Ci siamo abituati a pensare che il capitalismo genera crisi perché genera crescita in sistemi economici decentrati, e dunque ogni tanto quel magnifico meccanismo di soddisfazione dei bisogni e ottimismo per il futuro si inceppa: qualcuno è stato troppo avido, qualcuno ha giocato col fuoco e ha rotto il giocattolo, qualcosa di spiacevole è successo in qualche luogo del mondo. E allora una breve ondata di pessimismo chiude per qualche mese la cornucopia, ma non è che un fisiologico e ciclico inciampo in un percorso trionfale.
Nulla di errato in principio, ma non tutte le crisi sono uguali; ovvero, non tutte spariscono in una nuvola di fumo, alcune diventano strutturali e scoprono scheletri fino ad allora rimasti ben nascosti. D’altronde, anche la crisi petrolifera era iniziata, appunto, come una crisi: eppure i tassi di crescita del mitizzato boom economico non sono mai più tornati, più precisamente perché i prezzi del greggio non sono mai più discesi ai livelli di prima. E il debito che fu necessario a redistribuire senza redistribuire i frutti del boom? Non ci ha più lasciato.
L’Occidente da allora entrò in quello che Paul Kennedy ha chiamato, ma Halford Mackinder aveva già intuito prima di lui, declino relativo: si chiude la parabola della propria affermazione sul mondo, inizia quella della ritirata: nuove potenze iniziano a crescere di più (definizione inadeguatamente grossolana, ma utile per comprendere), e dunque a rosicchiare quote di potere; arriva dunque il timore esistenziale di essere raggiunti e superati: qualcuno nel mondo ha imparato a produrre meglio di noi, gestisce la società in maniera più efficiente e ci guarda dall’alto in basso.
Il fiato sul collo dell’Est negli ultimi anni si è colorato di accenti decisamente concreti: persino in Occidente – i declinanti – qualcuno ha iniziato a pensare sinceramente che «di là, la gente facesse le cose meglio». Il 2008 fu per Pechino una specie di segnale divino: un +9% di fronte all’agonia finanziaria di tutto il mondo capitalista. Alle insicurezze economiche, si accompagnarono quelle politiche: l’autocrazia flessibile e meritocratica cinese è stata studiata e confrontata col modello democratico, con l’implicito fine di carpirne le miracolose origini dell’efficienza. Persino i metodi di controllo di massa vengono oggi, con fatalismo apatico, indicati come inevitabile prodotto della rivoluzione dei big data e delle tecnologie panottiche nelle pratiche di governo. Poi Trump, costretto a prendere misure drastiche nei confronti dei vantaggi competitivi cinesi come dovette fare Reagan contro il Giappone negli anni Ottanta. Infine, il COVID, che avrebbe dovuto «accelerare i processi», ovvero ridurre ancor di più lo sforzo cinese nel raggiungimento della vetta economica del mondo.
Oggi invece è proprio il COVID ad aver palesato tutte le debolezze cinesi, ad aver portato alla luce quelle debolezze strutturali finora ben conosciute ai più, ma più che altro affrescate sullo sfondo di un palcoscenico che continuava a rappresentare la scalata della locomotiva asiatica. Paventate, sì, ma sempre posizionate in un futuro astratto, a disvelare una non profonda convinzione perfino in chi le pronunciava.
Il sogno proibito dello stratega americano medio inizia a prendere forma. La Repubblica Popolare incontra davvero la prima crisi che da episodica minaccia di trasformarsi in deviazione definitiva da quel trionfale tappeto rosso verso la superpotenza economica. Minaccia di farlo perché è in grado di scoperchiare altri scheletri, perché, come abbiamo visto, ciò che si annuncia emergenziale e temporaneo talvolta diventa permanente, e perché talvolta diventa capace di scatenare reazioni destinate a marchiare una generazione.
La mirabile crescita cinese si è scoperta trainata da un settore immobiliare (30% dell’intero PIL) in piena bolla speculativa. Una bolla con caratteristiche cinesi, ovvero con intere città fantasma progettate per essere vendute quando ancora degli edifici non esistevano che le fondamenta. Un enorme circolo del debito privato in stile Lehman Brothers si è alla fine interrotto quando il Partito ha consapevolmente detto basta, consapevole di andare in contro al probabile fallimento di Evergrande (uno dei più grandi gruppi finanziari del paese, ndr). Si videro in quell’occasione proteste popolari di investitori e operatori del settore: un episodio più unico che raro nel contesto cinese.
