operazioni complesse attivi 24/7. Il proof-of-work dunque funziona, anche se molto costoso in termini di consumo di elettricità.

In definitiva in questo articolo si è tentato di riassumere il contesto in cui nasce la prima blockchain, ovvero quella di Bitcoin e in linea generale il suo funzionamento. Bisogna tener presente che quando si parla di blockchain bisogna sempre chiedersi: Quale? Perché in questi anni c’è stato un ampio sviluppo di questa tecnologia, esistono molte blockchain che si fondano su protocolli specifici, vengono implementate con differenti linguaggi di programmazione e seguono differenti meccanismi di consenso.

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