Non proprio unico in realtà: è stato il COVID a scatenare quelle proteste di massa per lockdown la cui rigidità rischiava di far ripiombare la Cina nell’incubo ancestrale delle carenze alimentari. Al rigido approccio alla pandemia va poi anche il merito di aver reso vita dura ai settori orientati all’esportazione su cui la pluridecennale crescita cinese si fonda, industrie peraltro già fiaccate da anni di guerre commerciali con l’Occidente.
Come ogni tempesta perfetta, il talento della crisi cinese è stato quello di riuscire a scoperchiare una serie di squilibri latenti dell’economia: la disoccupazione giovanile, che ha raggiunto livelli europei (21,3%), peraltro in causa di un processo quintessenzialmente occidentale: lo skill mismatch causato dalla sovra-istruzione in settori con scarsa domanda di lavoro. Il Partito ha risposto, oltre che interrompendo la pubblicazione dei dati, invocando la necessità di un riorientamento verso le professioni manuali; un consiglio che suona tradimento e umiliazione ai giovani e ben istruiti cinesi urbanizzati.
E poi una crescita squilibrata, che ha rafforzato la nazione ma non sta aprendo i cordoni morali del consumismo. L’attività economica cinese è infatti ancora comandata da settori pesanti dell’economia e dall’export: l’immobiliare di cui sopra e progetti infrastrutturali di ogni sorta, mentre i beni di consumo han continuato principalmente ad imbarcarsi verso i porti occidentali. Certamente non si trattava di un modello miope: l’efficienza del sistema paese ha beneficiato grandemente di questa strategia, ma non ha abbellito le case dei nuovi borghesi d’Asia. Perlomeno, ne ha beneficiato finché il settore costruzioni non ha iniziato a produrre per gonfiare i report sulla produzione. Fino a ieri tra i pilastri del sistema meritocratico interno al Partito, oggi, ça va sans dire, anch’esso sotto la lente della critica.
Sotto accusa è in generale il patronage system cinese: ovvero quel circolo di legami torbidi tra potere politico e mondo dell’impresa che fino ad oggi era comunque riuscito ad orientare efficacemente il ceto industriale verso la crescita economica. La corruzione, nella fase iniziale, poté addirittura sortire effetto positivo, grazie al fatto di riuscire, per vie traverse, a mettere in comunicazione le richieste politiche della borghesia con la torre d’avorio della burocrazia di partito. Oggi però la competizione si gioca a livelli molto più alti, e i cedimenti dei favoritismi particolaristici sono inefficienze non più ammissibili.
I numeri si condensano nella frenata complessiva della crescita 2022, +4,5%: da far impallidire il nostro ceto medio, ma tale da accigliare quello dall’altra parte dell’Eurasia, che già adombra frustrazione per una crescita non così rapida a diffondersi quanto mostrato dai numeri ufficiali (e tacciamo delle sempreverdi – e ben argomentate – accuse di manipolazione del PIL cinese). Il dato scottante diventa dunque la deflazione in periodo di crisi energetiche (e, prima, di supply chain), simbolo della depressione della domanda interna. Per tacere del fatto che questa non farà altro che peggiorare lo stato delle crisi del debito privato e pubblico, la prima già ampiamente menzionata, la seconda particolarmente perniciosa a livello di enti locali.
Minaccia però di essere un balzo nel vuoto per un leader che soffre le vertigini: il consensus nel partito non vede infatti di buon occhio quella crescita guidata dalla domanda interna che potrebbe guidare la Repubblica Popolare su un nuovo percorso di crescita. E non la vede di buon occhio per quello stesso motivo per cui l’Unione Sovietica rifiutò la rivoluzione informatica degli anni Ottanta: l’ideologia. Allora si trattava di tecnologie che avrebbero trasformato una società operaia e comunitarista in una individualista e dominata dal ceto medio. Oggi si tratta di rifuggire quel riflesso del consumismo occidentale che, secondo Xi, ne ha fiaccato la spina dorsale. E, inoltre, sarebbe come togliere le fondamenta su cui si è costruito l’edificio della superpotenza cinese, dato che la sua ricchezza odierna si fonda in maniera preponderante proprio su quella compressione dei salari e su quell’inflazione che ne mantiene l’export, a tutti i livelli tecnologici, estremamente competitivo.